Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “Beckett”

“Teatro” (Samuel Beckett)

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VLADIMIRO       Non capisco una parola.

ESTRAGONE      (mastica, poi deglutisce) Ti domando se siamo legati.

VLADIMIRO       Legati?

ESTRAGONE      Legati.

VLADIMIRO       Legati come?

ESTRAGONE      Mani e piedi.

VLADIMIRO       Ma a chi? Da chi?

ESTRAGONE      Al tuo grand’uomo.

VLADIMIRO       A Godot? Legati a Godot? Che idea! Neanche a parlarne. (Pausa). Per il momento.

ESTRAGONE      Si chiama Godot?

VLADIMIRO       Credo.

ESTRAGONE      Ma vedi… (Solleva il resto della carota dalla parte grossa e se la rigira davanti agli occhi) Che strano, più si avanti più fa schifo.

VLADIMIRO       Per me, è il contrario.

ESTRAGONE      Cioè?

VLADIMIRO       Io mi abituo allo schifo man mano che vado avanti.

ESTRAGONE      (dopo aver riflettuto a lungo) E sarebbe questo il contrario?

VLADIMIRO       È questione di temperamento.

ESTRAGONE      Di carattere.

VLADIMIRO       Non possiamo farci niente.

ESTRAGONE      Hai voglia di agitarti.

VLADIMIRO       Restiamo quelli che siamo.

ESTRAGONE      Hai voglia di dimenarti.

VLADIMIRO       Il fondo non cambia.

ESTRAGONE      Niente da fare. (Porge il resto della carota a Vladimiro) Vuoi finirla tu?

(Samuel Beckett, “Aspettando Godot”, in “Teatro”, ed. Einaudi) Continua a leggere…

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“Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento” (Giuseppe Di Giacomo)

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“Se gli eroi del romanzo ottocentesco lottano per far trionfare il senso, la totalità, sul non-senso del mondo (il mondo abbandonato da dio), Dostoevskij coglie il senso nel cuore stesso del non-senso. Per l’uomo di Dostoevskij tutto è nello stesso tempo senso e non-senso. Per questo in Dostoevskij c’è salvezza nell’abiezione estrema. Ogni tentativo di spiegare il personaggio, di ricondurlo a una logica coerenza, è vanificato: non c’è un ‘fuori’ dal quale il personaggio, e il lettore con lui, possa vedere e vedersi, distinguendo il senso dal non-senso, e superare così la sua fondamentale paradossalità; né si offre al personaggio alcuna possibilità di conoscersi, alcuna coscienza dei propri movimenti interni. Questi ultimi si producono infatti senza che nessuna spiegazione possa connetterli tra loro e perciò comprendere e giustificare: si danno ‘catastroficamente’. Di qui l’esclusione dall’opera di Dostoevskij di quei ‘momenti privilegiati’ che ricorrono in Proust, nei quali la vita della coscienza si rivela come totalità, verità ed essenza”.

(Giuseppe Di Giacomo, “Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”, Editori Laterza)

Nell’estate del 2012, se la memoria non m’inganna, ascoltai una conferenza del professor Giuseppe Di Giacomo, ospite di una rassegna cinematografica organizzata nel mio paese. Avevo già letto un suo libro su Wittgenstein, oltre ad ascoltare alcune registrazioni di sue lezioni universitarie. Sono giunto, quindi, abbastanza preparato all’appuntamento con “Estetica e Letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”. Sapevo che avrei trovato argomenti di mio interesse, ma adesso posso affermare che un libro del genere avrei potuto scriverlo io. Prima che il lettore m’insulti per una possibile espressione di vanità personale, Continua a leggere…

Consapevolezze.

Montale, Leopardi e soci mi convinsero che scrivere poesie non era il mio mestiere. Provai con i romanzi, ma Dostoevskij, Kafka, Balzac e altri soci mi fecere capire che dei miei romanzi potevo fare un bel falò. Restava la forma breve, i racconti e le novelle, ma Poe, Cechov e Guy de Maupassant mi spiegarono, gentilmente ma efficacemente, che dovevo farmi da parte. Per il teatro ci pensò Beckett, con un solo sguardo, senza parole.
Mi sono rimasti gli aggiornamenti su Facebook, su Twitter e gli articoli del blog, settori nei quali me la posso ancora giocare con milioni di persone.

“Il tempo di attesa stimato è”

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“Il tempo di attesa stimato è superiore ai quattro minuti. Tutti gli operatori sono al momento occupati. La invitiamo ad attendere”.

Quattro minuti possono essere tanti, ma mi conviene attendere, se riaggancio e riprovo più tardi non è detto che possa andarmi meglio. Sì, ma intanto a cosa penso? Il micio si arrampica al mio polpaccio, vorrebbe salire tra le mie braccia, ma adesso non si può, devi attendere anche tu, caro felino, almeno quattro minuti, poi potremo avvinghiarci quanto vuoi, ma ora le mani mi servono, vedi, una per reggere la cornetta, l’altra per prendere appunti, se e quando sarò messo in contatto con un operatore.

“Il tempo di attesa stimato è superiore ai quattro minuti. Tutti gli operatori sono al momento occupati. La invitiamo ad attendere”.

L’attesa. Passiamo molto del nostro tempo ad attendere qualcosa. Certe volte si tratta della fila alla posta o dal medico, che da queste parti significa anche poter socializzare con qualcuno, solo a volerlo. L’attesa può essere snervante, ma il poeta c’insegna che il più delle volte nel villaggio il sabato è meglio della domenica proprio perché si è ancora immersi nell’attesa, Continua a leggere…

“Proust” (Samuel Beckett)

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“Il più riuscito esperimento evocativo può soltanto proiettare l’eco di una sensazione passata, poiché, essendo un atto intellettivo, è condizionato dai pregiudizi dell’intelligenza che separa da ogni sensazione data, come illogico e insignificante, un elemento estraneo discordante e futile, ogni parola o gesto, suono o profumo che non possono essere adattati al puzzle del concetto. Ma l’essenza di ogni nuova esperienza è contenuta proprio in questo elemento misterioso che la volontà sempre vigile respinge come qualcosa di anacronistico. Questo elemento misterioso è l’asse intorno al quale ruota la sensazione, il centro di gravità della sua coerenza. Di modo che nessuna manipolazione volontaria può ricostituire nella sua integrità un’impressione che la volontà ha, per così dire, relegato nell’incoerenza. Ma se, per caso, e date circostanze favorevoli (un rilassamento dell’abito mentale del soggetto e una riduzione del raggio della sua memoria, una ridotta tensione della coscienza quale generalmente segue a un periodo di estremo scoraggiamento), se per qualche miracolo dovuto all’analogia, l’impressione centrale di una sensazione passata si ripresenta come uno stimolo attuale che può essere istintivamente identificato dal soggetto con il modello originario (la cui integrale purezza è stata conservata perché è stata dimenticata), allora l’intera sensazione passata, non la sua eco né la sua copia, ma la sensazione stessa, annullando ogni restrizione spaziale e temporale, irrompe bruscamente sommergendo il soggetto con tutta la bellezza della sua infallibile proporzione”.

(Samuel Beckett, “Proust”, edizione SE)

Quando un grande autore scrive di un altrettanto illustre scrittore, non è detto che il risultato debba essere eccelso. Nel caso di questo saggio di Samuel Beckett su Marcel Proust, invece, lo è. In poco più di sessanta pagine, l’autore di capolavori quali “Aspettando Godot” e “Finale di partita”, affronta alcuni temi cardine dell’opera monumentale di Proust, cioè “Alla ricerca del tempo perduto”, Continua a leggere…

La brama insaziabile.

Foto:22.04.2002

“L’osservatore contagia l’osservato con la propria mutevolezza. Inoltre, quando si tratta di rapporti umani, ci troviamo di fronte al problema di un oggetto la cui mutevolezza non è semplicemente una funzione di quella del soggetto, ma è autonoma e personale: due dinamismi distinti e immanenti, non correlati da alcun sistema di sincronizzazione. Per cui, qualunque sia l’oggetto, la nostra brama di possesso è, per definizione, insaziabile. Nel migliore dei casi, tutto ciò che viene realizzato nel Tempo (tutto ciò che il Tempo produce), nell’Arte come nella Vita, può essere posseduto solo in successione, con una serie di annessioni parziali, mai integralmente e subito. La tragedia del legame Marcel-Albertine è la tragedia-tipo delle relazioni umane il cui fallimento è già predeterminato.”

(Samuel Beckett, “Proust”)

Opera: “Separazione” (Edvard Munch)

Sto leggendo il saggio di Beckett su Proust. In attesa di scrivere qualcosa al riguardo, pubblico questo brano e l’immagine del quadro di Munch, che m’è balzato in mente leggendo le parole di Beckett.

“Letteratura come utopia” (Ingeborg Bachmann)

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“La prima e la più grave delle domande di cui vi ho parlato e su cui ogni scrittore deve prendere posizione, è quella che riguarda la giustificazione della sua esistenza. Certo quasi mai essa affiora alla coscienza del singolo autore che, sedotto e animato dal proprio talento, scrive le sue opere e spesso avverte la presenza di questa domanda solo tardivamente. Perché scrivere? A quale fine? Perché, dal momento in cui non c’è più un mandato dall’alto, anzi non esistono più mandati, e quelli che si spacciano per tali, non ingannano più nessuno? Su che cosa scrivere, per chi, e a che cosa dare voce al cospetto degli uomini, in questo mondo? Anche chi è più posseduto dal desiderio di interpretare e di dare un senso alle cose, anche costui come può sopravvivere in virtù di una qualche interpretazione, di un’attribuzione di senso, o anche solo in virtù di una qualsiasi descrizione, per quanto esatta possa sembrargli? E i suoi giudizi per mezzo del linguaggio, perché uno scrittore giudica sempre, egli giudica cose ed esseri umani nel momento stesso in cui dà loro un nome, non sono forse del tutto indifferenti o fuorvianti, o addirittura riprovevoli? E se egli osasse assegnarsi da solo un compito (è oggi questa la sola possibilità che gli resta!) non sarebbe questo compito arbitrario, ambiguo, e non sarebbe egli sempre – malgrado ogni suo sforzo – in debito di qualcosa nei confronti della verità? E tutto il suo operare non sarebbe forse hybris, e non dovrebbe egli diffidare di ogni propria parola, di ogni finalità, persino di sé stesso?”

(Ingeborg Bachmann, “Letteratura come utopia”, ed. Adelphi)

L’invidia è un sentimento terribile e mi spiace ammettere che sono invidioso. Invidio, con tutto ciò che resta del mio cuore, gli studenti dell’Università di Francoforte, in particolare quelli che nel 1959-1960 poterono assistere alle cinque lezioni di letteratura tenute da Ingeborg Bachmann. Continua a leggere…

“Beckett” (da “Il castoro”).

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“Beckett ha intuito profondamente il disagio tragico dell’uomo odierno, del quale i suoi romanzi rappresentano come uno studio genetico, come una sottile penetrazione fisiologica. Le persone delle sue opere sono tutte curve, raramente, forse mai, ne trovereste una “regolarmente” diritta, eretta. Sono accovacciate, ricurve, cariche, striscianti, immobili: stanno, non vivono. Tentano, non raggiungono. Sono inani e inermi, sono ingenui e folli, il loro battito è lento e tenue come quello di una creatura nel ventre materno. La loro forma informe è come quella di un feto più vicino alla morte che alla vita. Il loro cammino è spesso un balletto in punta di piedi, inutile, ozioso, la loro smania più violenta si esprime in un giuoco assurdo, pagliaccesco. L’irrisione che ne esce è corrosiva. Anch’essa colpisce, annulla.”

(Giovanni Cattanei, “Beckett”, ed. La Nuova Italia – Il Castoro)

Mi aggiravo con fare furtivo tra gli scaffali della biblioteca del mio paese, alla ricerca di qualcosa da leggere che potesse coprire il vuoto tra la lettura precedente, cioè il saggio di Brod su Kafka, e l’arrivo di alcuni libri che ho ordinato on line, quando ecco che mi sono imbattuto in un “Castoro”. Qualcuno saprà che non mi sto riferendo a un simpatico animaletto, bensì a un’iniziativa editoriale sorta decenni fa, da parte di “La Nuova Italia”. Si trattava di una serie di monografie, a cadenza mensile, dedicate a singoli autori come Svevo, Joyce, Musil e nello specifico a Beckett. L’edizione è del 1967, l’autore è Giovanni Cattanei. La particolarità è che il volume che ho preso tra le mani è stato regalato alla biblioteca dalla sig. ra Fabrizia Ramondino, scrittrice che ha vissuto per anni nel mio paese.

Gli ammiratori di Beckett si saranno subito accorti che l’opera fu scritta mentre Beckett era ancora vivente (morì nel 1989). Continua a leggere…

“Note per la letteratura” (Theodor W. Adorno)

Adorno

L’uguaglianza, o l’intrigante somiglianza di più cose o persone, è uno dei motivi più tenaci di Kafka; creature larvali di ogni genere compaiono a coppie, spesso col contrassegno dell’infantile e dello sciocco, oscillanti tra la bonarietà e la crudeltà, come i selvaggi nei libri per bambini. Tanto difficile è diventata per gli uomini l’individuazione e tanto incerta è rimasta fino ad oggi, che essi si spaventano mortalmente quando il velo che la copre viene sollevato anche solo di poco. Proust conosceva il disagio indefinito che prende una persona quando le si fa notare che somiglia a un parente cui si sente estraneo. In Kafka tale disagio è diventato panico.”

(Theodor W. Adorno, da “Appunti su Kafka”, in “Note per la letteratura”, Piccola Biblioteca Einaudi)

“Note per la letteratura” raccoglie una serie di saggi scritti da Theodor Adorno dal 1953 al 1967. L’edizione originaria era più corposa di quella che ho avuto il piacere di leggere, ma in compenso non conteneva il saggio su Kafka, che può essere ritrovato anche in “Prismi”. Premetto subito che Adorno non si presta a una lettura distratta e sono convinto che ritornerò più volte su alcune pagine per poterle comprendere meglio di quanto non abbia potuto fare adesso. Continua a leggere…

Proust, Kafka, Joyce e la soppressione della “distanza estetica” (T. Adorno)

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“Se in Proust in maniera completa il commento è intrecciato con la vicenda in modo tale che la separazione fra l’uno e l’altra svanisce, ciò significa che il narratore attacca in tal modo un elemento fondamentale del rapporto col lettore: la distanza estetica. Questa nel romanzo tradizionale era rigida. Adesso essa varia come la posizione della cinepresa nel cinematografo: ora il lettore viene lasciato fuori, ora attraverso il commentario viene portato sulla scena, dietro le quinte, nella zona dei macchinisti. Il procedimento kafkiano di sopprimere completamente la distanza rientra fra i casi estremi, nei quali si può imparare di più sul romanzo contemporaneo che non in qualunque delle cosiddette situazioni mediane “tipiche”. Mediante choc Kafka distrugge nel lettore la sicurezza contemplativa nei confronti di ciò che viene letto. I suoi romanzi, ammesso pure che cadano ancora propriamente sotto il concetto di romanzo, sono la risposta anticipante data a una costituzione del mondo nel quale l’atteggiamento contemplativo divenne ingiuria sanguinosa, poiché la minaccia permanente della catastrofe non permette più a nessuno l’impartecipe visione e nemmeno la riproduzione estetica di essa…non che necessariamente la descrizione dell’immaginario sostituisca quella del reale, come invece avviene in Kafka. Questo autore è un modello difficilmente proponibile. Ma la differenza tra reale e imago viene cancellata in linea di principio. È comune ai grandi romanzieri della nostra epoca che l’antica esigenza del “così è”, pensata fino in fondo, scateni una fuga di immagini storiche primeve, nella memoria involontaria di Proust così come nelle parabole di Kafka e nei criptogrammi epici di Joyce”.

(Theodor W. Adorno, 1954, “Il narratore nel romanzo contemporaneo”, in “Note per la letteratura”, ed. Piccola Biblioteca Einaudi)

Sto leggendo “Note per la letteratura”, una raccolta di saggi che Adorno scrisse in epoche diverse. Uno di questi, cioè “Tentativo di capire Finale di partita, è stato oggetto di un precedente articolo.

Per ora mi limito a riportare l’estratto soprastante. Posso dire, però, sin d’ora, che già la sola presenza di questo saggio, di quello su Beckett e di un altro che apre la raccolta, cioè “Il saggio come forma”, di per sé mi hanno donato molto, e sono solo a pagina 30 su 250. Ho l’impressione che sarà difficile, in questo week-end, staccarmi da Adorno e dalle sue riflessioni su Proust, Balzac, Beckett, Kafka, etc, etc.

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