Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “Musica”

“Perché non sopportiamo più noi stessi, e loro invece ci appaiono ideali.”

(Da qualche settimana questo blog sembra, anzi è, pressoché sequestrato da Thomas Bernhard, che imperversa con i suoi scritti. Presto mi libererò di lui, per ora mi dichiaro suo ostaggio, ben lieto di esserlo.)

“Tradiamo senza sosta noi stessi, quando preferiamo gli altri, quando per così dire li rendiamo migliori di quanto in definitiva non siano, ho pensato. Facciamo un torto a loro, quando per così dire ci dichiariamo dei loro, e intanto facciamo un torto a noi stessi in maniera ben più ripugnante, perché facciamo un torto a noi in loro favore e contro di noi. Ma non ci riesce del tutto di restare noi stessi e di stare insieme a loro, solo così di rado ci riesce, in ogni caso, che non ci si può fare affidamento, che non conta nulla. Quando siamo insieme a loro ci spogliamo per lo più di tutto quanto ci connota, cosa che loro subito avvertono e di cui tengono conto a nostro danno, al che noi non abbiamo più la stessa sicurezza che avevamo nel momento in cui abbiamo iniziato il nostro gioco con loro, perché è sempre solo un gioco, null’altro, quando crediamo di dover essere loro perché provavamo per loro un desiderio struggente, perché non sopportiamo più noi stessi, e loro invece ci appaiono ideali. Questo errore a vita ci umilia.”

(Thomas Bernhard, “Estinzione”, ed. Adelphi)

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“Il più tremendo dei castighi”

(Preparazione spirituale all’aperitivo/serata domenicale)
“Quando riusciamo a cogliere l’intera situazione, siamo d’un tratto completamente soli e non abbiamo neppure una persona, mi dissi (…) Desidero sempre, con ardore, la solitudine, ma quando sono solo sono il più infelice degli uomini. Non sopporto la solitudine e ne parlo in continuazione, predico la solitudine e la odio dal profondo, perché rende infelici come nessun’altra cosa, come so, e già ora comincio ad accorgermene, predico la solitudine, per esempio a Gambetti e so benissimo che la solitudine è il più tremendo dei castighi. Dico a Gambetti, Gambetti, il bene più alto è la solitudine, perché mi atteggio a suo filosofo, ma so benissimo che la solitudine è il più tremendo dei castighi. Soltanto un pazzo fa l’elogio della solitudine, ed essere completamente soli non significa altro, alla fine, che essere completamente pazzi, pensai, e ripresi a camminare in direzione inversa.”
(Thomas Bernhard, “Estinzione”, ed. Adelphi)

Il deliquio d’amore di K. e Frieda

(Qui è quando K. e Frieda si unirono in un “deliquio d’amore”, nella locanda, dove quella sera pare, ma non è certo, suonassero i Rolling Stones.)

“- Mio dolce tesoro! – sussurrò, – ma non toccò affatto K., come in un deliquio d’amore stava sdraiata sulla schiena con le braccia allargate, il tempo si schiudeva infinito dinanzi al suo amore felice, più che cantare sospirò una canzoncina. Poi si riscosse, poiché K. rimaneva in silenzio assorto nei suoi pensieri, e come una bambina cominciò a dargli strattoni: – Vieni, qui sotto si soffoca.

Si abbracciarono, il piccolo corpo ardeva sotto le mani di K., in uno stato di inconsapevolezza cui K. tentava continuamente ma invano di sfuggire, avanzarono voltolando per un breve tratto, urtarono con un tonfo sordo contro la porta di Klamm e poi rimasero distesi tra le piccole pozze di birra e le altre immondizie di cui era cosparso il pavimento. Lì trascorsero ore, ore di comune respiro, di comune pulsare del cuore, in cui K. aveva costantemente la sensazione di smarrirsi o di essersi tanto inoltrato in un luogo estraneo quanto ancora non si era inoltrato nessuno prima di lui, un luogo estraneo, nel quale persino l’aria non aveva alcun elemento in comune con l’aria di casa, nel quale si era condannati a soffocare per l’estraneità ma tra le cui assurde seduzioni non si poteva far altro che proseguire ancora, smarrirsi ancora.”

(Franz Kafka, “Il castello”, ed. Einaudi)

“Gran conforto: un sogno in cambio del vero.”

GENIO. Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata o pensarne?

TASSO. Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.

GENIO. Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.

TASSO. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi immaginavamo?

GENIO. Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qua! cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi meraviglia che gli uomini siano uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non siano angeli.

TASSO. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.

GENIO. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non ti venne mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso, ti metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.

TASSO. Gran conforto: un sogno in cambio del vero.

GENIO. Che cosa è il vero?

TASSO. Pilato non lo seppe meno di quello che so io.

GENIO. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai.

TASSO. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto vale un diletto vero?

GENIO. Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in un sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne trae…

(Giacomo Leopardi, “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”)

Scrivere con e(b)brezza, da Giorgio Manganelli

“Supponiamo che, ad un certo momento, una persona che sta scrivendo una lettera ad un’altra persona – il sesso o i sessi sono irrilevanti – abbia il sospetto, o forse semplicemente s’accorga di essere lievemente ubriaco. No, non si tratta di ubriachezza molesta, chiassosa e ripugnante – se non per il fatto che l’ubriachezza, iperbole dell’esistenza, ne mette in evidenza (si diceva nei temi) l’intrinseca repellenza.
Lo scrivente, tocco dalla rivelazione della propria ebrezza*, potrebbe semplicemente attenersi dallo scrivere oltre. La torbida lucidità dell’ebrezza potrebbe suggerirgli di astenersi da qualunque ulteriore colloquio. Ma, se si astenesse dallo scrivere oltre, egli darebbe una interpretazione ragionevole della irragionevolezza propria della ebrietà; dunque, egli potrebbe dimettersi dal suo trono di scrivente, solo in quanto riconoscesse se stesso come disebro, recitazione, maschera, falsario di se medesimo ebro. Ma, dal momento in cui egli si è accorto, o ha creduto di essere consapevole di essersi accorto, della propria ebrezza, ad essa non intende, non vuole, non tollera di rinunciare. E dunque, da questo momento in poi, la sua ebrezza sarà volontaria, una scelta non necessaria, anche se fortemente consigliata dalla sonnolenza, dalla irritazione morale, dal disagio e dal benessere bizzarramente congiunti, che tutt’insieme egli considera sintomi di ebrezza. Dunque, continuerà a scrivere. Ma, dovrà scrivere in modo particolarmente sorvegliato o, al contrario, in modo innocente, impreciso, prelapsario? Egli si rifiuta di sorvegliarsi, giacché sa, da sempre, che la cautela tende al silenzio, non già, poi, al silenzio della astensione, ma alla bruta e brutale astensione del bavaglio. D’altronde, gli ripugna altrettanto l’innocenza, specie questa innocenza raccattata dalla complicità di un bicchiere di succo fermentato. Ma, non appena ha finito di scrivere queste parole, o di pensarle, non può non chiedersi quale altra innocenza mai si dia, se non questa, un poco tossica e sbadata. Dunque, è sull’innocenza che egli deve dare sentenza, sulla propria innocenza. Non esiste dunque nessun compromesso tra la codardia di questa innocenza, e la dignità della menzogna? <<Mio caro>> scrive <<se tutto è turpe, eccetto la turpitudine, non dovrò forse perseguire la pace innocente della turpitudine?>>. Ma le parole lo sfidano, ed è furente.”

(Giorgio Manganelli, “Centuria”, ed. Adelphi)

*ho scoperto solo oggi che “ebbrezza” si può scrivere anche “ebrezza”. Non credo che questa scoperta cambierà la mia esistenza.

“Cercai di descrivere le cose che voi vi faceste reciprocamente”

 

“Cercai di descrivere le cose che voi vi faceste reciprocamente e la gente intorno a voi e ciò che altra gente e la vita stessa vi fecero.

C’era una cittadina nello Stato dell’Ohio. La cittadina fu in realtà l’eroe del libro. Ma dopo che ‘Un povero bianco’ venne pubblicato nessuno dei critici parlò di questo. Ciò che successe alla cittadina era, a mio parere, più importante di ciò che successe agli abitanti.

Perché, be’, perché suppongo di essermi sempre reso conto che anche dopo Joe, Jim, Clara e gli altri fossero stati dimenticati, nuova gente avrebbe vissuto nella cittadina.

Voi capite, ne sono sicuro, quel senso d’intimità e d’isolamento che lo scrittore riceve, alla fine, dai suoi libri.

Sedevo nel retro di una taverna insieme a dei marinai e mentre costoro parlavano del mare il piccolo Joe Wainsworth uccideva Joel Gibson in una bottega da sellaio nella cittadina dell’Ohio. Ero sul ponte di un bastimento nel golfo del Messico e proprio allora venne quel momento in cui Hugh McVey fuggì dalla camera della moglie. Un’altra volta ero in una tranquilla via nottetempo. Era scuro. Andavo avanti dondolando il bastone. Gente passava e non sapeva nulla.

E tutto il tempo, mentre io passeggiavo, quell’uomo alto e scarno, Hugh McVey, strisciava nel campo di cavoli al limite della città, giù nell’Ohio; quella notte in cui spaventò tanto i giovani French che essi fuggirono.

Vennero altri momenti. Le mie mani tremavano. Talvolta ero così eccitato che, quando cercavo di scrivere, la mano mi tremava in un modo tale da non lasciarmi tenere la penna.

Un periodo strano per me, un periodo eccitante.

Quanto di ciò che io sentii, vidi, conobbi della gente della mia città, della gente della mia fantasia, entrò alla fine nel libro?”

(Sherwood Anderson, introduzione a “Un povero bianco”, ed. Einaudi)

Le idee di Jo (estratto da Dickens)

“Deve essere strano trovarsi nelle condizioni di Jo. Passare per le strade, ignaro delle forme e all’oscuro di quei simboli misteriosi che abbondano sulle botteghe, agli angoli delle strade, sulle porte e le finestre! Vedere la gente leggere e scrivere, vedere i postini consegnare le lettere e non comprendere quel linguaggio, rimanendo muto e cieco davanti a ogni immagine di quel genere. Deve confondere le idee vedere le persone dabbene andare in chiesa alla domenica con il loro libro di preghiera e chiedersi (perché forse Jo qualche volta lo pensa) che cosa significhi e se significa qualcosa per qualcuno, perché per me non significa nulla? Essere spinto, urtato e fatto circolare; sentire che in realtà è vero che non ho nulla da fare qui, là o altrove; eppure essere perplesso pensando che comunque sono qui anch’io e che tutti mi hanno trascurato finché sono diventato quello che sono! Deve essere una strana condizione non soltanto sentirsi dire che quasi non sono un essere umano (come quando mi sono offerto come testimone), ma esserne consapevole per tutta la vita! Vedere cavalli, cani e altri animali passarmi accanto e sapere che per ignoranza sono come loro, e non come gli esseri superiori della mia stessa razza, di cui offendo la finezza! Devono essere strane le idee di Jo sul giudizio penale, i giudici, i vescovi, il governo o quell’inestimabile gioiello che sarebbe per lui (se la conoscesse!) la Costituzione! Tutta la sua vita materiale e spirituale è meravigliosamente strana; e la sua morte sarà ancora più strana.”

(Charles Dickens, “Casa Desolata”, ed. Einaudi)

Lì, ma dove, come (Julio Cortázar)

“Tu che mi leggi, non ti è mai capitata quella cosa che comincia in un sogno e che torna in molti sogni ma che non è quello, non è solamente un sogno? Qualcosa che è lì, ma dove, come; qualcosa che capita sognando, certo, puramente sogno ma dopo anche lì, in altro modo perché morbido e pieno di buchi ma lì mentre ti lavi i denti, nel fondo della coppa del lavabo continui a vederlo mentre sputi il dentifricio o metti la faccia sotto l’acqua fredda, e già assottigliandosi ma ancora lo senti afferrato al tuo pigiama, alla base della lingua mentre scaldi il caffè, lì, ma dove, come, incollato al mattino, con il suo silenzio nel quale già entrano i rumori del giorno, il radiogiornale perché abbiamo acceso l’apparecchio e siamo svegli e alzati e la vita continua. Maledizione, maledizione, ma com’è possibile, che cos’è questa cosa che fu, che fummo in un sogno ma è altro, torna ogni tanto ed è lì, ma dove, come è lì e dove è lì? Perché di nuovo Paco stanotte, ora che lo scrivo in questa stessa stanza, accanto a questo letto dove le lenzuola segnano l’impronta del mio corpo? A te non accade come accade a me con qualcuno morto trent’anni fa, che seppellimmo un giorno di mezzogiorno a Chacarita, portando sulle spalle la cassa insieme con gli amici del gruppo, con i fratelli di Paco?”

(Julio Cortázar, “Lì, ma dove, come”, in “I racconti”, ed. Einaudi)

“Il futuro non è che una figura retorica”

“Forse, se il futuro esistesse in modo concreto e individuale, come qualcosa che può essere percepito da un cervello superiore, il passato non sarebbe così seducente: le sue esigenze risulterebbero controbilanciate da quelle del futuro. Le persone potrebbero stare a cavalcioni sul punto centrale dell’asse in bilico mentre contemplano questo o quell’oggetto. Potrebbe essere divertente.
Ma il futuro non possiede questa realtà (contrariamente al passato rivisto nel ricordo e al presente percepito); il futuro non è che una figura retorica, un fantasma del pensiero…
Quando ‘noi’ ci concentriamo su un oggetto materiale, ovunque esso si trovi, il solo atto di prestare ad esso la nostra attenzione può farci sprofondare involontariamente nella sua storia. I principianti devono imparare a sfiorare soltanto la superficie della materia se vogliono che essa resti all’esatto livello del momento. Cose trasparenti, attraverso le quali balena il passato.”

(Vladimir Nabokov, “Cose trasparenti”, ed. Adelphi)

“Il concerto”

“Lo Scienziato aveva promesso al Chiacchierone di portarlo a un concerto del Cantore. Il Chiacchierone amava le canzoni del Cantore, ma non tanto da perderci la testa. Era però curioso di vedere com’era fatto l’autore delle famose canzoni e il suo giro. Accettò dunque volentieri l’invito dello Scienziato. Il concerto era stato rinviato più di una volta. Poi corse voce che il Cantore doveva partire. Poi corse un’altra voce: che stavano per scacciarlo. Fu poi chiarito che non aveva questa gran voglia di partire, né si aveva tante intenzioni di lasciarlo andare. Insomma, tutto rimase nella situazione precedente, solo assai peggio di prima. Il concerto era stato organizzato in periferia, in una casa privata. La gente vi penetrava come fosse un rapporto clandestino. L’appartamento era invaso da un mucchio della più varia gente. Predominavano i giovani, barbuti ragazzi in maglione e donne non del solito tipo. C’era tanto di quel fumo che a fatica il Chiacchierone riuscì a scorgere il Cantore, in un angolo della stanza. Dinanzi a lui stavano un tavolinetto, delle bottiglie, del salame e un microfono. La gente aveva l’aria di cospiratori o di appartenenti a sette religiose segrete. Tutto dava un’impressione di povertà, come si partecipasse a qualche mistero mortificante, di cui vergognarsi. Il Cantore cantò delle vecchie canzoni, che il Chiacchierone aveva inteso più volte. Ma l’impressione era pur sempre conturbante. Tutta la notte il Chiacchierone non riuscì a dormire, in preda a un’inspiegabile inquietudine. La stessa cosa dovevano provare i primi cristiani quando si riunivano nelle catacombe, andava pensando. Cos’era mai? Una setta? Arte sopraffina? Una messa? In un primo momento gli era parso che il Cantore non avesse assolutamente nulla in comune col suo modesto pubblico. Ma subito dopo aveva capito che si trattava di un errore. Osservando più attentamente le persone, aveva visto le facce intelligenti, da gente colta. Non foss’altro lo Scienziato! A venticinque anni è già dottore in scienze, si è già fatto un nome! E io stesso, del resto, devo esser sembrato loro un mentecatto! Gli parve allora che fosse il Cantore a non essere all’altezza del pubblico. Ma anche stavolta sbagliava, e lo capì ancora prima di aver finito di formulare dentro di sé il proprio pensiero. E l’inquietudine lasciò il posto all’angoscia e allo spavento.” 

(Aleksandr Zinov’ev, “Cime abissali”, ed. Adelphi)

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