Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Ingeborg Bachmann e i suoi luoghi a Roma

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Ingeborg Bachmann, poetessa, giornalista e scrittrice austriaca, morì a Roma nell’ottobre del 1973, qualche giorno dopo un incendio avvenuto nella sua casa di Via Giulia n. 66.
Dal 1966 al 1971 aveva vissuto e lavorato in Via Bocca di Leone 60 ed è in questa via che è apposta una targa ricordo.
Nello spostarmi tra questi due luoghi, sono passato sul Lungotevere, seguendo un suo consiglio (“Bisogna camminare lungo il Tevere e non guardarlo dai ponti”) e rileggendo le emozionanti parole che la Bachmann ha dedicato alla città di Roma, in particolare lo scritto “Quel che ho visto e udito a Roma”, ed. Quodlibet.

“Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere, S.P.Q.R. La si può leggere sullo stemma degli autobus che passano, sulla copertura dell’accesso a una fogna. Essa è la carta d’identità delle fontane e delle bevande gravate da imposta; il segno dell’unica maestà che ha governato senza interruzioni la città.
Alla stazione Termini ho visto che a Roma i commiati sono presi più alla leggera che altrove. Perché quelli che partono lasciano a quelli che restano lo scontrino della nostalgia.”

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“1° settembre 1939” (W.H. Auden)

W H Auden

(Grazie al meraviglioso saggio di Iosif Brodskij, contenuto nel libro “Il canto del pendolo”, edizione Adelphi, ho scoperto con colpevole ritardo la poesia di W.H. Auden, che in seguito l’autore non inserì in una sua raccolta perché insoddisfatto di alcuni versi. La poesia è una profonda, sentita riflessione sul Male che alberga in ciascuno di noi e non solo nei tiranni.)

“1° SETTEMBRE 1939”, di W.H. Auden

Sono seduto in una delle bettole
della Cinquantaduesima strada*
incerto e spaventato
mentre scadono le astute speranze
d’un decennio basso e disonesto:
onde d’ira e paura
circolano per le luminose
e oscurate contrade della terra,
a ossessionare le nostre vite private;
l’indicibile odore della morte
offende la notte di settembre.
Meticolosa erudizione può
esumare l’offesa tutta intera che,
da Lutero ad oggi
ha spinto una cultura alla pazzia,
scoprire quello che successe a Linz**,
che smisurata imago fabbricò
un dio psicopatico:
io e il pubblico sappiamo
ciò che ogni bambino impara a scuola,
coloro a cui male è fatto,
male faranno in cambio.
L’esiliato Tucidide sapeva
tutto quello che può dire un discorso
sulla Democrazia***,
e quello che fanno i dittatori,
le sciocchezze senili che pronunciano
a un apatico sepolcro;
egli analizzò tutto nel suo libro,
la ragione messa al bando,
la sofferenza che si fa abitudine,
malgoverno e angoscia:
tutto questo ci è inflitto un’altra volta.
In quest’aria neutrale
dove ciechi grattacieli usano
tutta la loro altezza a proclamare
il vigore dell’Uomo Collettivo,
ogni lingua versa a gara
la sua scusa vana:
ma chi può vivere a lungo
in un sogno euforico;
guardano dallo specchio in fissità
il volto dell’imperialismo
e il sopruso internazionale.
Visi lungo il bancone
s’aggrappano al loro giorno medio:
le luci non devono mai spegnersi,
la musica deve continuare,
tutte le convenzioni cospirano
perché questa fortezza assuma in sé
l’arredamento di casa;
affinché non si veda dove siamo,
perduti in un bosco di fantasmi,
bambini paurosi della notte,
che non sono mai stati allegri o buoni.
La più ventosa roba militante
che Importanti Personaggi strillano
è meno rozza di quel che vogliamo:
ciò che Nijinsky impazzito scrisse
su Diaghilev****
è vero per il cuore più normale;
perché l’errore innato nelle ossa
di ogni donna e ogni uomo
bramare quel che non può avere,
non già l’amore universale,
bensì d’essere amato lui solo.
Dalla conservatrice oscurità
verso la vita etica
arrivano gli ottusi pendolari,
ripetendo il voto mattutino:
“Voglio essere fedele a mia moglie,
m’impegnerò di più sul lavoro”,
e i governanti inetti si svegliano
riprendendo il loro gioco obbligato:
chi può liberarli adesso,
chi può arrivare ai sordi,
chi può parlare per i muti?
Tutto quello che ho è una voce
che smuova la menzogna nascosta,
la menzogna romantica annidata nel cervello
del sensuale uomo della strada
e la menzogna dell’Autorità
i cui palazzi palpano il cielo:
non c’è una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste mai da solo;
la fame non consente scelta
al cittadino o alla polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.
Indifeso sotto la notte
il nostro mondo giace inebetito;
eppure, sparsi dappertutto,
ironici punti di luce
lampeggiano là dove i Giusti
si scambiano i loro messaggi:
oh, che io possa, composto come loro
d’Eros e di polvere,
assediato dalla medesima
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma che afferma.
(W. H. Auden, “1° settembre 1939″)

*Auden scrisse questa poesia nel 1939. Nello stesso anno si era trasferito negli Stati Uniti. Il 1° settembre 1939, com’è noto, la Germania nazista invase la Polonia.
**Linz è un paese austriaco dove Hitler passò parte della sua giovinezza.
***Allusione al libro di Tucidide, “La guerra nel Peloponneso”, ed in particolare all’orazione di Pericle.
****Diaghilev fu l’impresario teatrale che lanciò Nijinsky nella sua carriera da ballerino e ne fu anche l’amante.
(La traduzione riportata è una mia sindacabile, ma spero non tremenda, commistione tra la versione di Nicola Gardini, che ho trovato sul web, e quella riportata in note all’interno di “Il canto del pendolo”, di Iosif Brodskij, ed, Adelphi.)

“Fuga da Bisanzio” (Iosif Brodskij)

“Se mai un poeta ha un obbligo verso la società, è quello di scrivere bene. Essendo in minoranza, non ha altra scelta. Venendo meno a questo dovere, scivola nell’oblio. La società, d’altra parte, non ha alcun obbligo verso il poeta. La società, maggioranza per definizione, presume di avere altre opzioni che non leggere versi, per quanto ben scritti. Ma se trascura di leggere versi rischia di scivolare a quel livello di eloquio al quale una società diventa facile preda di un demagogo o di un tiranno. Questo è, per la società, l’equivalente dell’oblio: un tiranno, naturalmente, può tentare di salvare i propri sudditi con qualche spettacolare bagno di sangue.”
(Iosif Brodskij, “Fuga da Bisanzio”, ed. Adelphi)

“Confesso che ho vissuto” (Pablo Neruda)

“Federico non venne all’appuntamento. Camminava già verso la morte. Non lo vedemmo più. E in questo modo la guerra di Spagna, che cambiò la mia poesia, cominciò per me con la scomparsa di un poeta.
Che poeta! Non ho mai visto riuniti come in lui la grazia e il genio, il cuore alato e la cascata cristallina. Federico García Lorca era il folletto dissipatore, l’allegria centrifuga che raccoglieva nel suo seno e irradiava come un pianeta la felicità di vivere. Ingenuo e commediante, cosmico e provinciale, musicista singolare, splendido mimo, pauroso e superstizioso, raggiante e gentile, era una specie di riassunto delle età della Spagna, della fioritura popolare (…)
Mi seduceva il gran potere metaforico di García Lorca e mi interessava tutto quanto scriveva. Dal canto suo, mi chiedeva a volte di leggergli le mie ultime poesie e, a metà della lettura, mi interrompeva dicendo: <<Non andare avanti, non andare avanti, che mi influenzi>>.
Nel teatro e nel silenzio, fra la folla e nell’intimità, era un moltiplicatore della bellezza. Non vidi mai un uomo che avesse tanta magia tra le mani, non vidi mai un fratello più allegro. Rideva, cantava, musicava, saltava, inventava, faceva scintille. Poveretto, aveva tutti i doni del mondo e come fu un lavoratore d’oro, un fuco d’alveare della grande poesia, era uno sperperatore del suo ingegno (…)
Federico García Lorca non fu fucilato; fu assassinato. Naturalmente nessuno poteva pensare che un giorno l’avrebbero ammazzato. Fra tutti i poeti di Spagna era il più amato, il più caro, il più simile ad un bambino per la sua meravigliosa allegria. Chi avrebbe potuto credere che esistessero sulla terra, e sulla sua terra, mostri capaci di un delitto così inspiegabile?”
(Pablo Neruda, “Confesso che ho vissuto”, ed. Sugarco)

“Leggere, scrivere, recensire” (Virginia Woolf)

“Che cosa accade tra la mezzanotte e l’alba? Cos’è quella piccola scossa, l’attimo di stranezza e di disagio, come di occhi mezzi aperti alla luce, dopo il quale il sonno non torna più profondo come prima? È forse l’esperienza – ripetute scosse, ciascuna lì per lì inavvertita – che d’improvviso fa allentare la trama? partire una scheggia? Solo che quest’immagine suggerisce un’idea di collasso e disintegrazione, mentre il processo che intendo io è tutto il contrario. Comunque sia non è un processo distruttivo, bensì creativo.

Qualcosa di sicuro accadde. Il giardino, le farfalle, i suoni del mattino, alberi, mele, voci umane, sono emersi, si sono dichiarati. Come per effetto di una verga di luce l’ordine ha dominato il caos, la forma e il disordine. Forse sarebbe più semplice dire che ci svegliamo, dopo sa il cielo quali processi interni, con un senso di padronanza. Si avvicinano figure note, tutte nettamente profilate nella luce mattutina. Traspaiono attraverso il tremore e il riverberare dei gesti quotidiani scheletro e forma, durata e permanenza. Ora il dolore avrà il potere di produrre questa subitanea interruzione del fluire della vita, e così la gioia. Oppure avverrà senza motivo apparente, in modo impercettibile, un po’ come alle volte un bocciolo avverte nella notte un fremito e la mattina lo troviamo con tutti i petali distesi. A ogni modo i viaggi e le memorie, tutti i rami secchi, i detriti, il tempo accumulato, depositati in spessi strati sui nostri scaffali e che crescono come muschio ai piedi della letteratura, non sono più abbastanza precisi per i nostri bisogni. Alle ore del mattino si confà un altro genere di letture. Non è più il momento per frugare e rovistare, per socchiudere gli occhi e lasciarsi trasportare sui mari. Si ha voglia di qualcosa che possieda una sua forma e trasparenza, scolpita per catturare la luce, dura come gemma o pietra con il sigillo dell’umana esperienza, e tuttavia che custodisca, come un cristallo, la fiamma che ora brucia alta e ora s’inabissa nei nostri cuori. Abbiamo voglia di ciò che è senza tempo ed è del nostro tempo. Ma potremmo dar fondo a tutte le immagini, e far scorrere le parole tra le dita come acqua senza tuttavia riuscire a spiegare come mai, in mattine come questa, uno si sveglia con un desiderio di poesia.”

(Virginia Woolf, “Leggere, scrivere, recensire”, ed. La vita felice)

“Poesie del disamore” (Cesare Pavese)

Poesie disamore

“Torneremo per strada a fissare i passanti
e saremo passanti anche noi. Studieremo
come alzarci al mattino deponendo il disgusto
della notte e uscir fuori col passo di un tempo.
Piegheremo la testa al lavoro di un tempo.
Torneremo laggiù, contro il vetro, a fumare
intontiti. Ma gli occhi saranno gli stessi
e anche i gesti e anche il viso. Quel vano segreto
che c’indugia nel corpo e ci sperde lo sguardo
morirà lentamente nel ritmo del sangue
dove tutto scompare.
Usciremo un mattino,
non avremo più casa, usciremo per via;
il disgusto notturno ci avrà abbandonati;
tremeremo a star soli. Ma vorremo star soli.
Fisseremo i passanti col morto sorriso
di chi è stato battuto, ma non odia e non grida
perché sa che da tempo remoto la sorte
– tutto quanto è già stato o sarà – è dentro il sangue,
nel sussurro del sangue. Piegheremo la fronte
soli, in mezzo alla strada, in ascolto di un’eco
dentro il sangue. E quest’eco non vibrerà più.
Leveremo lo sguardo, fissando la strada.”

(Cesare Pavese, “Ritorno di Deola”, in “Poesie del disamore”, ed. Einaudi)

 

Consapevolezze.

Montale, Leopardi e soci mi convinsero che scrivere poesie non era il mio mestiere. Provai con i romanzi, ma Dostoevskij, Kafka, Balzac e altri soci mi fecere capire che dei miei romanzi potevo fare un bel falò. Restava la forma breve, i racconti e le novelle, ma Poe, Cechov e Guy de Maupassant mi spiegarono, gentilmente ma efficacemente, che dovevo farmi da parte. Per il teatro ci pensò Beckett, con un solo sguardo, senza parole.
Mi sono rimasti gli aggiornamenti su Facebook, su Twitter e gli articoli del blog, settori nei quali me la posso ancora giocare con milioni di persone.

“La Boemia è sul mare” (Ingeborg Bachmann)

Qualche tempo fa scoprii, leggendo altri libri di Ingeborg Bachmann, l’esistenza della poesia “La Boemia è sul mare”. La cercai sul web, trovando traduzioni molto differenti tra loro. Chiesi anche a una mia amica che conosce la lingua tedesca di tradurla o comunque di dirmi quale delle diverse versioni fosse la più aderente all’originale, per quanto sia improbabile, se non impossibile, tradurre poesia da una lingua all’altra.

Scopro adesso, grazie al sito Rai Letteratura, l’esistenza del video che riporto nel link sottostante (purtroppo non so perché non mi riesce d’incorporare l’anteprima nell’articolo, come per i video ripresi da youtube), nel quale la Bachmann, dopo aver introdotto la poesia con riferimento a Shakespeare, la legge. Di seguito al video, trascrivo la versione proposta nello stesso.

La Boemia è sul mare (Ingeborg Bachmann)

La Boemia è sul mare

Se qui sono verdi le case, entro ancora in una casa

se qui sono intatti i ponti, avanzo su solido fondo

se per sempre è persa ogni fatica d’amare, io qui la perdo volentieri

se non sono io, è un altro, ed è lo stesso che me

se una parola qui confina sino a me, io lascio che confini

se la Boemia è ancora sul mare, io credo di nuovo ai mari

e se credo di nuovo al mare, ancora spero nella terra

se sono io, è ogni altro, e vale lo stesso che me

non voglio più nulla per me, voglio precipitare fino in fondo

fino al mare, ritrovo là la Boemia

una volta dannato, nel fondo, mi risveglio sereno

ora questo so, fin dalle radici dell’animo e non mi posso più perdere

venite, boemi tutti, marinai, prostitute di porto e navi senza ormeggio

non volete essere Boemi, voi Illiri, Veronesi, Veneziani, tutti?

recitate le vostre commedie che fanno ridere e che son fatte per piangere

e per cento volte sbagliate, come mi sono sbagliato io

e mai ho superato una prova

no, le ho poi superate, una dopo l’altra

come la Boemia le ha superate un bellissimo giorno

fu premiata col mare ed è ora sul mare

io confino ancora con una parola, con un’altra terra

per quanto per poco, confino sempre più con tutto

sono un boemo, un errante, che non ha nulla e nulla tiene

soltanto capace di guardare dal mare, che è dubbio, la terra della mia scelta

(Ingeborg Bachmann)

“Delle simpatie e delle antipatie” (Charles Baudelaire)

Baudelaire1

“In amore come in letteratura, le simpatie sono involontarie; hanno però bisogno di essere confermate, e la ragione vi ha una parte ulteriore.

Le vere simpatie sono ottime, perché sono due in uno; le false sono detestabili, perché fanno solo uno, meno l’indifferenza originaria, che è meglio dell’odio, conseguenza inevitabile dell’inganno e della disillusione.

Perciò ammetto e ammiro il cameratismo in quanto è fondato su rapporti essenziali di ragione e di temperamento. È una delle sante manifestazioni della natura, una delle numerose applicazioni di tale sacro proverbio: l’unione fa la forza.

La medesima legge di franchezza e di semplicità deve guidare le antipatie. Tuttavia ci sono persone che s’inventano un odio come anche un’ammirazione, in modo sconsiderato. È una cosa assai imprudente; è farsi un nemico, senza profitto e senza vantaggio. Un colpo che non raggiunge il bersaglio nondimeno ferisce al cuore il rivale a cui era destinato, senza contare che può ferire a sinistra o a destra uno dei testimoni del duello.

Un giorno, durante una lezione di scherma, un creditore venne a disturbarmi; lo inseguii per le scale a colpi di fioretto. Quando tornai, il maestro d’armi, un gigante pacifico che mi avrebbe gettato a terra con un soffio, mi disse: – Come sperperate la vostra antipatia! Un poeta! Un filosofo! Ohibò! – Avevo perso tempo a fare due assalti, ero senza fiato, vergognoso, e disprezzato da un uomo in più, il creditore, a cui non avevo fatto niente di grave.

In realtà, l’odio è un liquore prezioso, un veleno più caro di quello dei Borgia, perché fatto con il nostro sangue, con la nostra salute, con il nostro sonno e con i due terzi del nostro amore! Occorre esserne avari!”

(Charles Baudelaire, “Consigli ai giovani scrittori”, Passigli Editori)

Sulla tomba di Petrarca e sul “pellegrinaggio”.

petrarca

Sto leggendo “La civiltà del Rinascimento” di Jacob Burckhardt, libro molto interessante, al quale tra qualche giorno potrei dedicare un articolo. Adesso, però, segnalo solo un passaggio riguardante Petrarca, tirato in ballo (assieme a Dante) come precursore di una certa “categoria” d’individui dei quali Burckhardt scrive. In particolare, però, questo testo su Petrarca è tratto da un capitolo sulla “gloria in senso moderno” e su culto delle abitazioni o dei luoghi di morte di scrittori, pittori, scultori e via discorrendo.

Scrive Burckhardt: “Anche Petrarca assaporò a larghi sorsi questa nuova glorificazione destinata dapprima soltanto agli eroi e ai santi, benché negli ultimi anni confessi egli stesso che gli riesce inutile e perfino molesta. La sua Lettera alla posterità è un conto che un uomo celebre, divenuto vecchio, si rende in dovere di rendere intorno a se stesso, per appagare la pubblica curiosità, e da essa si rileva che egli ambiva assai la gloria postuma e volentieri avrebbe rinunciato a quella che godeva tra i suoi contemporanei…E quanto non dovette sentirsi commosso quando in occasione di una sua gita ad Arezzo, sua patria, gli amici lo condussero nella casa dove era nato, e gli annunciarono che la città aveva decretato che in essa non si doveva permettere alcun mutamento!”. Prosegue Burckhardt, qualche riga dopo: “Al culto delle abitazioni si collega anche quello delle tombe d’illustri personaggi; anzi, quanto a Petrarca è oggetto di venerazione anche il luogo dove morì, e Arquà, appunto per la memoria che vi si conserva di lui, diviene un soggiorno assai ricercato dai Padovani, che vi innalzano eleganti edifici in un tempo in cui nei paesi settentrionali non si narra d’altro che di pellegrinaggi devoti a qualche immagine o reliquia miracolosa”.

(Jacob Burckhardt, “La civiltà del Rinascimento in Italia”, Newton Compton Editori))

“Pellegrinaggi”, scrive lo storico (ma non solo tale) svizzero. Tali parole hanno subito stimolato una zona del mio cervello, laddove è parcheggiata una lettura che feci qualche tempo fa, cioè “Se non la realtà” di Tommaso Landolfi. Nel brano intitolato “La gattina del Petrarca”, Continua a leggere…

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