Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

“Tre camere a Manhattan” (Georges Simenon)

tre camere

“Forse era arrivato il momento di parlarle di sé…Combe lo sperava e al tempo stesso lo temeva.

Che cosa sarebbe successo, che ne sarebbe stato di loro quando si fossero finalmente decisi a guardare in faccia le rispettive realtà?

Fino a quel momento erano rimasti al di fuori della vita, ma a un certo punto, volenti o nolenti, avrebbero dovuto rientrarvi.

Forse lei indovinò i suoi pensieri perché, come era già avvenuto una volta, in taxi, la sua mano cercò quella di lui e la strinse dolcemente, a lungo, come per dirgli: “Non ancora”.

Combe aveva deciso di portarla a casa sua, e non osava farlo. Poco prima, uscendo dal Lotus, aveva pagato il conto; lei se n’era accorta ma non aveva detto niente.

Quel gesto poteva significare tante cose. Che quella era la loro ultima passeggiata, per esempio, l’ultima, quantomeno, al di fuori della realtà.

E forse era proprio per questo, per incamerare nella memoria un ricordo luminoso, che lei aveva voluto fare una passeggiata, a braccetto con lui, in Central park, dove un tiepido sole li avvolgeva negli ultimi sprazzi d’autunno.

Kay prese a canticchiare con aria assorta la loro canzone, il ritornello del piccolo bar. Ed ebbero entrambi la stessa idea; infatti quando cominciò a farsi sera e l’aria divenne più fresca, quando un’ombra più fitta li sorprese alle curve dei viali, si guardarono come per un tacito accordo e si diressero verso la Sesta Avenue.

Non presero il taxi. Continuarono a camminare. Come se quello fosse il loro destino, come se non potessero o non osassero fermarsi. Da quando si conoscevano, e avevano l’impressione di conoscersi da tanto, la maggior parte del tempo l’avevano passata a camminare così, lungo i marciapiedi, sfiorando una folla che neppure vedevano”.

(Georges Simenon, “Tre camera a Manhattan”, ed. Biblioteca Adelphi)

Rispetto agli altri romanzi di Simenon che finora ho letto, “Tre camere a Manhattan” mi è parso meno intrigante e avvincente, nonostante il tema, cioè una passione sconvolgente che scoppia improvvisa tra due sconosciuti. Se sono qui a scriverne, in ossequio alla promessa di non scrivere su ciò che non mi è piaciuto per niente, significa che si è trattato, comunque, di una lettura scorrevole.

Francois Combe, un attore francese emigrato a New York in cerca di fortuna, ma piuttosto in disarmo, vive solo, dopo essere stato lasciato dalla moglie, che gli ha preferito un uomo molto più giovane rispetto ai suoi quarantotto anni. Le sue serate sono “allietate” dai rumori che una coppia di vicini emettono nel corso dei loro amplessi. Una sera, però, al bar, è avvicinato da una donna, che comincia a parlare con lui. I due trascorrono l’intera notte passeggiando lungo le strade, finché non scoppia una passione improvvisa, che trova coronamento in una camera d’albergo. Nel corso del loro tragitto verso l’accoppiamento, i due non hanno scavato più di tanto nelle reciproche esistenze, e il tutto si è quindi svolto, in sostanza, tra perfetti sconosciuti, in una sorta di sospensione dalla loro quotidiana realtà.

Nonostante il tentativo di rimandare domande più profonde e la conoscenza che dalle stesse ne deriverà, Combe e Kay, questo il nome della donna dal volto che emana una stanchezza seducente, decidendo di restare insieme anche dopo la notte di passione, dovranno presto fare i conti con il loro passato e il loro presente. L’uomo, in particolare, comincia presto a provare una forte gelosia retrospettiva nei confronti dei presunti o reali ex-amanti di Kay. Comincia, quindi, un’altalena di sensazioni, stretti come sono tra la paura del vuoto, al quale dovrebbero tornare se decidessero di non dare seguito alla relazione, e la paura di scoprire cose dell’altro che fanno male, per quanto assurdo possa sembrare, considerata la perentorietà e casualità della notte infuocata che hanno vissuto. Le tre camere del titolo, infine, fanno riferimento a quella dell’albergo dove hanno passato la prima notte, a quella dell’uomo e a quella di Kay, che la condivideva con una sua amica scappata all’estero.

Il romanzo si legge, la scrittura è molto lineare e Simenon lascia intendere più che esplicitare i pensieri contorti dei protagonisti. Ho provato un po’ di stanchezza nel finale, ma considerando che la mole non è eccessiva, la cosa non è pesata più di tanto.

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7 pensieri su ““Tre camere a Manhattan” (Georges Simenon)

  1. All’inizio non mi piaceva per niente… bisogna entrare nel meccanismo di Simenon… fantastico!
    Luna

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