Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “cinema”

“Blow up” di Antonioni e Julio Cortázar

 

(Quando vidi “Blow up” non sapevo neanche dell’esistenza di Julio Cortázar, quindi nemmeno mi accorsi/lessi che Antonioni aveva tratto ispirazione dal racconto “Le bave del diavolo”, appunto di Cortázar. Poco fa ho letto il racconto e, insomma, ora so questa cosa.)

“I due primi giorni accettai quello che avevo fatto, dalla foto in sé fino all’ingrandimento sulla parete, e non mi domandai neppure perché interrompevo ad ogni momento la traduzione del trattato di José Norberto Allende per ritrovare il viso della donna, le macchie oscure sulla spalletta. La prima sorpresa fu stupida; non mi era mai capitato di pensare che quando guardiamo una fotografia di fronte, gli occhi ripetono esattamente la visione e la posizione dell’obiettivo; sono cose queste che si danno per scontate, e nessuno si sofferma a ripensarle. Dalla mia sedia, con la macchina per scrivere davanti, fissavo la foto lì a tre metri di distanza; e allora mi venne in mente che mi ero esattamente nel punto di mira dell’obiettivo. Così andava bene; senza dubbio era il modo migliore per apprezzare una foto, anche se la visione in diagonale poteva avere i suoi incanti e magari anche le sue sorprese. Di tanto in tanto, per esempio quando non trovavo il modo di rendere in buon francese quello che José Norberto Allende diceva in così buon spagnolo, alzavo gli occhi e guardavo la foto; ora mi attirava la donna, ora il ragazzo, ora il selciato, su cui una foglia secca si era ammirevolmente situata per valorizzare un settore laterale. Allora riposavo un istante dal mio lavoro, e rientravo una volta di più in quella mattina che permeava la fotografia, ricordavo ironicamente l’immagine collerica della donna che esigeva la consegna della pellicola, la fuga ridicola e patetica del ragazzo, l’entrata in scena dell’uomo dalla faccia bianca…”

(Julio Cortázar, “Le bave del diavolo”, in “I racconti”, ed. Einaudi)

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“Cambiare idea” (Zadie Smith)

Cambiare idea

“Ci sono momenti in cui leggere Wallace diventa insostenibile, e il peso degli ostacoli che si accumulano di fronte al lettore sono insormontabili: mancanza di contesto, complessità retorica, individui orrendi, argomento grottesco o assurdo, lingua che è – allo stesso tempo! – puerilmente scatologica e fastidiosamente sibillina. E se uno è abituato a trovare sollievo nel “carattere” dei personaggi, be’, allora con Wallace si trova davvero in un vicolo cieco. I suoi racconti non indagano affatto il carattere dei personaggi: non se lo propongono neanche. Sono viceversa rivolti all’esterno, verso di noi. È il nostro carattere quello che viene sottoposto a indagine. Ma non si tratta propriamente di metafiction. L’autore di metafiction usava la ricorsività per sottolineare la mediatezza della voce narrante: per dire, in buona sostanza: “Io sono l’acqua, e voi state nuotando dentro di me”. La ricorsività, per questo tipo di autore, significa ritornare su sé stessi, circolarmente, in una serie infinita di regressioni. Questo testo non è neutrale, viene scritto da qualcuno, lo sto scrivendo io, ma io chi sono? E così via. Quello che è “ricorsivo” nei racconti di Wallace non è la sua voce narrativa ma il modo in cui scorrono le storie, e cioè come verbali di processi matematici, in cui almeno una delle fasi del processo richiede una nuova esecuzione di tutto il processo in questione. E siamo noi a doverle far scorrere in questo modo. Wallace ci colloca all’interno del processo ricorsivo, ecco perché leggerlo è spossante sul piano emotivo e intellettuale”.

(Zadie Smith, “Cambiare idea”, ed. Minimum fax)

Se dovessi indicare motivi validi per acquistare “Cambiare idea” di Zadie Smith, mi basterebbe scrivere un articolo nel quale tessere l’elogio del saggio che è contenuto nelle ultime cinquanta pagine, dedicato a David Foster Wallace e in particolare al suo “Brevi interviste con uomini schifosi”. Vincerò questa tentazione Continua a leggere…

Danilo Kiš sulla morte e la lucidità

(Sono a pagina 156 su 272 e “Clessidra” mi appare già come l’apertura verso un “mondo” che vorrò frequentare: la mente e la scrittura di Danilo Kiš. Per darvi un altro assaggio della sua prosa, ho scelto il brano sottostante, ma avrei potuto sceglierne diversi e su altri temi. Resta la sensazione di aver “scoperto” un grande autore)

“Che cosa sono tutti gli sforzi dell’umanità, tutto ciò che si chiama storia, civiltà, tutto ciò che l’uomo fa e ciò che fa l’uomo, che cos’è tutto questo, se non un inutile e vano tentativo di opporsi all’assurdo della morte universale, di dare ad essa un senso apparente, come se la morte potesse avere un senso, come se alla morte si potesse dare un significato e un senso diverso da quello che ha! I filosofi, i più cinici, tentano di dare un senso al non senso della morte mediante una logica superiore o una battuta spiritosa che possano servire di consolazione generale, ma quello che resta, almeno per me, il massimo dei misteri è la domanda: che cos’è che permette all’uomo, nonostante la sua consapevolezza della morte, di vivere e di operare come se essa fosse qualcosa di estraneo a lui, come se la morte fosse un fenomeno naturale? Il tremito che mi ha scosso negli ultimi giorni mi ha aiutato a capire, nonostante i gravi attacchi di paura, che la mia malattia non è altro che questo: a volte, per ragioni a me del tutto ignote e per impulsi assolutamente incomprensibili, io divento lucido, in me compare la coscienza della morte, della morte in quanto tale; in questi momenti di illuminazione diabolica la morte acquista per me il peso e il significato che essa ha an sich, e che gli uomini perlopiù non intuiscono nemmeno (ingannandosi con il lavoro e con l’arte, mascherando il suo senso e la sua vanitas con formule filosofiche), scoprendo il suo vero significato solo nel momento in cui essa bussa alla porta, in modo chiaro e inequivocabile, con la falce in mano, come nelle incisioni medievali. Ma quello che mi atterriva (la consapevolezza non genera consolazione) e accresceva ancor di più il mio tremito interiore, era la coscienza che la mia follia era in fondo lucidità e che per guarire – perché questo continuo tremito è insopportabile – avevo bisogno proprio della follia, della demenza, dell’oblio, e che solo la demenza mi avrebbe guarito! Se per caso il dottor Papandopulos mi interrogasse ora sul mio stato di salute, sull’origine dei miei traumi, delle mie paure, adesso saprei rispondergli in modo chiaro e inequivocabile: la lucidità.

(Danilo Kiš, “Clessidra”, ed. Adelphi)

“Fuoco fatuo” (Pierre Drieu La Rochelle)

fuoco fatuo

“Aveva incontrato Dorothy troppo tardi. Era la donna bella, buona e ricca di cui avevano bisogno le sue debolezze; ma ormai quelle debolezze erano consumate. Aveva aspettato troppo. Non aveva saputo a tempo debito gettarsi sulle donne e conquistarle quando ancora piaceva loro e ne incontrava di ogni genere, ma aveva mantenuto l’abitudine della sua adolescenza, di attenderle e guardarle da lontano. Fino a venticinque anni, per tutto il tempo che era stato sano e molto bello, aveva avuto solo fugaci infatuazioni, e subito abbandonava la presa, scoraggiato da una parola o da un gesto, temendo di non piacere più o di non riuscire ad amare abbastanza a lungo, tentato dal momentaneo piacere di un’uscita buffonesca, subito seguita, oltre la soglia, da un’inebriante amarezza. E così non aveva nessuna esperienza del cuore delle donne, né del suo, e ancora meno dei corpi”.

(Pierre Drieu La Rochelle, “Fuoco fatuo”, ed. Se)

In un percorso a ritroso non programmato, sono giunto alla lettura di “Fuoco fatuo”, romanzo scritto da Pierre Drieu La Rochelle e pubblicato nel 1931, dopo aver già visto il film che Louis Malle girò nel 1963 e aver ascoltato la canzone dei “Massimo volume” ispirata al libro e/o al film. Premesso che i paragoni tra i romanzi e i film a essi ispirati non mi appassionano più di tanto, Continua a leggere…

“Doppio sogno” (Arthur Schnitzler)

doppio sogno

“Così le ore erano trascorse monotone e prevedibili tra compiti quotidiani e lavoro, la notte precedente, dal principio alla fine, era sbiadita; solo adesso, quando entrambi avevano concluso la loro giornata, la bambina era andata a dormire e nulla più poteva recare disturbo, i fantasmi del ballo, lo sconosciuto malinconico e le maschere in domino rosso, si innalzarono di nuovo alla realtà; e a un tratto quelle esperienze insignificanti apparvero magicamente, dolorosamente circonfuse dell’ingannevole splendore delle occasioni mancate. Si susseguirono domande innocenti e tuttavia inquisitrici, risposte ambigue e maliziose: a nessuno dei due sfuggì che l’altro non era completamente sincero, perciò si sentirono entrambi inclini a una blanda vendetta. Ingigantirono l’attrattiva esercitata dai loro ignoti compagni del ballo, ciascuno dei due schernì l’altro per i moti di gelosia che lasciava trasparire e negò i propri. Ma dai discorsi frivoli sulle futili avventure della notte passarono a una conversazione più seria su quei desideri nascosti, appena avvertiti, che anche nell’anima più limpida e pura riescono a scavare gorghi torbidi e pericolosi, e parlarono delle misteriose regioni di cui quasi non percepivano il richiamo, ma dove una volta o l’altra il vento imperscrutabile del destino avrebbe potuto gettarli, fosse pure in sogno. Sebbene infatti si appartenessero del tutto l’un l’altro nell’affetto e nei sensi, sapevano che ieri, non per la prima volta, li aveva sfiorati un alito di avventura, di libertà e di pericolo; ansiosamente, morbosamente, con sleale curiosità, tentarono di carpirsi a vicenda un’ammissione e ciascuno, in un esame angoscioso e approfondito, scrutava sé stesso alla ricerca di qualche fatto per quanto indifferente, di qualche esperienza per quanto trascurabile, che potesse servire a esprimere l’inesprimibile e la cui franca confessione li avrebbe forse liberati da un’inquietudine e da una diffidenza che a poco a poco cominciavano a diventare insopportabili.” Continua a leggere…

Slavoj Žižek su “Strade perdute” di Lynch

“Tramite questo confronto diretto tra la realtà del desiderio e il fantasma, Lynch scompone l’ordinario ‘senso della realtà’ sostenuto dal fantasma in due parti: da un lato, la realtà pura e asettica, dall’altro il fantasma; le due componenti non si relazionano più verticalmente (il fantasma sostiene la realtà), ma orizzontalmente, una accanto all’altra. La notevole differenza esistente tra le due parti del film è la prova cruciale del fatto che il fantasma sostiene il nostro ‘senso della realtà’: la prima (realtà senza fantasma) è ‘superficiale’, oscura, quasi surreale, stranamente astratta, incolore, senza sostanza, enigmatica come un dipinto di Magritte, con gli attori che recitano come in una commedia di Beckett o di Ionescu, come automi alienati. Paradossalmente, è nella seconda parte (quella del fantasma) che ritroviamo un ‘senso di realtà’ molto più intenso e pieno, il senso di pienezza dei suoni e degli odori, di persone che si muovono nel ‘mondo reale’…”

(Slavoj Žižek, “Lynch: il ridicolo sublime”, ed. Mimesis)

zizek

“Maschere” (l’ennesimo articolo sconclusionato e mascherato)

“Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio…un tale uomo riservato, che istintivamente si serve delle parole per tacere e per celarle ed è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una maschera; e anche ammesso che egli non voglia tutto questo, un bel giorno gli si spalancheranno gli occhi sul fatto che a onta di ciò v’è laggiù una sua maschera – e che è bene che le cose stiano a questo modo. ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera; e più ancora, intorno  a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà”.

(F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”, Lo spirito libero, af. 40, ed. Adelphi)

Indosso la maschera da blogger e inizio a scrivere quest’articolo, stimolato da un paragone che una mia conoscenza “virtuale” mi ha suggerito, e che nobiliterà questo scritto privo di ambizioni. Il tema mi affascina da sempre, ma non è semplice scriverne, perché è stato già affrontato da grandi pensatori e quindi non c’è molto da aggiungere. Si tratta della maschera sociale che indossiamo quotidianamente nelle più diverse situazioni e delle collegate nozioni di persona e personaggio. La maschera, Continua a leggere…

Silenzi evocativi (“lei è così”)

Lei è così

Sto leggendo il romanzo “Il capro espiatorio” di Strindberg. A un certo punto, di fronte alle parole che seguono, mi è tornata in mente una scena del film “L’idiota” di Akira Kurosawa, ispirato all’omonimo romanzo di Dostoevskij. Probabilmente il “corto-circuito” mentale è scattato solo perché oggi (vedi post precedente) è il “compleanno” dell’autore russo, o forse per qualche altro motivo che è meglio non indagare. Insomma, ecco il fotogramma tratto dal film (che vi consiglio, a me è piaciuto molto) e le parole di Strindberg.

“Libotz aveva la bocca secca, si sentiva la testa vuota, lanciava occhiate verso i campi coltivati per trovare un argomento di conversazione, mentre dentro di sé era tormentato da un processo che tuttavia non voleva sfiorare.

Dopo che i suoi pensieri per un bel po’ di tempo furono occupati dagli atti processuali, Karin trovò il silenzio fuori luogo e cominciò a provare disagio.

– Dì qualcosa, Edvard! È tremendo quando taci.

Libotz si liberò dal pensiero delle testimonianze, ma perse il controllo e nella situazione penosa disse ciò che non avrebbe mai dovuto dire, cioè: – Che cosa dovrei dunque dire?

Era la dichiarazione di bancarotta, i guanti sul tavolo, il filo era reciso. Due persone estranee camminavano l’uno accanto all’altra e pensavano, pensavano a loro come coppia, alla loro relazione, alla causa del silenzio. E, ben presto, quanto era estraneo si trasformò in qualcosa di ostile. Si sentivano infedeli, perché potevano camminare e pensare in silenzio senza dire ciò che pensavano, e più essi tacevano, peggio diventava. Nella sua disperazione Libotz afferrò una pianta dal ciglio, ed esclamò fingendo interesse: – Ma che guarda, che fiore strano!

Karin sentiva sia la finzione in quell’atteggiamento di sorpresa sia l’elemosina che egli le porgeva, pertanto non guardò e non rispose, aumentò invece solo il passo come se volesse fuggire da tutto.”

(August Strindberg, “Il capro espiatorio”)

“Il taglio del bosco” (Carlo Cassola)

cassola

“In mezza giornata non avevano scambiato dieci parole; ma il lavoro aveva sopperito alla mancanza di compagnia. Peggio furono i due giorni seguenti, perché vollero rispettare sia il Natale che la domenica. La prospettiva di una giornata vuota fece sì che la mattina di Natale Guglielmo si alzasse il più tardi possibile. Bevuto il caffè, rimasero per un paio d’ore seduti sul letto l’uno di fronte all’altro. Ogni tanto Fiore attizzava il fuoco. Guglielmo fumò tre o quattro sigarette, ma un incipiente mal di testa (egli vi andava soggetto) lo costrinse a smettere. Ed erano appena le nove di mattina.

– Sarei andato volentieri a casa, ma dopo la disgrazia della moglie…- cominciò.

Una specie di grugnito costituì la risposta di Fiore, scoraggiando l’altro a proseguire.

Il fuoco si stava spegnendo. Guglielmo pesticciò torno torno la cenere, quindi uscì fuori; sbadigliò, fece due passi per la tagliata. Non c’era proprio nulla da fare, nulla a cui pensare”.

(Carlo Cassola, “Il taglio del bosco”)

Il taglio del bosco”, romanzo breve di Carlo Cassola, è un piccolo gioiello che dimostra come si possa fare della letteratura di livello senza ricorrere a una trama ricca di colpi di scena, a un linguaggio ricercato o a scene-madri memorabili. La vicenda narrata riguarda un gruppo di cinque boscaioli, che si recano su un monte della Maremma toscana per tagliare la legna, guidati da Guglielmo, colui che ha ottenuto il diritto per eseguire i lavori e che è il perno della storia. Giorgio Bassani, grande scrittore (del quale vi consiglio, ad esempio, “Il giardino dei Finzi-Contini”, “Le storie ferraresi” e “Gli occhiali d’oro”), scrive, nell’introduzione al testo, che nel romanzo di Cassola “vige la poetica in base a cui nulla veramente accade che possa essere raccontato, e ogni sentimento, per quanto profondo e doloroso sia, in realtà è ineffabile”.

Bassani ha colto quella che anche a mio (molto più modesto) parere è l’essenza del libro di Cassola, cioè l’impossibilità di condividere il proprio dolore attraverso le parole, nonché l’ineluttabilità dello stesso. I cinque taglialegna Continua a leggere…

“Monsieur Verdoux”, la Crisi e il cubo di Rubik inopportuno.

Trascrivo qui, riadattato e modificato, quello che doveva essere un discorso introduttivo alla visione di “Monsieur Verdoux” di Charlie Chaplin, nell’ambito della rassegna cinematografica “Krisis, tra filosofia, estetica, sopravvivenza e fantascienza”, organizzata nel mio paese da alcuni miei amici, uno dei quali ha chiesto anche a me di dire qualcosa sul tema della “crisi” e sul film.

Specifico che un altro mio amico ha affrontato, contestualmente, questo tema sotto il profilo storico (crisi del 1929 rapportata a quella attuale) e poi ci ha parlato di “Guernica” di Picasso. Specifico che sulla resa orale del testo riportato non oso azzardare un giudizio su me stesso, ma sono certo (non avendo portato con me un promemoria) di aver omesso, aggiunto, modificato gran parte di quanto avevo preparato. Specifico inoltre che tutto quanto segue è frutto solo di una ricerca appassionata e che non sono uno studioso né di letteratura né di cinema né, soprattutto, di storia, ma un semplice lettore curioso.

Non specifico più nulla e vi lascio, ammesso che non vi siate già stufati, ai miei deliri.

1. LA LETTERATURA DELLA CRISI

“Crisi” è una parola che negli ultimi anni abbiamo ascoltato o letto chissà quante volte nei telegiornali, nei quotidiani, su internet o anche semplicemente per strada. Come tutte le parole, quando sono abusate, rischiano di veder il loro significato sminuito. “C’è la crisi” è diventato uno slogan molto in voga, talvolta persino un alibi. Ora, a livello macroscopico, di grandi numeri, sono gli analisti, gli economisti, gli esperti a ciò preposti a spiegarci, con termini spesso molto tecnici, cosa significa una crisi economica (a tal proposito segnalo, per esempio, le pagine sul sito Treccani sulla crisi del 1929, con qualche riferimento all’attuale).

A livello individuale, però, non c’è bisogno dei suddetti esperti. Ciascuno di noi percepisce sulla propria pelle la difficoltà e talvolta si definisce in crisi. La crisi, il clima generale di sfiducia, di perdita di aspettative nel futuro, la sentono i singoli individui; i numeri sui milioni di disoccupati c’impressionano, ma ancora di più ci colpisce vederla sul volto di un nostro conoscente soprattutto siamo colpiti quando noi, in prima persona, perdiamo certezze, di qualsiasi tipo esse siano.

È banale, ma forse non superfluo, ricordare che la questione “crisi” è molto soggettiva. C’è chi si lamenta che la crisi economica è grave perché non può concedersi quattro cocktail la sera al bar e chi, purtroppo, ha ben altri e più drammatici problemi. C’è chi, poi, non sa nemmeno quale sia la differenza tra un periodo di crisi e uno senza, o perché talmente benestante da non risentirne o perché, al contrario, non ha tempo per disquisizioni come questa ed è impegnato a sopravvivere. Su questo, non ritengo sia necessario aggiungere altro.

La crisi non è una parola legata solo a incertezze finanziarie, che semmai possono enfatizzare altri tipi di crisi. Mi riferisco a situazioni che tutti voi avrete, chi più chi meno, provato. Crisi sentimentali, relative a scelte da compiere, a rapporti sociali di vario genere, o anche, potrebbe capitare, la crisi di chi va nel panico durante un intervento in pubblico e non sa più cosa dire.

(a questo punto, in realtà, nel mio discorso orale s’è inserita una grossa parentesi, che in parte ha “mangiato” tutto la parte del discorso che segue, riprendendone alcuni spunti, ma più che altro cestinando i riferimenti letterati che avevo preparato; in sostanza, ho tirato fuori un’assurda riflessione scaturita quasi al momento dell’inizio del discorso, causata dalla visione del cubo di Rubik. Continua a leggere…

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