Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Voluttà unica e suprema dell’amore”

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“Credo d’aver già scritto nelle mie note che l’amore è molto simile a una tortura o a un’operazione chirurgica. Ma questa idea può venire sviluppata in modo amarissimo. Anche se i due amanti sono molto innamorati e colmi di reciproci desideri, uno dei due sarà sempre più calmo o meno invasato dell’altro. Quello, o quella, è l’operatore, ovvero il carnefice; l’altro, o l’altra, è l’assoggettato, la vittima. Sentite quei sospiri, preludi a una tragedia di disonore, quei gemiti, quei gridi, quei rantoli? Chi non li ha proferiti, chi non li ha irresistibilmente estorti? E che trovate di peggio nella tortura inflitta da scrupolosi seviziatori? Quegli occhi stralunati da sonnambulo, quelle membra i cui muscoli balzano e s’irrigidiscono come l’azione di una pila galvanica, l’ebbrezza, il delirio, l’oppio, nei loro effetti più furiosi, non ve ne daranno di certo esempi così singolari, così orrendi. E il volto umano, che Ovidio credeva modellato a riflettere gli astri, ecco che parla soltanto un’espressione di folle ferocia, o si allenta in una specie di morte. Perché, certo, crederei di fare un sacrilegio usando la parola estasi per questa specie di decomposizione.

– Spaventevole gioco in cui occorre che uno dei giocatori perda il dominio di sé!

Una volta fu chiesto in mia presenza in che consistesse il più grande piacere dell’amore. Qualcuno rispose con naturalezza: nel ricevere, – e un altro: nel donarsi. – Questi dice: piacere d’orgoglio! – e quello: voluttà d’umiltà! Tutti quei porci parlavano come “L’Imitazione di Gesù Cristo”. Ci fu poi un impudente utopista che asserì che il più grande piacere dell’amore era di formare cittadini per la patria.

Io, invece, dico: la voluttà unica e suprema dell’amore sta nella certezza di fare il ‘male’. – E l’uomo e la donna sanno fin dalla nascita che nel male si trova ogni voluttà.”

(Charles Baudelaire, “Razzi”, in “Il mio cuore messo a nudo”, ed. Adelphi)

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“Delle simpatie e delle antipatie” (Charles Baudelaire)

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“In amore come in letteratura, le simpatie sono involontarie; hanno però bisogno di essere confermate, e la ragione vi ha una parte ulteriore.

Le vere simpatie sono ottime, perché sono due in uno; le false sono detestabili, perché fanno solo uno, meno l’indifferenza originaria, che è meglio dell’odio, conseguenza inevitabile dell’inganno e della disillusione.

Perciò ammetto e ammiro il cameratismo in quanto è fondato su rapporti essenziali di ragione e di temperamento. È una delle sante manifestazioni della natura, una delle numerose applicazioni di tale sacro proverbio: l’unione fa la forza.

La medesima legge di franchezza e di semplicità deve guidare le antipatie. Tuttavia ci sono persone che s’inventano un odio come anche un’ammirazione, in modo sconsiderato. È una cosa assai imprudente; è farsi un nemico, senza profitto e senza vantaggio. Un colpo che non raggiunge il bersaglio nondimeno ferisce al cuore il rivale a cui era destinato, senza contare che può ferire a sinistra o a destra uno dei testimoni del duello.

Un giorno, durante una lezione di scherma, un creditore venne a disturbarmi; lo inseguii per le scale a colpi di fioretto. Quando tornai, il maestro d’armi, un gigante pacifico che mi avrebbe gettato a terra con un soffio, mi disse: – Come sperperate la vostra antipatia! Un poeta! Un filosofo! Ohibò! – Avevo perso tempo a fare due assalti, ero senza fiato, vergognoso, e disprezzato da un uomo in più, il creditore, a cui non avevo fatto niente di grave.

In realtà, l’odio è un liquore prezioso, un veleno più caro di quello dei Borgia, perché fatto con il nostro sangue, con la nostra salute, con il nostro sonno e con i due terzi del nostro amore! Occorre esserne avari!”

(Charles Baudelaire, “Consigli ai giovani scrittori”, Passigli Editori)

“Il libro dell’inquietudine” (Fernando Pessoa)

Il libro dell'inquietudine

“Ci sono giorni nei quali ogni persona che incontro e, ancor di più, le persone abituali della mia convivenza obbligata e quotidiana, assumono aspetti di simboli e, isolati o fra loro connessi, formano un alfabeto profetico od occulto che descrive in ombre la mia vita. L’ufficio diventa per me una pagina con parole fatte di gente; la strada è un libro; le parole scambiate con i conoscenti o gli sconosciuti che incontro sono espressioni per le quali viene meno il dizionario ma non completamente la comprensione. Parlano, si esprimono; eppure non parlano di se stesse e non esprimono se stesse; sono parole, ho detto, e non indicano, lasciano solo intendere. Ma, nella mia visione crepuscolare, distinguo solo vagamente quanto queste vetrate, che si rivelano sulla superficie delle cose, lasciano trasparire dalla loro interiorità che custodiscono e rivelano. Intendo senza arrivare alla coscienza, come un cieco al quale si parli di colori.

A volte, passando per la strada, colgo brani di conversazioni intime, e si tratta quasi sempre di conversazioni sull’altra donna, sull’altro uomo, sul ragazzo di uno o sull’amante dell’altro…

Per il solo fatto di sentire queste ombre di discorso umano, che poi in fondo è tutto ciò di cui si occupa la maggioranza delle vite coscienti, porto dentro di me un tedio disgustato, l’angoscia di un esilio tra ragni e l’immediata consapevolezza della mia umiliazione fra gente reale; la condanna, nei confronti del proprietario e del luogo, di essere simile agli altri inquilini dell’agglomerato; di stare a spiare con disgusto, fra le sbarre del retrobottega, l’immondizia altrui che si ammucchia sotto la pioggia in quel cortile interno che è la mia vita”

(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine).

Dopo aver reso parziale giustizia a Joyce, assente di lusso da queste mie pagine, stavolta mi dedico a Fernando Pessoa e al suo “Il libro dell’inquietudine”, capolavoro che lessi tanti anni fa in uno stato d’animo fin troppo predisposto ad assorbire le parole del grande scrittore portoghese. La rilettura che ho appena terminato mi ha permesso di apprezzare ancora di più il libro, proprio perché meno schiavo di certi pensieri mesti che mi avevano avvinghiato al testo di Pessoa.

Nella prefazione al libro, il compianto Antonio Tabucchi, traduttore nonché tra i principali divulgatori dell’opera di Pessoa, spiega il titolo originale dell’opera, “Livro do desassossego por Bernardo Soares” come indicativo della mancanza di sossego, cioè tranquillità o quiete. Lo stesso Tabucchi evidenzia come “Il libro dell’inquietudine”, in qualsiasi versione lo abbiate nelle vostre mani, debba essere considerato un libro potenziale, ipotetico, un’opera aperta, ricostruita secondo determinati criteri dagli esegeti di Pessoa, Continua a leggere…

“Da Montaigne a Proust. Ricerche sulla storia della cultura francese” (Erich Auerbach)

Auerbach

“E quest’opera è stata dettata dalla disperazione e dall’amara voluttà della disperazione. Il mondo di quest’opera è un carcere, in cui a volte c’è anche lo stordimento ed anche il lenimento; a volte, il godimento estatico dell’orgoglio dell’artista. Ma è un carcere senza uscita. E l’uscita non deve nemmeno esserci. Jean-Paul Sartre, così acuto e concreto, anche se troppo tendenzioso, ha descritto magnificamente il modo in cui l’uomo Baudelaire si è aperto la via in quella situazione senza uscita e si è lui stesso preclusa ogni possibilità di ritorno ed ogni scappatoia. Per lo studio della posizione storica dei Fleur du Mal è significativo constatare come proprio a metà dell’Ottocento un uomo abbia potuto giungere ad un’organizzazione interiore e ad una vita di quel genere, e sia anzi riuscito ad esprimersi pienamente, tanto da manifestare qualcosa che in quell’epoca era ancora nascosto e che molti, a poco a poco, per mezzo suo, scoprirono e conobbero.”

(Erich Auerbach, “Les Fleurs du Mal di Baudelaire e il sublime”, in “Da Montaigne a Proust. Ricerche sulla storia della cultura francese”, ed. Garzanti, 1970)

In questo testo sono raccolti una serie di saggi scritti da Auerbach nel corso della sua esistenza, a distanza di diversi anni l’uno dall’altro, accomunati dal riferirsi tutti ad autori francesi. Il sottotitolo, inoltre, ci fa comprendere come l’autore non si limiti a un’interpretazione dei singoli frammenti degli autori prescelti, ma tenti di inquadrare ciascuno di essi nel proprio orizzonte storico e culturale. Il primo saggio è su Montaigne, a suo avviso primo “uomo di lettere” moderno. Continua a leggere…

I miei 35 motivi semiseri per amare la Letteratura

Sono immerso nella lettura della “Critica della ragione pura” di Kant e quindi ho meno tempo a disposizione per leggere altro o scrivere articoli. Ho pensato, così, di “barare”, ripubblicando un mio vecchio articolo, scritto e pubblicato marzo. All’epoca il mio blog era molto meno seguito, ma a qualcuno piacque questa mia lista semiseria. La propongo anche a chi mi “segue” da meno tempo. Spero che voi abbiate altrettanti e maggiori motivi di amare la Letteratura. 🙂

  • perché quando sono in fila alla posta, dal dottore o altrove posso attendere il mio turno senza morire di noia
  • perché l’ultima pagina de “La nausea” di Sartre mi fece piangere
  • perché ogni anno, il 19 marzo, quando nel mio paese accendono i fuochi per la festa di S. Giuseppe, penso al finale de “La luna e i falò” di Pavese
  • perché leggendo non ho scoperto il senso della vita, ma ho scoperto che anche se non c’è alcun senso “bisogna immaginare Sisifo felice”
  • perché quando mi chiedi un consiglio di lettura, anche se vorrei baciarti romanticamente in riva al mare o fare sesso selvaggio con te nel bagno di un pub, io ti consiglio qualcosa e non capisco mai se ho fatto bene a tacere tutto il resto
  • perché la villetta comunale del mio paese certe volte mi è sembrata davvero Pietroburgo
  • perché posso fare un elenco come questo
  • perché un giorno un bibliotecario mi disse che ero una delle persone più interessanti che aveva visto, che stavo seguendo un certo percorso che mi avrebbe portato…e non finì la frase, al che sospettai che alludesse alla pazzia
  • perché in fondo adoro il pensionato rompiballe che mi ripete da decenni che leggo troppo
  • perché se passeggio senza un libro in mano, mi sento come se non portassi le mutande
  • perché mi rendo conto di quanto sia ridicolo passeggiare sempre con un libro in mano
  • perché quando vedo su un treno una ragazza che legge un libro, penso sempre che potrei innamorarmi
  • perché mio nonno ha vissuto benissimo senza leggere tanti libri, probabilmente era una persona “migliore” di me, e mi diceva sempre di mettermi al sole per leggere
  • perché mi piace Continua a leggere…

Baudelaire sulle donne “di” Delacroix

Delacroix

(Eugène Delacroix, “Orfanella in un cimitero”)

“Si direbbe che esse serbano negli occhi un segreto doloroso, impossibile da celare nel profondo della dissimulazione. Il loro pallore è come una rivelazione dei conflitti interiori. Sia che si distinguano per il fascino del delitto o per l’odore di santità, sia che i loro gesti siano illanguiditi o violenti, queste donne malate nel cuore o nello spirito hanno negli occhi il grigio plumbeo della febbre o il lucore abnorme ed eccentrico della loro infermità, e nello sguardo è la luce intensa del soprannaturalismo. Ma sempre e comunque esse sono donne superiori, di una superiorità particolare; e in definitiva, e in una parola sola, Delacroix mi sembra l’artista più capace di esprimere la donna moderna, soprattutto la donna moderna nella sua forma eroica, infernale o divina. Essa possiede altresì la bellezza fisica moderna, l’aria trasognata, ma il seno florido, con un petto minuto, il bacino ampio, e braccia e gambe armoniose.”

(Charles Baudelaire, capitolo “Esposizione universale Belle Arti – 1855”, in “Scritti sull’arte”, Piccola Biblioteca Einaudi)

Stavo mettendo un po’ di ordine nei miei appunti virtuali e cartacei, quando mi sono imbattuto nelle parole e nell’immagine che ho riportato. Avevo pubblicato il tutto su Facebook (già, sono attivo anche lì) circa un anno fa, quando stava maturando l’idea di “aprire” questo blog. Ho pensato di condividere anche quassù le parole del poeta francese e il quadro di Delacroix.

La citazione è tratta da un paragrafo del libro “Scritti sull’arte” (Piccola Biblioteca Einaudi), che avevo letto in quei giorni. In alcuni passaggi non avevo capito granché, perché non conoscevo le opere nominate. Delacroix mi era (e mi è) un po’ più noto e quindi le parole di Baudelaire sullo stesso mi avevano appassionato di più rispetto ad altri passaggi di quel volume.

Il commento di Baudelaire verte sulle varie figure femminili ritratte da Delacroix nelle sue opere. C’è bisogno di precisare che è solo una delle possibili interpretazioni, sulla quale non metto bocca perché non è materia di mia specifica *competenza? Specifico altresì che questo quadro è stato scelto da me per un motivo assai banale: me ne innamorai a prima vista.

P.s.: per il nome del quadro, mi sono fidato di varie fonti virtuali, se qualcuno dovesse accorgersi che tale titolo è sbagliato, me lo faccia notare.

*Tra l’altro, mi chiedo, qual è la materia di mia competenza? C’è? (argomento da tralsciare, eventualmente da riprendere in un altro articolo)

Il bambino che non voleva salire sull’altalena (titolo alternativo: “L’amore ai tempi delle giostre rosse”)

Guardava gli altri bambini e si chiedeva come facessero a divertirsi su quelle altalene, sospinti avanti e indietro dalla mamma o dalla baby-sitter. A lui quel gioco non era mai piaciuto. L’aveva provato più volte, specie quando era più piccolo, ma non c’era stato niente da fare, quel gioco gli sembrava noioso. Avanti e indietro, avanti e indietro, sempre uguale, ripetitivo, salvo quando una spinta più forte aumentava il raggio dell’oscillazione, quasi a suggerire la possibilità di una svolta, fosse anche una caduta rovinosa.

(Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa incredibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – , e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!” – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?)*

Forse, però, era lui un bambino noioso, agli altri doveva apparire così. Lì, in disparte, col viso corrucciato, a osservarli. Ma che voleva da loro? Gli avevano proposto di fare un girotondo, ma lui niente, nemmeno quello! Davvero un tipo tetro.

Il bambino all’epoca non poteva sapere perché le altalene non gli piacevano, non gli piacevano e basta. Più in generale, il suo problema erano le curve. Sì, perché l’altalena per aria disegnava una sorta di mezzaluna, il girotondo poi, li diceva la parola stessa, era un tondo quasi perfetto, una piccola comunità di piccoli esseri che, mano nella mano, facevano comunella lasciando alle loro spalle tutto il resto del mondo, quei cattivoni degli adulti. Però lui si annoiava anche lì, nel girotondo. Non sopportava neanche le curve delle strade. Ricordava bene gli effetti di quella trasferta in auto per la prima comunione del suo cuginetto coetaneo. Per non parlare poi di quelle giostre illuminate che giungevano al paese in occasione delle feste patronali: le catene volanti, i tappeti volanti, le astronavi volanti, le navi pirata volanti, le macchine “a tuzzo”, o come cavolo si chiamavano. Oggetti strani che giravano e giravano e giravano e giravano, Continua a leggere…

Spleen, parte II (Sartre, Camus, Benjamin e Adorno su Baudelaire)

Come anticipato in conclusione del precedente articolo, oggi lascio spazio a opinioni ben più illustri della mia sull’argomento “Baudelaire”. È evidente che nel presentarvi le interpretazioni che danno i quattro autori da me prescelti non c’è alcuna pretesa di esaustività, innanzitutto perché nessuno ha la Verità in tasca, e poi perché, per quanto ‘grande’ possa essere un interprete, mai potrà ‘scavare’ a fondo nell’animo di un altro uomo. Premesse queste banalità, vi suggerisco comunque, qualora vogliate approfondire la conoscenza di Baudelaire, di leggervi i libri dai quali ho tratto le citazioni. Non sto qui a specificare ‘quale’ aspetto di Baudelaire ciascuno dei quattro autori ha prevalentemente analizzato, questo spetta alla vostra eventuale curiosità. Come sempre quando si estrae un brano da un testo più corposo, è bene rimandare alla completa lettura del testo stesso, per meglio comprendere di ‘cosa’ sta parlando l’autore in quel passaggio e contestualizzare le parole, che altrimenti potrebbero essere fraintese (per esempio, Camus si occupa di Baudelaire ‘solo’ nella sua analisi sui vari tipi di ‘rivolta’, per poche pagine, mentre Sartre dedica un intero saggio al poeta). Le citazioni, insomma, vogliono essere un invito alla lettura dei testi completi, non un assurdo tentativo di condensare gli stessi in poche parole.

Premesso tutto ciò, la parola a chi ne sa più di me.

“L’atteggiamento costituzionale di Baudelaire è quello d’un uomo curvo. Curvo su se stesso, come Narciso. Non v’è in lui coscienza immediata che uno sguardo acuto non la trapassi. A noialtri basta vedere l’albero o la casa; tutti assorti nel contemplarli, dimentichiamo noi stessi. Baudelaire è l’uomo che non si dimentica mai. Si guarda vedere; guarda per vedersi guardare; Continua a leggere…

Lo Spleen di Parigi (Charles Baudelaire)

Ho appena riletto “Lo Spleen di Parigi” di Charles Baudelaire, ma non ho intenzione di provare a recensire i meravigliosi “piccoli poemi in prosa” con i quali l’autore tentò, riuscendovi, di andare ‘oltre’ la poesia dei “Fiori del male”, a suo avviso divenuta “un ostacolo insormontabile a quello sviluppo minuzioso di pensieri ed espressioni che ha come oggetto la verità”. Per Baudelaire, con lo strumento della prosa, lo scrittore ha “a sua disposizione una molteplicità di toni, di sfumature di linguaggio, il tono ragionativo, quello sarcastico, quello umoristico, che sono ripudiati dalla poesia, che sono come dissonanze, oltraggi all’idea di bellezza pura”. Tutto tenendo conto che a scrivere queste parole è l’autore di poesie immense, che però erano divenute gabbie dalle quali evadere attraverso la prosa.

Non proverò neanche a raccontare Baudelaire a coloro che non lo conoscono, perché mi sarebbe impossibile, perché non saprei nemmeno da dove iniziare e perché Baudelaire è un autore che va letto e riletto nel tentativo di ‘comprenderlo’. E poi, di ‘quale’ Baudelaire potrei parlare? Del Baudelaire della mia adolescenza, quello dei “Fiori del male”, che esercitava un certo fascino su di me, che acriticamente ne accettavo l’immagine impostami di “poeta maledetto”? O piuttosto il Baudelaire che ho ‘conosciuto’ nei due decenni successivi? Del poeta, del teorico, del critico d’arte? O il Baudelaire oggetto di citazioni più o meno appropriate (anche da parte mia)?

Sospeso tra Spleen e Ideale, tra l’ansia d’Infinito e la consapevolezza della caducità degli eventi, votato alla solitudine ma vertiginosamente immerso nella folla metropolitana, cantore moderno della terribile Bellezza, Continua a leggere…

Un libro, uno specchio e il mare. “Storia di Gordon Pym” (E. A. Poe, Baudelaire e Magritte)

Nel dipinto di Magritte “La riproduzione vietata” è rappresentata anche l’edizione francese della “Storia di Gordon Pym” di Edgar Allan Poe, che ebbe come traduttore un signore che si chiamava Charles Baudelaire. Non è mia intenzione né parlare del quadro di Magritte, che non conoscevo fino a ieri, né dal rapporto profondo che lega Poe e Baudelaire. Mi è parso però “utile” (si fa per dire) condividere con voi questa mia recentissima scoperta (cioè la presenza del libro nel quadro di Magritte).

Ho appena terminato la lettura della “Storia di Gordon Pym”. Non mi dilungherò molto nello stilare le mie impressioni, lasciando la parola all’autore. Come premessa devo dire che personalmente preferisco Poe nella sua versione più consueta e magistrale, ovvero come autore di racconti brevi. Non a caso, e spero di non scrivere qui un’assurdità, questo è l’unico romanzo scritto dal grande scrittore. Dico questo non perché sia rimasto deluso dal romanzo, ma perché non mi ha entusiasmato come il resto della sua vasta ed eccelsa produzione. Il motivo è che in “Gordon Pym”, oltre alla terminologia di carattere marinaresco, che richiederebbe da parte del lettore (a meno che non si sia esperti) un continuo ricorso al vocabolario, abbondano descrizioni paesaggistiche e zoologiche, anche interessanti e funzionali alla storia, ma che a mio avviso rallentano troppo spesso il ritmo della narrazione.

Ciò detto, sottolineo con forza che “Storia di Gordon Pym” resta un gran bel romanzo e che non sono per nulla pentito di essermi addentrato nella lettura. Il tema è quello del “viaggio in mare”, ovviamente come metafora della nostra esistenza. Continua a leggere…

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