Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Si disimpara completamente a tacere”

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“In questo libro troviamo all’opera un <<essere sotterraneo>>, uno che perfora, scava, scalza di sottoterra. Posto che si abbia occhi per un tale lavoro in profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce e d’aria comporta; lo si potrebbe dire perfino contento del suo oscuro lavoro. Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compensi? Vuol forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora? Certamente egli tornerà indietro: non chiedetegli cosa cerca là sotto, ve lo dirà lui stesso, questo apparente Trofonio ed essere sotterraneo, quando sarà <<ridiventato>> uomo. Si disimpara completamente a tacere, quando si è stati così a lungo, come lui, una talpa, un solo…”

(Friedrich Nietzsche, “Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali”, ed. Adelphi)

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Aurore

Nel dubbio su quale libro leggere, riprendo tra le mani “Aurora” di Nietzsche, senza l’intenzione di rileggerlo (per l’ennesima volta) tutto, bensì solo di cogliere, qua e là, qualche frammento. Apro, “a caso”, le pagine, e ne esce quanto segue:

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Causa ed effetto (della gastrite o di cosa?)

Rovistando in un cassetto in cerca di qualcosa, non so bene cosa e/o non è importante saperlo qui, m’imbatto in un taccuino giallo, sul quale trovo scritto, con la mia grafia, quanto segue: “Se la causa persiste, ma l’effetto non c’è più, significa che la relazione tra quella causa e quell’effetto non era necessaria, bensì solo una delle molteplici possibilità”.

Non so cosa avessi mangiato quel giorno e quale fosse l’argomento che mi aveva indotto a scrivere quelle parole (ero infatuato di qualcuna? avevo un attacco di gastrite?), ma so che, accanto alla riflessione, qualche tempo dopo aggiunsi: “Rileggere aforisma 112 della Gaia scienza”. E allora, visto che il caso mi ha condotto fin qua, ecco l’aforisma in questione.

 “112. Causa ed effetto. Lo chiamiamo <<spiegazione>>, ma è <<descrizione>>, quel che ci contraddistingue dai gradi più antichi della conoscenza e della scienza. Noi descriviamo meglio, ma spieghiamo tanto poco quanto tutti i nostri predecessori. Abbiamo scoperto una successione molteplice, laddove l’uomo ingenuo e il ricercatore delle civiltà più antiche vedevano soltanto due cose: <<causa>> ed <<effetto>>, come si diceva; abbiamo reso perfetta l’immagine del divenire, ma non siamo approdati oltre l’immagine, dietro l’immagine. La serie delle <<cause>> ci sta in ogni caso dinanzi molto più completa; ne deduciamo che questo e quello devono procedere perché segua quell’altro – ma con ciò non abbiamo compreso nulla. La qualità, per esempio, in ogni divenire chimico, continua ad apparire un <<miracolo>>; allo stesso modo ogni propulsione: nessuno ha <<spiegato>> l’urto. Come potremmo mai giungere a una spiegazione! Operiamo solo con cose che non esistono, con linee, superfici, corpi, atomi, tempi divisibili, spazi divisibili – come potrebbe anche soltanto essere possibile una spiegazione, se di tutto noi facciamo per prima cosa una immagine, la nostra immagine! È sufficiente considerare la scienza come la più fedele umanizzazione possibile delle cose; impariamo a descrivere sempre più esattamente noi stessi, descrivendo le cose e la loro successione. Causa ed effetto: probabilmente non è mai esistita una tale dualità – in verità davanti a noi c’è un continuum, di cui isoliamo un paio di frammenti; così come percepiamo un movimento sempre soltanto come una serie di punti isolati, quindi, propriamente, non vediamo, bensì deduciamo. La repentinità con cui si mettono in evidenza molti effetti ci induce in errore: ma è soltanto una repentinità per noi. In questa repentinità dello spazio d’un secondo c’è una infinita accozzaglia di processi che ci sfuggono. Un intelletto che vedesse causa ed effetto come un continuum, non, al modo nostro, come il risultato arbitrario di una divisione e di uno smembramento, che vedesse il flusso dell’accadere – rigetterebbe il concetto di causa ed effetto e ogni condizionamento.”

(Friedrich Nietzsche, “La gaia scienza”, ed. Adelphi)

 E quindi, cosa ne ho dedotto? Ho trovato una spiegazione? No, ma in questo mi conforta l’opinione del fisico John S. Bell, il quale, in un suo libro, scrisse che “il serpente non può ingoiare sé stesso dalla coda”. E se non può il serpente, perché dovrei potere io, che sono meno flessuoso?

“26. Gli animali e la morale” (Friedrich Nietzsche, “Aurora”)

“26. Gli animali e la morale. Le pratiche che vengono perseguite nella società più raffinata: cioè evitare accuratamente il ridicolo, lo stravagante, il pretenzioso; tener nascoste le proprie virtù come pure le bramosie più ardenti, mostrarsi equanime, inserirsi in un ordine, diminuirsi – tutto questo, in quanto costituisce la morale sociale, lo si può trovare grosso modo ovunque, persino al livello più basso del mondo animale, – e solo a questa profondità vediamo la riposta intenzione di tutte queste amabili precauzioni: ci si vuole sottrarre ai propri persecutori e si vuole essere avvantaggiati nel braccare la preda. Perciò gli animali imparano a dominarsi e a simulare in modo che molti, per esempio, accordano il loro colore al colore dell’ambiente (in virtù della cosiddetta “funzione cromatica”), si fingono morti, oppure prendono le forme e i colori di un altro animale o della sabbia, delle foglie, dei licheni, delle spugne (quel che gli scienziati inglesi designano con la parola mimicry). Così il singolo si nasconde sotto la generalità del concetto “uomo” o nella società, ovvero si adatta a principi, classi, partiti, opinioni del tempo o dell’ambiente: e si troverà facilmente la similitudine animalesca per tutte le maniere sottili di fingerci felici, riconoscenti, potenti, innamorati. Anche quel senso della verità che in fondo è il senso della sicurezza, l’uomo lo ha in comune con l’animale: non ci si vuole fare ingannare, non ci si vuole indurre da noi stessi in errore, si presta orecchio con diffidenza alle parole suadenti della passione, ci si reprime e si rimane in guardia contro sé stessi; l’animale comprende tutto questo al pari dell’uomo, anche in esso l’autodominio germoglia dal senso del reale (dalla saggezza). Similmente l’animale osserva gli effetti che esercita sulla rappresentazione di altri animali, a partire da lì impara a riguardare indietro su sé stesso, a cogliersi “oggettivamente”: esso ha il suo grado di autoconoscenza. L’animale giudica i movimenti dei suoi avversari e dei suoi amici, impara a memoria le loro peculiarità, è su queste che prende le sue misure: contro individui di una determinata specie rinuncia una volta per tutte alla lotta, e allo stesso modo, nell’avvicinare molte varietà di animali, indovina la loro intenzione di pace e di accordo. Gli inizi della giustizia come quelli della saggezza, della moderazione, del valore – insomma tutto ciò che qualifichiamo con il nome di virtù socratiche, è animalesco: un corollario di quegli istinti che insegnano la ricerca del nutrimento e la fuga dai nemici. Se ora consideriamo che anche l’uomo più elevato si è innalzato e affinato appunto soltanto nel modo del suo nutrimento e nel concetto di tutto quanto gli è ostile, ci sarà concesso di designare come animalesco l’intero fenomeno morale.” Continua a leggere…

“Maschere” (l’ennesimo articolo sconclusionato e mascherato)

“Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio…un tale uomo riservato, che istintivamente si serve delle parole per tacere e per celarle ed è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una maschera; e anche ammesso che egli non voglia tutto questo, un bel giorno gli si spalancheranno gli occhi sul fatto che a onta di ciò v’è laggiù una sua maschera – e che è bene che le cose stiano a questo modo. ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera; e più ancora, intorno  a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà”.

(F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”, Lo spirito libero, af. 40, ed. Adelphi)

Indosso la maschera da blogger e inizio a scrivere quest’articolo, stimolato da un paragone che una mia conoscenza “virtuale” mi ha suggerito, e che nobiliterà questo scritto privo di ambizioni. Il tema mi affascina da sempre, ma non è semplice scriverne, perché è stato già affrontato da grandi pensatori e quindi non c’è molto da aggiungere. Si tratta della maschera sociale che indossiamo quotidianamente nelle più diverse situazioni e delle collegate nozioni di persona e personaggio. La maschera, Continua a leggere…

Il mio gattino insegue le ombre e rilegge Nietzsche.

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Il mio piccolo gatto insegue le ombre, si diverte e non sta lì a chiedersi cos’è quell’ombra, o può darsi che se lo chieda ma non riesca a rispondersi oppure, magari, lui ne sa più di me (ci vuole poco) e vorrebbe spiegarmi qualcosa ma ci sono ostacoli lessicali che al momento impediscono un proficuo scambio di opinioni. Oggi, però, il piccolo felino, forse insoddisfatto o forse solo curioso di scoprire qualche altro parere, è saltato sullo scaffale dei libri e dopo aver girovagato tra romanzi e racconti vari, si è soffermato nel reparto dove i filosofi, toccandosi il mento con aria pensierosa, discutono pronunciando parole come “realtà”, “apparenza”, “fenomeno”, “cosa in sé”, “essere” e via seguitando. Dopo aver salutato cordialmente Platone, Kant e Schopenhauer, ha deciso di richiamare la mia attenzione con un miagolio più insistente e con la zampa mi ha indicato questo brano di Friedrich Nietzsche, pregandomi, sempre con un abile gioco di sguardi, di pubblicarlo, per nome e per conto suo, su questo blog. Eseguo, anche se è un po’ lunghetto da ricopiare, perché a lui non so dire di no.

“I filosofi son soliti porsi davanti alla vita e all’esperienza – davanti a ciò che essi chiamano il mondo dei fenomeni – come davanti a un quadro che sia svolto una volta per tutte e indichi, in modo invariabile e fisso, lo stesso procedimento: questo procedimento, pensano, bisogna interpretarlo rettamente, per trarne una deduzione sull’essere che ha prodotto il quadro: dunque sulla cosa in sé, che è sempre vista come la ragion sufficiente del mondo dei fenomeni. Di contro, logici più rigorosi, dopo aver acutamente definito il concetto del metafisico come quello del non condizionato, e di conseguenza anche del non condizionante, hanno negato ogni rapporto tra il non condizionato (il mondo metafisico) e il mondo che noi conosciamo: cosicché appunto nel fenomeno non comparirebbe affatto la cosa in sé, e ogni deduzione da quello a questa sarebbe da respingere. Ma sia gli uni che gli altri hanno trascurato la possibilità che quel quadro – ciò che ora per noi uomini si chiama vita ed esperienza – sia divenuto a poco a poco, anzi sia ancora in divenire, e non debba pertanto essere considerato come una grandezza fissa, dalla quale si possa trarre, o anche solo respingere, una conclusione sul suo autore (la ragion sufficiente). Proprio per il fatto che noi, da millenni, abbiamo guardato nel mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca attrazione, passione o timore, e ci siamo lasciati andare agli eccessi del pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così stupendamente variopinto, terribile, profondo di significato e pieno di anima, ha insomma acquistato colore – ma a colorarlo siamo stati noi: l’intelletto umano ha fatto comparire il fenomeno e ha trasposto nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali. Tardi, molto tardi, esso riflette: e ora il mondo dell’esperienza e della cosa in sé gli appaiono così eccezionalmente diversi e separati, che respinge la deduzione da quello a questa – oppure esorta, in maniera tremendamente misteriosa, a rinunciare al nostro intelletto, alla nostra volontà personale: per giungere all’essenziale attraverso il farsi essenziali. Altri dal canto loro hanno raccolto insieme tutti i tratti caratteristici del nostro mondo dei fenomeni – ossia della rappresentazione del mondo da noi ereditata, nata dai deliri di errori intellettuali – e, anziché dichiarare colpevole l’intelletto, hanno accusato l’essenza delle cose come causa di questo carattere effettivo, molto inquietante, del mondo e hanno predicato la redenzione dell’essere. Di tutte queste concezioni si sbarazzerà definitivamente il costante e fastidioso progresso della scienza, che celebrerà finalmente il suo massimo trionfo in una storia genetica del pensiero, e il cui risultato potrebbe forse giungere fino a questo principio: ciò che noi ora chiamiamo mondo è il risultato di una quantità di errori e di fantasia che, sorti a poco a poco durante tutto lo sviluppo degli esseri organici, sono cresciuti, e sono stati ereditati da noi come tesoro accumulato dall’intero passato: come un tesoro, in quanto su di esso si basa il valore della nostra umanità. In realtà, la scienza più rigorosa può liberarci da questo mondo della rappresentazione solo in misura minima – e una cosa diversa non sarebbe affatto augurabile – in quanto non può essenzialmente infrangere la forza di antichissime abitudini sentite nel modo di sentire: ma può lentamente e per gradi rischiarare la storia della nascita di quel mondo come rappresentazione, e innalzarci, almeno per qualche istante, al di sopra dell’intero processo. Forse allora ci renderemo conto che la cosa in sé è degna di un’omerica risata: che essa sembrava tanto, anzi tutto, mentre in effetti è vuota, ossia vuota di significato.

(Friedrich Nietzsche, “Umano, troppo umano”, 16, parte prima, ed. Newton Compton)

Nietzsche sul sogno e sugli istinti

“Ci siamo, quindi?”. Con queste parole, stamattina, si chiudeva un mio sogno meraviglioso per complessità, assurdità, personaggi e situazioni. Non sto qui a raccontarlo perché non saprei renderlo. Finiva dinanzi a una porta, all’interno di una scuola o qualcosa del genere. Nell’accingermi ad aprirla ero consapevole che, aprendola, il sogno sarebbe finito e mi rivolgevo a un mio compagno onirico con la domanda di cui prima. A un suo cenno affermativo, la porta veniva aperta e io mi trovavo nel mio letto, fuori dal sogno.

Con l’occasione sono andato a rileggermi un aforisma di Nietzsche, contenuto in “Aurora”, che mi aveva colpito quando lessi quell’opera. Accanto al testo avevo annotato: “Anticipa Freud”.

È un po’ lungo, ma a mio avviso merita.

 

119. Esperienza vissuta e finzione poetica. Per quanto uno faccia progredire la sua conoscenza di sé, nessuna cosa potrà mai essere più incompleta del quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono la natura umana. Difficilmente potrà dare un nome ai più grossolani di essi: il loro numero e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il giuoco alterno dell’uno con l’altro e soprattutto le leggi del loro nutrimento gli resteranno del tutto sconosciuti. Questo nutrimento diventa dunque un’opera del caso; i nostri intimi eventi d’ogni giorno gettano ora a questo, ora a quell’istinto, una preda che viene subito rapidamente afferrata, ma l’intero andirivieni di queste vicende sta al di fuori di ogni nesso razionale con le esigenze nutritive di tutti quanti gli istinti: di modo che subentrerà sempre un duplice fenomeno, l’essere affamati e il languire degli uni, il rimpinzarsi, invece, degli altri. Ogni momento della nostra vita ci fa crescere alcuni tentacoli del nostro essere ed altri invece gli atrofizza, secondo appunto il nutrimento che quel determinato momento porta o no in se stesso. Le nostre esperienze, come si è detto, sono tutte, in questo senso, mezzi d’alimentazione, ma sparsi con mano cieca, senza sapere chi è che ha fame e chi è già sazio. E in conseguenza di questo casuale nutrimento delle parti, anche il polipo interamente sviluppatosi sarà qualcosa di altrettanto casuale, come lo è il suo divenire. Per parlare più chiaramente: Continua a leggere…

L’immaginazione e la mela.

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“Il carattere distintivo, ma anche l’aspetto pericoloso delle nature poetiche, è la loro fantasia esaustiva: quella che anticipa, precorre nel godimento e nel dolore ciò che avviene e potrebbe avvenire, e nel momento terminale dell’accadimento e dell’azione è già stanca”.

A parte il riferimento alla natura poetica (che non penso mi riguardi), stamattina, mentre ingoiavo una “macina” (il gustoso biscotto), stavo pensando che nelle vesti di un ipotetico Adamo sarei stato un fallimento, perché ho l’impressione, talvolta, che mi piaccia più “immaginare di mangiare la mela” che non “mangiare la mela”.

Poi pensavo che qualcuno aveva scritto un aforisma che faceva al caso mio, e più tardi ho ritrovato queste parole di Nietzsche.

Infine non ho pensato più e ho ingoiato la “macina”.

P.s.: è tutto sotto controllo, non chiamate il centro d’igiene mentale. Leggo “I Buddenbrook” di Mann, nel frattempo, ammesso e non concesso che questo non costituisca un’aggravante. Ah, non mi hanno pagato per pubblicizzare il biscotto, ma se volessero assumermi come testimonial a prezzi stracciati, sono qui.

Biscotti

Il passo sottostante è noto, anche troppo, l’ho già pubblicato in qualche altro articolo. M’è tornato in mente mentre intingevo un biscotto nel latte, più precisamente quando ho acceso la tv per ascoltare il “punto della situazione politica”. Una volta affiorato questo pensiero, ho spento la tv e ho deciso di assaporare il biscotto come se fosse l’ultimo che potessi mangiare. Debole come soluzione all’esistenza, ma tant’è.

Vincent_Willem_van_Gogh - La ronda dei carcerati

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa incredibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – , e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!” – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!” Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande. Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello?”

(Friedrich Nietzsche, “La gaia scienza”, 341)

(Opera: “La ronda dei carcerati”, Vincent Van Gogh, ispirato da un’incisione di Gustave Doré)

 

Arlecchino

“Arlecchino. Maschera della commedia dell’arte. Lo si fa risalire ad Hellequin, tipo comico del diavolo nelle rappresentazioni medievali francesi. Apparsa in teatro nella seconda metà del 16° sec., la figura di A. assunse progressivamente rilievo e nel Settecento diventò una delle maschere più vivaci e caratteristiche, grazie anche al particolare costume (giacca e pantaloni aderenti, tappezzati di triangoli rossi, verdi, gialli, azzurri disposti a losanghe). Raffigura il servo ignorante e astuto, sempre affamato. Parla un linguaggio licenzioso e rudemente espressivo, che con il tempo si è fatto più castigato.”

(dal sito Treccani.it)

Nella foto il bambino è vestito da Arlecchino. Sua madre lo aveva vestito così, per quel Carnevale. Lui non aveva opposto resistenze, ma non gli piaceva quell’abito. Non aveva nulla contro Arlecchino, a scuola gli avevano parlato in modo generico di lui, di Pulcinella, di Balanzone e di tutte le altre maschere classiche. Solo tanti anni dopo avrebbe scoperto cosa rappresentava Arlecchino e aveva colto, con evidenza palese, la netta discordanza tra quel vestito e la sua antica timidezza paralizzante, contro la quale aveva combattuto per decenni, fino a liberarsene.

Al bambino, pur inconsapevole di quei significati della maschera, non piaceva proprio quella festa in cui tutti si mascheravano, ma alla mamma non aveva potuto dire di no. Non poteva sapere nel dettaglio, adesso, anni dopo, osservando la foto di sé stesso vestito da Arlecchino, quali pensieri di bambino potevano averlo attraversato quel giorno lontano di tanti anni prima, ma l’immagine mostrava un volto corrucciato, malinconico. Ora, quasi tre decenni dopo quella foto, aveva maturato delle sue convinzioni circa l’aggiungere una maschera a una maschera e si era sempre rifiutato di interpretare un altro, sia pure per un solo giorno all’altro, forse perché quella parola, altro, avrebbe assunto un senso solo quando fosse riuscito a capire lui chi era. Continua a leggere…

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