
“Se in Proust in maniera completa il commento è intrecciato con la vicenda in modo tale che la separazione fra l’uno e l’altra svanisce, ciò significa che il narratore attacca in tal modo un elemento fondamentale del rapporto col lettore: la distanza estetica. Questa nel romanzo tradizionale era rigida. Adesso essa varia come la posizione della cinepresa nel cinematografo: ora il lettore viene lasciato fuori, ora attraverso il commentario viene portato sulla scena, dietro le quinte, nella zona dei macchinisti. Il procedimento kafkiano di sopprimere completamente la distanza rientra fra i casi estremi, nei quali si può imparare di più sul romanzo contemporaneo che non in qualunque delle cosiddette situazioni mediane “tipiche”. Mediante choc Kafka distrugge nel lettore la sicurezza contemplativa nei confronti di ciò che viene letto. I suoi romanzi, ammesso pure che cadano ancora propriamente sotto il concetto di romanzo, sono la risposta anticipante data a una costituzione del mondo nel quale l’atteggiamento contemplativo divenne ingiuria sanguinosa, poiché la minaccia permanente della catastrofe non permette più a nessuno l’impartecipe visione e nemmeno la riproduzione estetica di essa…non che necessariamente la descrizione dell’immaginario sostituisca quella del reale, come invece avviene in Kafka. Questo autore è un modello difficilmente proponibile. Ma la differenza tra reale e imago viene cancellata in linea di principio. È comune ai grandi romanzieri della nostra epoca che l’antica esigenza del “così è”, pensata fino in fondo, scateni una fuga di immagini storiche primeve, nella memoria involontaria di Proust così come nelle parabole di Kafka e nei criptogrammi epici di Joyce”.
(Theodor W. Adorno, 1954, “Il narratore nel romanzo contemporaneo”, in “Note per la letteratura”, ed. Piccola Biblioteca Einaudi)
Sto leggendo “Note per la letteratura”, una raccolta di saggi che Adorno scrisse in epoche diverse. Uno di questi, cioè “Tentativo di capire Finale di partita”, è stato oggetto di un precedente articolo.
Per ora mi limito a riportare l’estratto soprastante. Posso dire, però, sin d’ora, che già la sola presenza di questo saggio, di quello su Beckett e di un altro che apre la raccolta, cioè “Il saggio come forma”, di per sé mi hanno donato molto, e sono solo a pagina 30 su 250. Ho l’impressione che sarà difficile, in questo week-end, staccarmi da Adorno e dalle sue riflessioni su Proust, Balzac, Beckett, Kafka, etc, etc.
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