“Il libro contro la morte” (Elias Canetti)
“Troppo poco si è riflettuto su ciò che, dei morti, resta davvero vivo, disperso negli altri; e non si è escogitato alcun metodo per alimentare quei resti dispersi e mantenerli in vita quanto più a lungo possibile.
Gli amici di un uomo che è morto si ritrovano in un determinato giorno e parlano esclusivamente di lui. Ne incrementano la morte, se del morto non dicono altro che bene. Sarebbe meglio se litigassero, se prendessero partito pro o contro di lui, se ci raccontassero certi tiri mancini, di cui nulla si sapeva; finché su di lui c’è ancora qualcosa di sorprendente da dire, il morto si trasforma e non è morto. La pietà, che cerca di conservarlo dentro l’ambra, non è affatto segno di amicizia. Nasce dalla paura e vuole soltanto mantenerlo inoffensivo da qualche parte, come dentro la bara e sottoterra. Affinché il morto, nella sua impalpabilità, continui a vivere bisogna consentirgli di muoversi. Dev’essere collerico, come prima, e nella sua collera far uso d’una imprecazione inaspettata, nota solo a colui che ce la riferisce. Deve diventare affettuoso: coloro che lo hanno conosciuto nella sua severità e spietatezza, devono all’improvviso percepire quanto egli sapesse amare. Si vorrebbe quasi che ciascuno degli amici avesse la sua parte del morto da rappresentare, e allora, messe tutte quante assieme, esse lo farebbero rivivere. Nel corso di tali celebrazioni si potrebbe altresì consentire una graduale partecipazione dei più giovani e dei non iniziati, affinché anche a essi fosse dato esperire, nella misura loro possibile, quell’uomo ancora sconosciuto. Certi oggetti, dotati di un qualche legame con lui, dovrebbero passare di mano in mano, e sarebbe bello se a ogni incontro annuale, accanto a una storia, apparisse anche un nuovo oggetto, rimasto fino allora nascosto.”
(Elias Canetti, “Il libro contro la morte”, ed. Adelphi)