Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Salammbô” (Gustave Flaubert)

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(“Salammbô”, capolavoro di Flaubert, scritto tra il 1857 e il 1862, ben lontano dalle atmosfere di “Madame Bovary” e di “L’educazione sentimentale”, è ambientato a Cartagine nel III secolo a. C., subito dopo la prima guerra punica. Lo spunto storico, tratto dagli scritti di Polibio e seguito da una maniacale documentazione dell’autore, è la rivolta furente dei Mercenari contro Cartagine, a favore della quale avevano combattuto contro Roma e rea di non averli ricompensati a dovere.

Il titolo fa riferimento a un’immaginaria figlia di Amilcare Barca, della quale s’invaghisce Mâtho, uno dei comandanti dell’eterogeneo esercito dei Mercenari. L’ossessione d’amore inappagabile fa da sfondo a un romanzo nel quale Flaubert, con dovizia di particolari e mirabile sfoggio della sua capacità immaginifica, tratta di guerra, violenza, crudeltà umana, vendetta, superstizione e riti di un mondo che, sebbene apparentemente lontano nello spazio e nel tempo, è purtroppo specchio di pulsioni (auto)distruttive tutt’altro che aliene dal mondo contemporaneo. L’abilità narrativa di Flaubert è tale che, leggendo le descrizioni delle atrocità, mi è tornato alla mente il quadro “Il trionfo della morte”, di Bruegel.)

“Il bagliore dei grandi roghi faceva apparire ancora più pallide le figure esangui, riverse qua e là tra resti di armature; e le lacrime suscitavano le lacrime, i singhiozzi si facevano più acuti, i riconoscimenti e gli abbracci più frenetici. Le donne si stendevano sui cadaveri, bocca contro bocca, fronte contro fronte; bisognava batterle perché se ne staccassero quando si gettava la terra. C’era chi si anneriva le guance, chi si tagliava i capelli, chi si toglieva del sangue e lo gettava nelle fosse; chi si procurava ferite simili a quelle che sfiguravano i morti. Tra il rumore dei cimbali scoppiavano ruggiti. Qualcuno si strappava gli amuleti, ci sputava sopra. I moribondi si rotolavano nel fango insanguinato, mordendo rabbiosamente i pugni mutilati; e quarantatré Sanniti, un’intera primavera sacra, si sgozzarono tra loro come gladiatori. Presto mancò la legna per i roghi, le fiamme si spensero, le fosse erano piene; e, stanchi di aver gridato, esausti, vacillanti, si addormentarono accanto ai loro fratelli morti; pieni di inquietudini quelli che volevano vivere, e gli altri col desiderio di non svegliarsi più.”

(Gustave Flaubert, “Salammbô”, ed. Giunti)

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“Le straordinarie avventure di Julio Jurenito” (Il’ja Erenburg)

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“In seguito si innamorò di Njura, una ragazza dagli occhi celesti, figlia di un impiegato delle poste, i cui tratti caratteristici erano quattro boccoli a forma di salsicciotti, un medaglione con l’immagine di un gattino e una passione sfegatata per la cioccolata al pistacchio. L’innamorato vagava senza meta, sospirando. Finalmente, dopo lunghi discorsi sulla propria solitudine e progressivi avvicinamenti alla ragazza sull’angusto divano, ne ottenne un bacio significativo. Lo assalirono quindi i primi dubbi. Per quanto sublime e seducente apparisse l’amore nelle opere dei migliori scrittori, per quanto dolci fossero le labbra tumide di Njura, molti aspetti lo lasciavano perplesso. Njura non era né Stëša né Marunja: aveva un padre e compagnia bella. In altre parole, bisognava sposarsi. Ma Njura non era nemmeno Beatrice, assetata di divino e di sacra ribellione: bisognava trovarle un impiego, altroché, e poi fasce e pannolini. I bambini, soprattutto. Ma si può forse leggere Nietzsche o Schopenhauer, con un marmocchio che ti frigna addosso?”

(Il’ja Erenburg, “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, ed. Meridiano Zero)

Non avevo mai letto alcun libro di Il’ja Erenburg e devo la sua conoscenza a Pablo Neruda, che me lo ha “presentato” nella sua autobiografia “Confesso che ho vissuto”, citandolo a più riprese. Grazie al poeta cileno ho così potuto scoprire la bellezza di un romanzo quale “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, un concentrato di satira, ironia, sarcasmo, un testo che è difficile definire un classico romanzo, perché è piuttosto una serie di quadri nei quali i protagonisti disquisiscono, con un certo beffardo cinismo ma non senza empatia per la debolezza umana, di argomenti quali la religione, i totalitarismi, l’amore, la religione, il sesso, insomma di tutto e di più.

Julio Jurenito è fautore di una non-filosofia di vita, un nichilismo volto a sovvertire l’ordine, un anarchico del pensiero che appare, quasi in veste da diavolo, a Erenburg stesso, in un caffè parigino. Capitolo dopo capitolo, il gruppo si espande, perché il Maestro, cioè Jurenito, assolda strada facendo una serie di personaggi strambi, quali Mister Cool, che vuole mettere su una società per azioni dedita alle missioni religiose, l’ingenuo senegalese Aisca, il mistico nichilista russo Tisin che cerca l’Uomo, il nullafacente romano Ercole Bambucci, e ancora Monsier Delhaie, che vuole costruisce una necropoli universale, per finire con Schmidt, studente tedesco dall’aberrante razionalità.

Assieme a codesti strampalati compagni di viaggio, il Maestro Julio attraversa il periodo che va dal 1913 al 1921 (anno in cui Erenburg scrisse il romanzo), ovvero un’epoca contrassegnata dalla violenza di una guerra mondiale e della Rivoluzione russa. Il libro, dunque, non è solo una carrellata di assurde e umane debolezze, ha un substrato ben più drammatico, ma la penna di Erenburg è comunque dissacrante, così che, in sostanza, si sorride, anzi si ride spesso, sia pure con la consapevolezza che, probabilmente, si sta ridendo per non piangere.

“Nella casa della gioia” (Franz Werfel)

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“Le dame, almeno quelle che non attendevano ai servizi più intimi, erano al loro posto. Attraversavano il locale con passo ondeggiante, si giravano davanti allo specchio, il viso assorto in un’estasi solitaria, chiedevano sigarette con cortese freddezza e si sedevano per qualche istante, ora ad una tavola ora all’altra, con fare condiscendente e interessato. Sembravano penetrate dal sentimento di una singolarissima dignità, una dignità che si comunicava a ciascun pensionante di quella casa aristocratica e d’antica fama. Essere lì significava entrare in ambienti di vita superiore. Questa dignità trovava espressioni svariate. A differenza di altri locali del genere, qui pochissime portavano vestiti corti; la maggior parte portava bizzarri négligés, vestaglie fluttuanti; Valeska, la più pomposa di tutte, aveva perfino un vero e proprio abito da ballo, che alla festa dell’Opera o a quella degli Avvocati si sarebbe meritato una particolare menzione dalla cronaca giornalistica. Nonostante l’impaccio del vestito avveniva talvolta, non troppo spesso, che una si denudasse le gambe per prender fuori dalla calza un astuccio di sigarette o di cipria.”

(Franz Werfel, “Nella casa della gioia”, ed. Guanda)

Nell’immediata vigilia della prima guerra mondiale, in Via del Camoscio, in una grande città dell’Impero asburgico, e più precisamente nella Sala Azzurra, s’incontrano, in nome della “gioia”, militari, intellettuali, giovani studenti, panciuti agrari dalle voglie insoddisfatti con ragazze intente a soddisfare i bollori dei predetti nonché a bisticciare tra loro.

Franz Werfel, che ho già ammirato in “Una scrittura femminile azzurro pallido”, è abile nel descrivere, con ironia, un’atmosfera carica di languide carezze, ma al tempo stesso attraversata da un alito di morte sopravveniente che presto diventerà vento di guerra, decretando la decadenza della casa di tolleranza e di un intero Impero. Il romanzo è breve e si legge tutto d’un fiato, perché l’autore condisce il tutto con fine ironia, pungendo con la penna i personaggi imbellettati che si recano a ricevere gioia ed elargire denaro.

 

“Il diavolo in corpo” (Raymond Radiguet)

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“Il sonno ci aveva sorpresi nudi. Risvegliandomi, nel vederla scoperta, temetti che avesse preso freddo. Toccai il suo corpo. Bruciava. Vederla dormire mi procurava una voluttà senza pari. Dopo dieci minuti questa voluttà diventò insopportabile. La baciai sulla spalla. Non si svegliò. Un secondo bacio, meno casto, agì con la violenza di una sveglia. Sussultò e battendo gli occhi mi coprì di baci come se io fossi qualcuno che si ama e che si ritrova nel proprio letto dopo aver sognato che è morto. Lei, invece, aveva creduto di sognare ciò che era la realtà e mi ritrovava al risveglio.”

(Raymond Radiguet, “Il diavolo in corpo”, ed. Einaudi)

Da molti anni osservavo nello scaffale della biblioteca del mio paese “Il diavolo in corpo”, autore Raymond Radiguet, nella traduzione di Francesca Sanvitale, collana “Scrittori tradotti da scrittori” della Einaudi. Devo ammettere che a tenermi lontano da questo romanzo breve era sempre stato una sorta di pregiudizio verso la giovane età dell’autore, che morì, purtroppo, a soli vent’anni, nel 1923.

L’altro giorno, non so perché, mi sono deciso ad affrontare questa storia di una passione giovanile, a tratti ingenua, certo audace, furente, incosciente, tra il protagonista-narratore sedicenne e Marthe, più grande di lui e già sposata con il militare Jacques. Approfittando dello scoppio della guerra, il giovane e Marthe danno vita a un adulterio che agli occhi dei concittadini è del tutto amorale e che loro vivono in un crescendo di scoperte, gelosie, furbizie, gioie e malinconie. Radiguet, pur facendo prevalere l’aspetto trasgressivo e passionale, non manca di innestare, nella storia, alcune riflessioni più raziocinanti che quasi sorprendono vista la sua giovane. Resta, per l’appunto, il rammarico per la precoce morte dell’autore, nonché la sorpresa nell’essere stato smentito nel mio pregiudizio.

“Quando dormiva così, con la testa appoggiata al mio braccio, mi chinavo su di lei per vedere il sui viso circondato dalle fiamme. Giocavo con il fuoco. Un giorno che mi avvicinai troppo senza che il mio viso toccasse il suo, diventai l’ago che passa di un millimetro la zona interdetta e appartiene alla calamita. Colpa della calamita o dell’ago? Sentii le mie labbra contro le sue. Lei teneva ancora gli occhi chiusi, ma si vedeva che era il modo di chi non dorme. La baciai, stordito dalla mia audacia mentre, in realtà, era stata lei ad attirare la mia testa contro la sua bocca quando mi ero avvicinato. Le sue mani si chiusero intorno al mio collo; non si sarebbero aggrappate con più furia in un naufragio. E non capivo se voleva che io la salvassi o che annegassi insieme a lei.”

 

“Il libro contro la morte” (Elias Canetti)

Canetti contro morte

“Troppo poco si è riflettuto su ciò che, dei morti, resta davvero vivo, disperso negli altri; e non si è escogitato alcun metodo per alimentare quei resti dispersi e mantenerli in vita quanto più a lungo possibile.
Gli amici di un uomo che è morto si ritrovano in un determinato giorno e parlano esclusivamente di lui. Ne incrementano la morte, se del morto non dicono altro che bene. Sarebbe meglio se litigassero, se prendessero partito pro o contro di lui, se ci raccontassero certi tiri mancini, di cui nulla si sapeva; finché su di lui c’è ancora qualcosa di sorprendente da dire, il morto si trasforma e non è morto. La pietà, che cerca di conservarlo dentro l’ambra, non è affatto segno di amicizia. Nasce dalla paura e vuole soltanto mantenerlo inoffensivo da qualche parte, come dentro la bara e sottoterra. Affinché il morto, nella sua impalpabilità, continui a vivere bisogna consentirgli di muoversi. Dev’essere collerico, come prima, e nella sua collera far uso d’una imprecazione inaspettata, nota solo a colui che ce la riferisce. Deve diventare affettuoso: coloro che lo hanno conosciuto nella sua severità e spietatezza, devono all’improvviso percepire quanto egli sapesse amare. Si vorrebbe quasi che ciascuno degli amici avesse la sua parte del morto da rappresentare, e allora, messe tutte quante assieme, esse lo farebbero rivivere. Nel corso di tali celebrazioni si potrebbe altresì consentire una graduale partecipazione dei più giovani e dei non iniziati, affinché anche a essi fosse dato esperire, nella misura loro possibile, quell’uomo ancora sconosciuto. Certi oggetti, dotati di un qualche legame con lui, dovrebbero passare di mano in mano, e sarebbe bello se a ogni incontro annuale, accanto a una storia, apparisse anche un nuovo oggetto, rimasto fino allora nascosto.”
(Elias Canetti, “Il libro contro la morte”, ed. Adelphi)

“Il tunnel” (Ernesto Sabato)

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“L’ora dell’incontro era arrivata! Ma realmente i corridoi si erano uniti e le nostre anime si erano toccate? Che stupida illusione era stato tutto questo! No, i corridoi continuavano a essere paralleli come prima, anche se adesso il muro che li separava era come di cristallo e io potevo vedere María come una figura silenziosa e intoccabile… No, nemmeno il muro era sempre così; a volte tornava a essere di pietra nera e allora io non sapevo cosa succedeva dall’altra parte, che ne era di lei in quegli intervalli anonimi, quali strane cose capitavano; e pensavo addirittura che in quei momenti il suo viso cambiava e che una smorfia di scherno lo deformava e che forse c’erano risa incrociate con un altro e tutta la storia dei corridoi era una ridicola invenzione o credenza mia e che in ogni caso, c’era un solo tunnel, buio e solitario: il mio, il tunnel in cui avevo trascorso l’infanzia, la giovinezza, tutta la mia vita.”

(Ernesto Sabato, “Il tunnel”, ed. Feltrinelli)

“Poesie del disamore” (Cesare Pavese)

Poesie disamore

“Torneremo per strada a fissare i passanti
e saremo passanti anche noi. Studieremo
come alzarci al mattino deponendo il disgusto
della notte e uscir fuori col passo di un tempo.
Piegheremo la testa al lavoro di un tempo.
Torneremo laggiù, contro il vetro, a fumare
intontiti. Ma gli occhi saranno gli stessi
e anche i gesti e anche il viso. Quel vano segreto
che c’indugia nel corpo e ci sperde lo sguardo
morirà lentamente nel ritmo del sangue
dove tutto scompare.
Usciremo un mattino,
non avremo più casa, usciremo per via;
il disgusto notturno ci avrà abbandonati;
tremeremo a star soli. Ma vorremo star soli.
Fisseremo i passanti col morto sorriso
di chi è stato battuto, ma non odia e non grida
perché sa che da tempo remoto la sorte
– tutto quanto è già stato o sarà – è dentro il sangue,
nel sussurro del sangue. Piegheremo la fronte
soli, in mezzo alla strada, in ascolto di un’eco
dentro il sangue. E quest’eco non vibrerà più.
Leveremo lo sguardo, fissando la strada.”

(Cesare Pavese, “Ritorno di Deola”, in “Poesie del disamore”, ed. Einaudi)

 

“Il mondo del sesso” (Henry Miller)

“Noi continuiamo ad immaginarci che il mondo sia fatto così e così. Ci muoviamo sbadatamente sullo sfondo di un panorama che cambia caleidoscopicamente. E in questo sbadato arrancare, ci tiriamo dietro molte immagini d’attimi di esistenza passata. Finché non incontriamo ‘lei’. Improvvisamente il mondo non è più lo stesso. Tutto è cambiato. Ma come può cambiare in un batter d’occhio il mondo intero? È un’esperienza che abbiamo fatto tutti, eppure non serve a portarci più vicino alla verità. Continuiamo a bussare alla porta… Ho visto una volta un ritratto di Rubens all’epoca del matrimonio con la sua giovane moglie. Erano raffigurati insieme, lei seduta e lui in piedi dietro di lei. Non dimenticherò mai l’impressione fattami da quel quadro. Fu come dare una lunga occhiata nel mondo della felicità. Mi sembrava di sentirlo, il vigore di quel Rubens nel fior della vita; di sentire la fiducia che la sua giovanissima e amabilissima consorte destava in lui. Intuivo che doveva essere successo qualcosa di intimamente irresistibile, qualcosa che il Rubens pittore si era sforzato di fissare per sempre in quel quadro di felicità coniugale. Non conosco la biografia di Rubens e perciò non so se con quella donna abbia poi vissuto felice o no. Quel che successe dopo il momento fissato in quel dipinto, non m’importa. Il mio interesse sta tutto in quel momento che mi ha turbato e ispirato. Resta incancellabile nella mia mente.
E allo stesso modo io so che certe cose, che ho consegnato alla pagina scritta, sono vere e imperiture. Quel che è successo dopo, a me o a «lei», ha poca importanza.”
(Henry Miller, “Il mondo del sesso”, ed. Arnoldo Mondadori editore)

“Il muro” (Jean-Paul Sartre)

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“In quel momento ebbi l’impressione che tutta la mia vita mi fosse davanti e pensai: <<È una sporca menzogna>>. Essa non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze: non avrei mosso neppure il dito mignolo se soltanto avessi potuto immaginare che sarei morto così. La mia vita era davanti a me, chiusa, sigillata come una borsa, eppure tutto ciò che vi era dentro era incompiuto. Un istante cercai di giudicarla. Avrei voluto potermi dire: è una bella vita. Ma non si poteva formulare un giudizio su di essa, era un abbozzo; avevo passato il mio tempo a rilasciar cambiali per l’eternità, non avevo capito niente. Non rimpiangevo nulla: vi erano un mucchio di cose che avrei potuto rimpiangere, il sapore dei manzanilla o i bagni che facevo in estate in una piccola conca vicino a Cadice; ma la morte aveva privato ogni cosa del suo incanto.”

(Jean-Paul Sartre, “Il muro”, ed. Einaudi)

“… la succhio come una caramella…”

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“… sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari.”
(Bohumil Hrabal, “Una solitudine troppo rumorosa”, ed. Einaudi)

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