Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Leggere, scrivere, recensire” (Virginia Woolf)

“Che cosa accade tra la mezzanotte e l’alba? Cos’è quella piccola scossa, l’attimo di stranezza e di disagio, come di occhi mezzi aperti alla luce, dopo il quale il sonno non torna più profondo come prima? È forse l’esperienza – ripetute scosse, ciascuna lì per lì inavvertita – che d’improvviso fa allentare la trama? partire una scheggia? Solo che quest’immagine suggerisce un’idea di collasso e disintegrazione, mentre il processo che intendo io è tutto il contrario. Comunque sia non è un processo distruttivo, bensì creativo.

Qualcosa di sicuro accadde. Il giardino, le farfalle, i suoni del mattino, alberi, mele, voci umane, sono emersi, si sono dichiarati. Come per effetto di una verga di luce l’ordine ha dominato il caos, la forma e il disordine. Forse sarebbe più semplice dire che ci svegliamo, dopo sa il cielo quali processi interni, con un senso di padronanza. Si avvicinano figure note, tutte nettamente profilate nella luce mattutina. Traspaiono attraverso il tremore e il riverberare dei gesti quotidiani scheletro e forma, durata e permanenza. Ora il dolore avrà il potere di produrre questa subitanea interruzione del fluire della vita, e così la gioia. Oppure avverrà senza motivo apparente, in modo impercettibile, un po’ come alle volte un bocciolo avverte nella notte un fremito e la mattina lo troviamo con tutti i petali distesi. A ogni modo i viaggi e le memorie, tutti i rami secchi, i detriti, il tempo accumulato, depositati in spessi strati sui nostri scaffali e che crescono come muschio ai piedi della letteratura, non sono più abbastanza precisi per i nostri bisogni. Alle ore del mattino si confà un altro genere di letture. Non è più il momento per frugare e rovistare, per socchiudere gli occhi e lasciarsi trasportare sui mari. Si ha voglia di qualcosa che possieda una sua forma e trasparenza, scolpita per catturare la luce, dura come gemma o pietra con il sigillo dell’umana esperienza, e tuttavia che custodisca, come un cristallo, la fiamma che ora brucia alta e ora s’inabissa nei nostri cuori. Abbiamo voglia di ciò che è senza tempo ed è del nostro tempo. Ma potremmo dar fondo a tutte le immagini, e far scorrere le parole tra le dita come acqua senza tuttavia riuscire a spiegare come mai, in mattine come questa, uno si sveglia con un desiderio di poesia.”

(Virginia Woolf, “Leggere, scrivere, recensire”, ed. La vita felice)

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“Vertigini”

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“A Vienna il dottor K. prende alloggio all’Hotel Matschakerhof, per simpatia verso Grillparzer, che si fermava sempre lì per pranzo. Un gesto di deferenza destinato, purtroppo, a dimostrarsi inefficace. Per quasi tutto il tempo il dottor K. si sente malissimo. Soffre di un senso d’oppressione e di disturbi visivi. Benché disdica i suoi appuntamenti ogni volta che può, si ritrova di continuo in mezzo a una quantità spaventosa di gente – così almeno gli sembra. Siede a tavola con gli altri come un fantasma, ha gravi attacchi di claustrofobia e da ogni sguardo che lo sfiora si crede indagato sin nel profondo. Accanto a lui, quasi a gomito, c’è Grillparzer, ormai decrepito. Fa delle brutte smorfie e a un certo punto gli posa addirittura una mano sul ginocchio. Durante la notte il dottor K. ha una crisi. La storia di Berlino continua a tormentarlo. Inutilmente si rigira nel letto, si mette delle compresse fredde sulla fronte, rimane a lungo alla finestra, guarda la via e vorrebbe giacere giù, di qualche piano, nella terra. Impossibile – annota il giorno dopo – condurre l’unica vita possibile, una vita in comune con una donna, ciascuno dei due libero, ciascuno per sé, senza matrimonio né di diritto né di fatto, vivere solamente insieme, impossibile compiere l’unico passo lecito oltre l’amicizia virile, perché lì, appena superato il limite stabilito, già si alza il piede che ti schiaccerà al suolo.”

(W. G. Sebald, “Vertigini”, ed. Adelphi)

Se “Austerlitz”, letto qualche giorno fa, mi aveva fatto “scoprire” le doti narrative di Sebald con colpevole ritardo, “Vertigini” mi ha confermato la sua abilità nell’avvincere il lettore alle storie raccontate, in questo caso quattro racconti aventi come tema comune il viaggio, nella sua accezione più ampia.

I viaggi oggetto del libro, infatti, sono anche da intendersi come puro spostamento fisico dei protagonisti, ma  soprattutto rappresentano l’occasione per escursioni mentali in uno spazio-tempo condensato, nel quale presente e passato si fondono in un intreccio di ricordi, citazioni, digressioni, vicende di personaggi famosi. Il primo racconto s’intitola “Beyle e lo strano fenomeno dell’amore” ed è incentrato su Henri Beyle, cioè Stendhal, accompagnato da Sebald nel suo percorso attraverso le Alpi, nell’anno 1800, quando il futuro scrittore è un giovanissimo soldato napoleonico che poi, una volta in Italia, comincerà a scoprire le meraviglie e le ambiguità dei sentimenti amorosi, che poi riverserà nei suoi romanzi e nel suo trattato sull’amore.

Il secondo è “All’estero” e concerne alcuni viaggi che il narratore/autore fece da Vienna a Milano, passando per Venezia e Verona. Sebald mescola, a ricordi personali, ampie e gradevoli parentesi nelle quali inserisce aneddoti su Kafka e in particolare su Casanova, incarcerato a Venezia secoli prima. Magistrale, inoltre, una pagina nella quale, trattando della solitudine nella folla all’interno delle stazioni ferroviarie, lo scrittore descrive un assalto al buffet. A Franz Kafka è dedicato il terzo scritto, “Il dottor K. in viaggio alle terme di Riva” nel quale è appunto descritto un viaggio, di lavoro e per motivi di salute, che Kafka fu costretto ad intraprendere verso l’Italia, nel settembre 1913, passando per Venezia e per Desenzano, prima di raggiungere un medico. Per gli amanti di Kafka, come me, sono pagine a tratti toccanti, specie quando Sebald riesce a descrivere lo stato malinconico che Kafka riversa nella lettere a Felice Bauer.

Infine, Continua a leggere…

“Austerlitz” (W. G. Sebald)

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“Perché non mi dici, ella domandò, disse Austerlitz, la ragione della tua inavvicinabilità? Perché, disse, da quando siamo arrivati qui sei come uno stagno gelato? Perché vedo le tue labbra schiudersi, quasi tu volessi dire, o magari persino gridare qualcosa, e poi non sento nulla? Perché arrivando non hai disfatto i tuoi bagagli e vivi, per così dire, soltanto dello zaino? Eravamo a qualche passo l’uno dall’altra, simili a due attori sulla scena. Con l’affievolirsi della luce gli occhi di Marie mutavano colore. E io cercai di nuovo di spiegare a lei e a me stesso quali incomprensibili sentimenti avessero continuato a opprimermi negli ultimi giorni: come un folle non vedevo altro intorno a me se non misteri e segni; mi sembrava che persino le mute facce delle case sapessero su di me qualcosa di negativo, e se da sempre ero stato convinto che il mio destino fosse una vita solitaria, adesso, nonostante il mio desiderio di lei, lo ero più che mai. Non è vero, disse Marie, che abbiamo bisogno dell’isolamento e della solitudine. Non è vero. Sei solo tu ad aver paura, non so di che cosa. Sempre ti sei tenuto un po’ a distanza, me ne ero ben accorta, ma adesso è come se ti trovassi su una soglia che non hai il coraggio di varcare. Non ero in grado allora di ammettere che Marie aveva ragione in tutto, ma oggi so, disse Austerlitz, perché dovevo prendere le distanze se qualcuno mi veniva troppo vicino, e ricordo che in quel prendere le distanze mi credevo in salvo e al tempo stesso mi sentivo un essere intoccabile, brutto da incutere spavento.”

(W. G. Sebald, “Austerlitz”, ed. Adelphi)

“Austerlitz” di W. G. Sebald è un romanzo toccante, avvincente, scritto (tradotto) meravigliosamente, un libro che mi ha avvinto alla lettura dalla prima all’ultima riga.

Jaques Austerlitz è un professore di storia dell’architettura che il narratore incontra alla stazione di Anversa nel 1967, in modo del tutto casuale e che sulle prime parla quasi esclusivamente di strutture architettoniche, senza troppi riferimenti a un vissuto personale che pare immerso in un oblio definitivo. Austerlitz è un solitario e le ragioni della sua difficoltà ad avere rapporti umani affondano in un passato oscuro che egli avrà la forza di affrontare solo negli anni Novanta, una volta andato in pensione, quando prenderà piena consapevolezza del dramma che si cela dietro il suo arrivo (1939) in Inghilterra.

A cinque anni, infatti, Austerlitz, che scoprirà di chiamarsi così solo un decennio dopo, si era ritrovato, senza sapere perché, adottato da due coniugi gallesi, dalla mentalità piuttosto retrograda. Da Praga era stato inviato, in un convoglio trasportante altri bambini, nell’immediata vigilia della seconda guerra mondiale, per preservarlo da orrori che i suoi reali genitori sconteranno sulla loro pelle, nei campi di concentramento e sterminio.

Il romanzo di Sebald, con i suoi andirivieni spaziotemporali, è una struggente riflessione sui temi della memoria individuale e collettiva, sull’oblio, su luoghi che segnano, sull’abbandono, sul tempo, sull’identità perduta/ritrovata, sulla solitudine e la paura di affrontare incubi che Austerlitz (e tante altre persone con storie simili alle sue) si portano dentro, ed è corredato da fotografie che aggiungono valore alle già potenti immagini lessicali che l’autore ci offre.

“Dette queste parole, Austerlitz tacque e rimase per qualche tempo – almeno mi pare – con lo sguardo perso nel vuoto. Sin dall’infanzia e dalla giovinezza, così infine riprese il discorso tornando a guardarmi, non ho mai saputo chi in realtà io sia. Dal mio attuale punto di vista mi rendo ben conto che già solo il mio nome e il fatto che, di questo nome, io sia rimasto defraudato fino ai quindici anni avrebbero dovuto mettermi sulle tracce della mia origine; eppure, negli ultimi tempi, ho anche capito per quale motivo un’istanza anteposta o preposta alla mia capacità di pensare, e con ogni evidenza dominante in modo assai avveduto da qualche parte del mio cervello, mi abbia sempre protetto dal mio segreto e sistematicamente distolto dal trarre le conclusioni più ovvie e dall’intraprendere ricerche coerenti con tali conclusioni. Non è stato facile liberarmi dal disagio che provavo nei confronti di me stesso, né sarà facile presentare ora le cose in una successione più o meno ordinata.”

“Guarda gli arlecchini!” (Vladimir Nabokov)

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“Dopo cinquanta estati, ovvero diecimila ore di bagni di sole in vari paesi su spiagge, panchine, tetti, rocce, ponti di navi, scogli, prati, assiti e balconi, mi sarebbe stato impossibile rievocare in dettagli sensoriali il mio noviziato se non avessi avuto quei miei vecchi appunti che sono di così grande sollievo al memorialista pedante mentre scrive il resoconto completo delle sue malattie, dei suoi matrimoni e della sua vita letteraria. Quantità enormi di Shaker’s Cold Cream mi vennero frizionate sul corpo da Iris che genuflessa tubava, mentre io giacevo prono su un asciugamano ruvido, nella luce sfolgorante della plage. Sotto le palpebre chiuse, premute sull’avambraccio, nuotavano purpuree forme fotomatiche: <<Attraverso la prosa delle vesciche della scottatura giungeva la poesia del suo tocco… >> scrivevo nel mio diario tascabile, ma posso migliorare quel preziosismo giovanile. Attraverso il pizzicore che sentivo sulla pelle – anzi, in verità portato da quel pizzicore a un livello raffinato di godimento abbastanza ridicolo – il tocco della sua mano sulle scapole e lungo la spina dorsale somigliava troppo a una carezza intenzionale per non esserne un’imitazione deliberata, e non riuscivo a dominare una reazione segreta a quelle dita agili quando, con un gratuito frullo conclusivo, scendevano giù fino al coccige, prima di dileguarsi.”

(Vladimir Nabokov, “Guarda gli arlecchini!”, ed. Adelphi)

Vadim Vadimovic N., settantenne scrittore nominato tra i candidati al premio Nobel, ripercorre la sua vita, i suoi “tre o quattro” matrimoni, i suoi romanzi scritti in russo e quelli in inglese, e lo fa con crudezza, sincerità, sarcasmo, irriverenza, arroganza. Nato a Pietroburgo, reduce da un’infanzia solitaria e un’adolescenza sessualmente precoce, lo scrittore fugge dalla Russia in seguito alla Rivoluzione, rifugiandosi dapprima in Francia, poi in Inghilterra, infine negli Usa dove insegna in un’università provinciale. La trama di “Guarda gli arlecchini!”  è fondamentalmente questa, ma la grandezza del romanzo, com’è quasi “scontato” trattandosi di Nabokov, sta nella maestria ammaliante della scrittura (e della traduzione) che ci avvolge in un’atmosfera continuamente al limite tra l’invenzione letteraria e la realtà, la realtà di Vadim Vadimovic N. e, chissà entro quali limiti, quella dello stesso Nabokov.

Il romanzo è beffardo, Continua a leggere…

“Centuria” (Giorgio Manganelli)

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“Un giovane uomo si sta recando a un appuntamento con una giovane donna, alla quale intende dire che trova inutile, dannoso, dispersivo e monotono continuare a vedersi; in realtà egli non ha mai amato la giovane donna, ma ha provato per lei, via via, sensi di galanteria, di devozione, di ammirazione, di speranza, di perplessità, di distacco, di delusione, di irritazione; ora l’irritazione sta quietamente trapassando in una forma di blando e insultante fastidio, perché egli suppone che in qualche modo la donna non sia disposta a dimenticarlo, e teme di aver conseguito nella vita di lei una dignità che lo allarma. Ripassando la serie dei sentimenti che ha provato per la giovane donna, egli riconosce di essersi talora comportato con eccessiva fragilità, e di aver sperato – sperato che cosa? Sperato che entrambi fossero diversi, e che avessero uno spazio in cui inventare una storia; ammette che parte del suo cruccio non dipende da lei, ma dal suo comportamento risibilmente fantastico e irresponsabile.

Nello stesso momento la giovane donna si reca allo stesso appuntamento, avendo in animo di mettere tutto in chiaro; è una donna che ama la semplicità e la chiarezza, e pensa che le ambiguità e le imprecisioni di un rapporto che non esiste si siano protratte troppo a lungo. Ella non ha mai amato quell’uomo, ma deve riconoscere di essere stata debole; di aver chiesto il suo aiuto in modo incauto, di aver tollerato il crescere di un tacito equivoco in cui ora ella si sente ingiustamente invischiata. La donna è irritata, ma la saggezza le consiglia di essere solo ferma e calma. Ella sa che quell’uomo è un affettivo, un fantastico, capace di vedere le cose che non ci sono, e di porre in esse una fede costante quanto infondata e vana; sa anche che quell’uomo ha un alto concetto di sé, ed è incline a mentire pur di non subirne umiliazioni. Per questo sarà benevola, lucida.

Puntuali, il giovane uomo e la giovane donna si avvicinano al luogo dell’appuntamento: ecco, si sono visti, si fanno un segno di saluto, in cui la consuetudine tiene il posto della cordialità. Quando sono ormai a pochi metri, entrambi si fermano e si guardano, attentamente, in silenzio; ed improvvisa una furia di gioia li coglie, quando entrambi capiscono, sanno, che nessuno dei due ha mai amato l’altro.”

(Giorgio Manganelli, “Centuria”, ed. Adelphi)

Italo Calvino, nel presentare al pubblico francese “Centuria” di Giorgio Manganelli, tra le altre cose scriveva: “Era ora. Da vent’anni la letteratura italiana ha uno scrittore che non assomiglia a nessun altro, inconfondibile in ogni sua frase, un inventore inesauribile nel gioco del linguaggio e delle idee: e non era mai stato tradotto in francese prima. Questo vuol dire che l’idea che il lettore si è fatto della letteratura italiana negli ultimi decenni mancava di un dato essenziale: dal momento in cui la sagoma di Manganelli si staglia all’orizzonte, cambiano tutti i rapporti di prospettiva del paesaggio intorno… (omissis)… Centuria (1979) è un libro completamente diverso dagli altri suoi. Tutto quello che ho detto di Manganelli fin qui, può sembrare che non si applichi a questo libro dalla scrittura concisa ed essenziale, dalle invenzioni narrative sintetiche e concentrate. Eppure si tratta più che mai di Manganelli: l’universo in cui i cento ‘romanzi’ d’una sola pagina si situano è lo stesso in cui in altri libri si scatena la sua tregenda di metafore…”. Continua a leggere…

“La panchina della desolazione” (Henry James)

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“Per lui, quel sedile, termine della sua passeggiata, era sacro; se lo rappresentava da anni come l’ultimo (sebbene ce ne fossero altri, non immediatamente vicino e diversamente disposti, che avrebbero potuto aspirare a quel titolo); così che poteva, con un immediato senso d’irritazione, cogliere di lontano, distinguere mentre si avvicinava, qualsiasi occupazione accidentale, e non avvicinarsi finché la contrarietà fosse durata. Quello che non tollerava era di rompere la tradizione, non importa se per un uomo o per una donna o per una coppia di innamorati; agli imbecilli di quest’ultima categoria era più avverso che a tutti gli altri; perché s’era seduto lì, in passato, solo, vi s’era seduto interminabilmente con Nan, vi s’era seduto – sì, con altre donne, quando le donne, nelle sue ore di libertà, potevano ancora trovare interesse in lui o lui in loro, ma non aveva mai diviso il sedile con estranei irrequieti e sospirosi…”

(Henry James, “La panchina della desolazione”, ed. Passigli)

Seduto sulla panchina della desolazione, unico ristoro di un’esistenza poco soddisfacente, Herbert Dodd scorge una donna raffinata che sembra essere lì per farsi notare da lui. Sulle prime non la riconosce, ma poi si accorge che è Kate Cookham, una lucida calcolatrice che molti anni prima l’aveva ridotto sul lastrico e alla quale era stato legato sentimentalmente, prima di sposarsi con Nan, poi morta. Cosa vuole adesso Kate da Herbert? Perché, a distanza di anni, dell’antico rancore sembrano non esserci più tracce e Kate appare fiorita rispetto alla gioventù?

Henry James, con la consueta abilità nel tratteggiare elegantemente la psiche dei personaggi, ci propone un racconto sull’intreccio, il confine labile che può esserci tra odio e amore, Continua a leggere…

“Il futuro non è che una figura retorica”

“Forse, se il futuro esistesse in modo concreto e individuale, come qualcosa che può essere percepito da un cervello superiore, il passato non sarebbe così seducente: le sue esigenze risulterebbero controbilanciate da quelle del futuro. Le persone potrebbero stare a cavalcioni sul punto centrale dell’asse in bilico mentre contemplano questo o quell’oggetto. Potrebbe essere divertente.
Ma il futuro non possiede questa realtà (contrariamente al passato rivisto nel ricordo e al presente percepito); il futuro non è che una figura retorica, un fantasma del pensiero…
Quando ‘noi’ ci concentriamo su un oggetto materiale, ovunque esso si trovi, il solo atto di prestare ad esso la nostra attenzione può farci sprofondare involontariamente nella sua storia. I principianti devono imparare a sfiorare soltanto la superficie della materia se vogliono che essa resti all’esatto livello del momento. Cose trasparenti, attraverso le quali balena il passato.”

(Vladimir Nabokov, “Cose trasparenti”, ed. Adelphi)

“La cosa migliore che abbiamo avuto”

Flaubert

“L’educazione sentimentale”, Gustave Flaubert.
L’ultima pagina.
Te le ricordi le vacanze del 1837?

Puntata nella quale l’antieroe riscopre che “il domani è fatto di ieri”

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In questa puntata, il nostro antieroe, ricercando il proprio codice fiscale, s’imbatte, per caso, in un foglio sgualcito, lo apre con delicatezza, lo rilegge e, dopo aver appoggiato il gomito su un tavolo e il palmo della mano sotto il mento, di modo da offrire a un potenziale fotografo un’immagine da pensatore provetto, comincia a elaborare una delle sue tante teorie sulla questione che il buon Proust gli ha di nuovo sottoposto all’attenzione. Memore del proprio passato, conscio del presente, ignaro sul futuro, e soprattutto ipotizzando che queste tre parole (passato, presente, futuro) non significhino nulla di così diverso l’una dall’altra, abbozza un pensiero, poi lo ingigantisce, ironizza sullo stesso, infine, con abile gesto della mano, ripone delicatamente il foglietto nel portafogli, dopo aver resistito alla tentazione di distruggerlo, toglie il gomito dal tavolo, libera il mento dalla stretta della mano, e s’incammina, verso dove non ci è dato sapere, con un sorriso indecifrabile dipinto sulla sua faccia.

“L’innamorato infelice che, respinto oggi come era stato respinto ieri, spera che l’indomani colei ch’egli ama, e che non lo ama, comincerà di colpo ad amarlo; colui che, non essendo abbastanza forte per il dovere che avrebbe da compiere, si dice: “Domani avrò come per incanto quella volontà che oggi mi manca…”, queste persone ripongono nell’avvenire una speranza che può dirsi mistica, nel senso che è una creazione del loro desiderio, non giustificata da alcuna previsione del ragionamento. Purtroppo giunge un giorno in cui non aspettiamo più ad ogni istante una lettera appassionata da un’amica che si è sempre mostrata indifferente, un giorno in cui comprendiamo che i caratteri non cambiano d’improvviso, che il nostro desiderio non può orientare a suo piacimento le volontà degli altri, tante sono le cose che su queste volontà premono e alle quali esse non sanno resistere, viene un giorno in cui comprendiamo che il domani non può essere del tutto diverso dallo ieri, giacché è fatto di ieri”.

(Marcel Proust, “Alla ricerca del tempo perduto”)

“Il tempo è un bastardo” (Jennifer Egan)

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“Dopo un po’, mi sono reso conto che Bennie si era avvicinato. – Di musica ne fai ancora, Scotty? – mi ha chiesto con gentilezza.

– Ci provo, – ho risposto. – Di solito da solo, per essere più libero. – Sono riuscito ad aprire gli occhi, ma non a guardarlo.

– Eri un chitarrista pazzesco, – ha detto lui. Poi mi ha chiesto: – Sei sposato?

– Divorziato. Da Alice.

– Lo so, – ha detto lui. – Dicevo se ti eri risposato.

– È durata quattro anni.

– Mi spiace, bello.

– Meglio così, – ho detto io. Poi mi sono voltato a guardare Bennie. Era in piedi con la schiena rivolta alla finestra, e mi sono chiesto se ogni tanto si preoccupasse di guardare fuori, se per lui il fatto di avere tutta quella bellezza così a portata di mano significasse qualcosa. – E tu?, – gli ho chiesto.

– Sposato. Con un figlio di tre mesi.

A quel punto ha sorriso, un sorriso sfuggente, imbarazzato al pensiero di quel bimbo piccolo, come se sapesse di non meritare tanto. E dietro il sorriso di Bennie c’era ancora la paura: che fossi andato a stanarlo per portargli via quei doni che la vita gli aveva fatto piovere addosso, spazzandoli via nel giro di pochi, enfatici secondi. Per poco non mi piegavo in due a ridere: Ehi, bello, ma non capisci? Tu non hai niente che non abbia anch’io! Sono solo X e O, e quelle ci si può arrivare in un milione di modi diversi. Ma due pensieri mi hanno distratto, mentre stavo lì ad annusare la paura di Bennie: (1) Io non avevo quel che aveva lui. (2) Aveva ragione… Continua a leggere…

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