Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “realtà”

“Senso di realtà, senso di possibilità” (Robert Musil)

Musil

“Per riuscire a varcare porte aperte, si deve badare al fatto che gli stipiti sono duri: questo principio che il vecchio professore aveva seguito per tutta la vita, è semplicemente un postulato del senso di realtà. Ma se c’è il senso di realtà, e di questo nessuno dubiterà, poiché è legittimo che esista, allora deve esistere anche qualcosa che si può chiamare senso di possibilità. Chi lo possiede, non dice ad esempio: «Qui è accaduto, accadrà, o deve accadere questo o quello», ma dirà: «Qui potrebbe, o dovrebbe accadere questo»; e se di qualcosa gli si spiega che è come è, allora penserà: «Certo, ma potrebbe anche essere diversamente». Quindi, il senso di possibilità può essere definito addirittura come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere e di non considerare ciò che è più importante di ciò che non è. Le conseguenze di questa indole creativa, com’è evidente, possono essere significative, e purtroppo spesso fanno apparire sbagliato quel che gli uomini ammirano e lecito ciò che essi vietano, o entrambe le cose come indifferenti. Questi individui della possibilità vivono, come si suol dire, in una trama più sottile, fatta di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; se un bambino manifesta una tale tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quelle persone vengono definite visionarie, sognatrici, vigliacche e saccenti o criticone.”
(Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, ed. Newton Compton)

P.s.: lessi questo straordinario libro di Musil tanti anni fa, in un’edizione Einaudi presa in biblioteca. Qualche mese fa ho comprato l’edizione Newton Compton, approfittando anche del prezzo. “L’uomo senza qualità” è uno di quei libri che non mi basta aver letto, ma che voglio avere a portata di mano. Non ho mai avuto particolare intenzione di rileggere, ma stasera, cercando qualcosa nello scaffale dei libri, mi sono sentito “chiamare” da Musil che, ho scoperto poco dopo nella prefazione, morì il 15 aprile. Il fatto che oggi sia il 14 aprile è una mera coincidenza, anzi nemmeno lo è, considerando che 14 è diverso da 15.

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La banda

“Essenzialmente (ma è proprio l’essenziale che sfugge) sarebbe così: fino a quel momento lo aveva colpito una serie di elementi anomali slegati: il falso programma, gli spettatori inappropriati, la banda illusoria in cui la maggioranza degli elementi era falsa, il direttore fuori posto, la finta sfilata, e lui stesso coinvolto in una cosa che non lo riguardava. Di colpo gli parve di capire in termini che eccedevano tutto infinitamente. Sentì come se gli fosse stato dato di vedere finalmente la realtà. Un momento della realtà che gli era sembrata falsa perché era quella vera, quella che ora non vedeva più. Ciò cui aveva appena presenziato era il vero, cioè il falso. Non sentì più lo scandalo di trovarsi attorniato da elementi che non si trovavano al loro posto perché, essendo conscio di un mondo altro, comprese che quella visione poteva essere ampliata alla strada, al Galéon, al suo abito azzurro, al suo programma per la serata, al suo ufficio di domani, al suo piano di economie, alle sue vacanze di marzo, alla sua amica, alla sua maturità, al giorno della sua morte. Per fortuna non continuava a vedere in questo modo, per fortuna era di nuovo Lucio Medina. Ma solo per fortuna.”
(Julio Cortázar, “La banda”, in “I racconti”, ed. Einaudi)

“La lettera rubata” (Edgar Allan Poe)

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“- Se si tratta di un problema che ci richiede di riflettere, – osservò Dupin, astenendosi dall’accendere la lampada, – lo esamineremo meglio al buio.

– Ecco un’altra delle vostre strane idee, – disse il prefetto, che aveva l’abitudine di definire “strano” tutto ciò che non riusciva a comprendere, dovendo convivere pertanto con una miriade di “stranezze”.

– Giustissimo, – rispose Dupin mentre offriva all’ospite una pipa e gli avvicinava una comoda poltrona.

– E qual è il problema questa volta? – chiesi. – Niente che abbia a che fare con un delitto, spero?

– Oh, no, niente del genere. Il fatto è che la faccenda è davvero semplice e sono convinto che ce la caveremo benissimo da soli; senonché ho pensato che a Dupin avrebbe fatto piacere conoscere i particolari, dal momento che si tratta di un caso incredibilmente strano.

– Semplice e strano, – fece eco Dupin.

Be’, sì e no, non proprio insomma. La verità è che noi tutti siamo molto perplessi perché la faccenda è così semplice e, nonostante ciò, non riusciamo a venirne a capo.

– Forse è proprio la troppa semplicità che vi mette fuori strada, Continua a leggere…

Il mio gattino insegue le ombre e rilegge Nietzsche.

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Il mio piccolo gatto insegue le ombre, si diverte e non sta lì a chiedersi cos’è quell’ombra, o può darsi che se lo chieda ma non riesca a rispondersi oppure, magari, lui ne sa più di me (ci vuole poco) e vorrebbe spiegarmi qualcosa ma ci sono ostacoli lessicali che al momento impediscono un proficuo scambio di opinioni. Oggi, però, il piccolo felino, forse insoddisfatto o forse solo curioso di scoprire qualche altro parere, è saltato sullo scaffale dei libri e dopo aver girovagato tra romanzi e racconti vari, si è soffermato nel reparto dove i filosofi, toccandosi il mento con aria pensierosa, discutono pronunciando parole come “realtà”, “apparenza”, “fenomeno”, “cosa in sé”, “essere” e via seguitando. Dopo aver salutato cordialmente Platone, Kant e Schopenhauer, ha deciso di richiamare la mia attenzione con un miagolio più insistente e con la zampa mi ha indicato questo brano di Friedrich Nietzsche, pregandomi, sempre con un abile gioco di sguardi, di pubblicarlo, per nome e per conto suo, su questo blog. Eseguo, anche se è un po’ lunghetto da ricopiare, perché a lui non so dire di no.

“I filosofi son soliti porsi davanti alla vita e all’esperienza – davanti a ciò che essi chiamano il mondo dei fenomeni – come davanti a un quadro che sia svolto una volta per tutte e indichi, in modo invariabile e fisso, lo stesso procedimento: questo procedimento, pensano, bisogna interpretarlo rettamente, per trarne una deduzione sull’essere che ha prodotto il quadro: dunque sulla cosa in sé, che è sempre vista come la ragion sufficiente del mondo dei fenomeni. Di contro, logici più rigorosi, dopo aver acutamente definito il concetto del metafisico come quello del non condizionato, e di conseguenza anche del non condizionante, hanno negato ogni rapporto tra il non condizionato (il mondo metafisico) e il mondo che noi conosciamo: cosicché appunto nel fenomeno non comparirebbe affatto la cosa in sé, e ogni deduzione da quello a questa sarebbe da respingere. Ma sia gli uni che gli altri hanno trascurato la possibilità che quel quadro – ciò che ora per noi uomini si chiama vita ed esperienza – sia divenuto a poco a poco, anzi sia ancora in divenire, e non debba pertanto essere considerato come una grandezza fissa, dalla quale si possa trarre, o anche solo respingere, una conclusione sul suo autore (la ragion sufficiente). Proprio per il fatto che noi, da millenni, abbiamo guardato nel mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca attrazione, passione o timore, e ci siamo lasciati andare agli eccessi del pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così stupendamente variopinto, terribile, profondo di significato e pieno di anima, ha insomma acquistato colore – ma a colorarlo siamo stati noi: l’intelletto umano ha fatto comparire il fenomeno e ha trasposto nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali. Tardi, molto tardi, esso riflette: e ora il mondo dell’esperienza e della cosa in sé gli appaiono così eccezionalmente diversi e separati, che respinge la deduzione da quello a questa – oppure esorta, in maniera tremendamente misteriosa, a rinunciare al nostro intelletto, alla nostra volontà personale: per giungere all’essenziale attraverso il farsi essenziali. Altri dal canto loro hanno raccolto insieme tutti i tratti caratteristici del nostro mondo dei fenomeni – ossia della rappresentazione del mondo da noi ereditata, nata dai deliri di errori intellettuali – e, anziché dichiarare colpevole l’intelletto, hanno accusato l’essenza delle cose come causa di questo carattere effettivo, molto inquietante, del mondo e hanno predicato la redenzione dell’essere. Di tutte queste concezioni si sbarazzerà definitivamente il costante e fastidioso progresso della scienza, che celebrerà finalmente il suo massimo trionfo in una storia genetica del pensiero, e il cui risultato potrebbe forse giungere fino a questo principio: ciò che noi ora chiamiamo mondo è il risultato di una quantità di errori e di fantasia che, sorti a poco a poco durante tutto lo sviluppo degli esseri organici, sono cresciuti, e sono stati ereditati da noi come tesoro accumulato dall’intero passato: come un tesoro, in quanto su di esso si basa il valore della nostra umanità. In realtà, la scienza più rigorosa può liberarci da questo mondo della rappresentazione solo in misura minima – e una cosa diversa non sarebbe affatto augurabile – in quanto non può essenzialmente infrangere la forza di antichissime abitudini sentite nel modo di sentire: ma può lentamente e per gradi rischiarare la storia della nascita di quel mondo come rappresentazione, e innalzarci, almeno per qualche istante, al di sopra dell’intero processo. Forse allora ci renderemo conto che la cosa in sé è degna di un’omerica risata: che essa sembrava tanto, anzi tutto, mentre in effetti è vuota, ossia vuota di significato.

(Friedrich Nietzsche, “Umano, troppo umano”, 16, parte prima, ed. Newton Compton)

Il problema di Gettier

(Per trastullarsi un po’)
Prima di leggere i miei deliri e quanto segue, forse è meglio dare uno sguardo alla pagina wikipedia dedicata al “problema di Gettier”. Non so se è la miglior spiegazione possibile, ma certo è meglio della mia.
Il problema di Gettier
Una classica definizione di “conoscenza” era che fosse una “credenza vera e giustificata”.
“Credenza” perché il soggetto è convinto di ciò che afferma, “vera” perché corrisponde alla realtà, “giustificata” perché dimostrabile.
Nel 1963 Edmund Gettier scrisse un articolo* di due pagine, con il quale confutava questa definizione di “conoscenza”, ritenendo che le tre condizioni della definizione classica fossero necessarie ma non sufficienti. Seguì dibattito nei decenni successivi.
Esempio**:
– passeggiando per strada vedo il mio gatto Tito in sella a un cavallo alato, quindi “credo” perché l’ho visto, nonostante lo stupore perché non sapevo nulla del suo acquisto;
– si dà il caso, però, che quello sul cavallo alato non è Tito, il mio gatto, ma un suo sosia, quindi “credevo”, ma in realtà non avevo visto Tito;
– però, attenzione, immaginiamo che veramente Tito abbia comprato un cavallo alato, anche se quello che ho visto non è lui;
– quindi, io “credo” che Tito abbia comprato un cavallo alato, è “vero” e sono “giustificato” a crederlo perché ho visto uno identico a lui;
– ho una “credenza vera e giustificata” che però non è “conoscenza”, perché io non ho veramente visto Tito, ma un suo sosia, dunque lo credo solo “per caso” che Tito abbia comprato il cavallo;
Gettier, quindi, sostiene che le classiche condizioni siano necessarie ma non sufficienti per la conoscenza, essendo fondamentale anche un “nesso causale” tra il pensiero del soggetto e il mondo a lui esterno.

* L’articolo dovrebbe essere questo, l’ho trovato solo in inglese:
L’articolo di Gettier

** (minuto 24.50 in poi)
L’esempio è una mia liberissima modifica a quello (già di per sé leggermente differente dallo scritto di Gettier) fatto dal professor Mario De Caro nella puntata di Zettel (programma che vi consiglio), nel corso della quale ho sentito parlare di Gettier, a me finora totalmente sconosciuto.

La puntata di “Zettel” dedicata al tema della “conoscenza”.

“Maschere nude, vol. 1” (Luigi Pirandello)

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SIRELLI                 Potresti negar l’evidenza, se domani quest’atto ti venisse presentato?

LAUDISI               Io? Ma non nego nulla io! Me ne guardo bene! Voi, non io, avete bisogno dei dati di fatto, dei documenti, per affermare o negare! Io non so che farmene, perché per me la realtà non consiste in essi, ma nell’animo di quei due, di cui non posso figurarmi d’entrare, se non per quel tanto ch’essi me ne dicono.

SIRELLI                 Benissimo! E non dicono appunto che uno dei due è pazzo? O pazza lei, o pazzo lui: di qui non si scappa! Quale dei due?

AGAZZI                 È qui la questione!

LAUDISI               Prima di tutto, non è vero che lo dicano entrambi. Lo dice lui, il signor Ponza, di sua suocera. La signora Frola lo nega, non soltanto per sé, ma anche per lui. Se mai, lui – dice – fu un po’ alterato di mente per soverchio amore. Ma ora sano, sanissimo.

SIRELLI                 Ah, dunque tu propendi, come me, verso ciò che dice lei, la suocera?

AGAZZI                 Certo che, stando a ciò che dice lei, si può spiegare tutto benissimo.

LAUDISI               Ma si può spiegar tutto ugualmente, stando a ciò che dice lui, il genero!

SIRELLI                 E allora – pazzo – nessuno dei due? Ma uno dev’essere, perdio!

LAUDISI               E chi dei due? Non potete dirlo voi, come non può dirlo nessuno. Continua a leggere…

“Gli esami non finiscono mai” (Eduardo De Filippo)

de filippo

STANISLAO        Caro Speranza, mettetevi bene in mente questo: una volta laureato bisogna dare alla società conto e ragione di questa laurea. Voi, in fondo, laureandovi, non avete fatto altro che impiantare una regolare contabilità con tanto di libro mastro, nel quale gli altri, non voi, si prenderanno la briga di segnare le entrate e le uscite dei meriti e dei demeriti che via via si verificheranno durante il vostro impegno di professionista, marito e padre di famiglia.

GUGLIELMO     (con gli occhi sbarrati) E fino a quando?

GIROLAMO        Fino a quando quel tale “pezzo di carta” non sarà diventato per riconoscimento popolare una vera e propria laurea.

STANISLAO   E ricordate che soltanto pochi privilegiati riescono a raggiungere il traguardo.

GIROLAMO        Gigliola è figlia unica, non vi dico altro.

GUGLIELMO      Naturalmente.

GIROLAMO     Troverete giusto che di tanto in tanto mio cognato e io ci permetteremo di rivolgervi qualche domanda.

GUGLIELMO      Risponderò a cuore aperto. Continua a leggere…

“Prospettiva Nevskij” (Gogol’)

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“Ma più strani di tutti sono i fatti che accadono sulla prospettiva Nevskij. Oh, non credete a questa prospettiva Nevskij! Io mi imbacucco sempre ben stretto nel mio mantello, quando vi passo, e cerco di non guardare affatto gli oggetti che incontro. Tutto è inganno, tutto è sogno, tutto è diverso da quel che sembra! Voi pensate che quel signore che passeggia in un soprabito di splendida fattura sia molto ricco? Nemmeno per sogno, il soprabito è tutto quel che ha. Vi immaginate che quei due grassoni che si sono fermati davanti alla chiesa in costruzione ragionino della sua architettura? Niente affatto: dicono com’è strano il modo in cui due cornacchie si sono posate una di fronte all’altra. Pensate che quell’entusiasta che agita le braccia racconti come sua moglie abbia gettato una pallina dalla finestra contro un ufficiale a lui totalmente sconosciuto? Niente affatto, parla di Lafayette. Pensate che quelle signore…ma men che mai credere alle signore…”

(Nikolaj V. Gogol’, “Prospettiva Nevskij”)

La prospettiva, oltre ad avere un suo significato geometrico, è anche, in senso più figurato, una modalità di rappresentazione della realtà, un’ipotesi sul futuro, una previsione dettata da istinto e ragionamento a partire da certe condizioni nelle quali ci troviamo. Spesso la prospettiva si rivela fallace e il punto è che ci accorgiamo solo dopo che quella che credevamo la sola prospettiva possibile era, in realtà, solo una delle tante. Sto divagando, ma il vero oggetto di quest’articolo è un racconto breve di Nikolaj V. Gogol’, intitolato per l’appunto “Prospettiva Nevskij”, Continua a leggere…

Sogno (poco) lucido e (molto) sudato.

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(“…mi sveglio ancora e mi sveglio sudato…”)

So che sto sognando, anche perché nella stanza con me vedo troppa gente e soprattutto un tizio a me noto che attraversa un muro e scompare.

Chiedo a un amico: – Mi confermi che tutto ciò è solo un sogno?

– No. – risponde lapidario.

– Mi stai dicendo che questa è realtà, che quello lì può attraversare i muri e noi possiamo trovarci qui, ora, con questi sconosciuti, in questa strana stanza?

– Se guardi bene, quel tizio non ha attraversato alcun muro, si è infilato in un interstizio che tu, dalla tua posizione, non potevi vedere.

Mi sposto. Osservo. Ha ragione lui. Il tipo mi ha giocato uno scherzo, o forse ero solo distratto.

– Allora come spieghi la mia forte sensazione di essere in un sogno, anche se tu mi dici il contrario?

– Te la spiego con l’abitudine, difficile a sradicarsi, di distinguere così nettamente sogno e realtà. Tu sei convinto che questo sia un sogno solo perché questi personaggi, questi luoghi e queste dimensioni non si adattano alla tua convinzione di cosa debba intendersi per realtà. Se anche ti dimostrassero che questa è la realtà e che non stai sognando, tu, attaccato come sei alla tua presunta realtà, non accetteresti la dimostrazione, che peraltro qui non si può dare. È reale o appartiene al sogno il fatto che tu stia pensando?

(Questo è per la rubrica “Le Grandi Dichiarazioni che salveranno l’umanità”. Non so che fine abbia fatto il tipo nascosto nel muro, né chi esso sia)

 P.s.: per la cronaca, non ho avuto il tempo di rispondere al mio saccente amico, essendomi svegliato dal “sogno” (???) in un mare di sudore. Ciao.

“La strada che porta alla realtà” (Roger Penrose)

Penrose

“Nel ventesimo secolo ci sono state due rivoluzioni fondamentali nel pensiero scientifico e, a mio parere, la relatività generale è stata una rivoluzione impressionante quanto la meccanica quantistica (o la teoria quantistica dei campi). Tuttavia, questi due grandi schemi del mondo sono basati su principi che contrastano tra loro. La prospettiva usuale, riguardo al proposto matrimonio tra queste teorie, è che una di esse, e precisamente la relatività generale, debba sottomettersi al volere dell’altra. Sembra opinione comune che le regole della teoria quantistica dei campi siano immutabili e che sia la teoria di Einstein quella che deve piegarsi per adattarsi allo stampo quantistico standard. Pochi suggerirebbero di modificare le stesse regole quantistiche per assicurare un matrimonio armonioso. In verità, lo stesso nome “gravità quantistica”, normalmente assegnato a questa unione proposta, è un’implicita indicazione del fatto che si tratta di una teoria quantistica standard (di campo) quella che viene cercata. Io affermo però che esistono prove osservative in base alle quali il punto di vista della Natura su tale questione è molto diverso!”

(Roger Penrose, “La strada che porta alla realtà”, ed. Bur Rizzoli)

Alcuni mesi fa, alla ricerca di testi divulgativi che mi potessero introdurre ai concetti fondamentali della fisica, e in speciale modo della meccanica quantistica, m’imbattei in “La strada che porta alla realtà” di Roger Penrose. Ricordo che lo vidi su uno scaffale in libreria, lo presi in mano, lessi la presentazione, sfogliai un po’ il poderoso volume e decisi che potevo spendere quelle € 14,90 nella fondata speranza di ricavarne qualcosa di utile. Guardando l’indice e la mole (oltre 1200 pagine) mi ero reso conto di trovarmi di fronte a un progetto ambizioso, cioè, citando dal libro stesso, “rendere accessibili e intriganti i segreti dell’universo, permettendoci di contemplare in un quadro unitario gli elementi che regolano il delicatissimo equilibrio della nostra esistenza”. In altre parole, Penrose, in quest’opera monumentale, ci presenta tutte le principali tappe evolutive della fisica e della matematica. Fin qui le sensazioni iniziali.

Passato dalla contemplazione attiva dell’acquirente alla successiva fase di lettura, mi resi conto, dopo i primi sette – otto capitoli, che l’impresa, per me, era ardua. Riassumendo, posso dire che, giunto a pagina 700 su circa 1200, ne avevo intese al massimo un terzo, saltando spesso interi paragrafi o addirittura capitoli, quando mi accorgevo che non stavo comprendendo nulla. A un certo punto, Continua a leggere…

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