Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Menzogna e sortilegio” (Elsa Morante)

“In queste notti di veglia, al posto dell’antica menzogna ho una nuova compagna: la memoria. Trascorro l’intera notte a ricordare eventi passati. Non soltanto il mio passato, e in particolare l’infanzia, e l’ultimo anno vissuto coi miei parenti, che ritrovo intatto e vivido come fosse di ieri; ma anche il loro passato, quello di mio padre e di mia madre, e della mia famiglia defunta. Non posso usare altro verbo che ‘ricordare’: infatti tutto ciò che ignoravo di loro mi si spiega naturalmente, e io ripercorro fin dal principio le loro vite come se tutte fossero episodi della mia. Allo stesso modo di chi, ridestatosi da un sonno letargico, ritrovi ad una ad una, dopo una breve incertezza, le circostanze della propria vita da sveglio.”
(Elsa Morante, “Menzogna e sortilegio”, ed. Einaudi)

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“La ciociara” (Alberto Moravia)

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(Pubblicato nel 1957, il romanzo è la trasfigurazione letteraria dell’esperienza vissuta da Moravia ed Elsa Morante sulle colline circostanti Fondi, nel periodo settembre 1943-maggio 1944.
Nel romanzo, la narrazione è affidata a Cesira, popolana, negoziante a Roma e costretta, assieme all’ingenua figlia Rosetta, a scappare dalla capitale per rifugiarsi, appunto, sulle colline di Fondi.
Il libro è malinconico, tragico, scorrevole, una potente riflessione sullo squallore e la miseria umana che la guerra enfatizza a livelli estremi.)
“Ci disse pure il caso di una famiglia di sfollati che aveva passato quasi un anno in montagna, come noi, e poi discesa abbasso al momento dell’arrivo degli alleati e si era messa in una casetta sulla strada, a poca distanza dalla nostra: una bomba aveva preso in pieno quella casetta ammazzando tutti quanti: marito, moglie e quattro figli. Io ascoltavo queste cose senza dir nulla e così Rosetta. In altri tempi avrei esclamato: “Ma come? E perché? Poveretti. Guarda un po’ che fatalità.” Ma adesso non me la sentivo di dir nulla. In realtà le nostre disgrazie ci rendevano indifferenti alle disgrazie degli altri. E in seguito ho pensato che questo è certamente uno dei peggiori effetti della guerra: di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà.”
(Alberto Moravia, “La ciociara”)

“Agostino” (Alberto Moravia)

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(Il tredicenne Agostino è al mare con la madre, vedova e piacente signora, che ricambia le attenzioni di un giovane sconosciuto. Per Agostino, è una lacerazione, aggravata dall’incontro con una banda di suoi coetanei, i quali, senza troppi riguardi, gli spiegano certe cose che lui, ingenuo, neanche sospettava.
Il ragazzo si trova, così, nella condizione di chi ha “perduto la primitiva condizione senza per questo essere riuscito ad acquisirne un’altra.”
Grande Moravia, al solito.)
“Ora provava un vago, disperato desiderio di varcare il fiume e allontanarsi lungo il litorale, lasciando alle sue spalle i ragazzi, il Saro, la madre e tutta la vecchia vita. Chissà che forse, camminando sempre diritto davanti a sé, lungo il mare, sulla rena bianca e soffice, non sarebbe arrivato in un paese dove tutte quelle brutte cose non esistevano. In un paese dove sarebbe stato accolto come voleva il cuore, e dove gli sarebbe stato possibile dimenticare tutto quello che aveva appreso, per poi riapprenderlo senza vergogna né offesa, nella maniera dolce e naturale che pur doveva esserci e che, oscuramente, presentiva. Guardava alla caligine che sull’orizzonte avvolgeva i termini del mare, della spiaggia e della boscaglia e si sentiva attratto da quella immensità come dalla sola cosa che avrebbe potuto liberarlo dalla presente servitù.”
(Alberto Moravia, “Agostino”, ed. Bompiani)

“Il disprezzo” (Alberto Moravia)

il disprezzo

“Presi dunque a vivere come un uomo che porta dentro di sé il malessere di una malattia incombente, ma non si decide mai ad andare dal medico; ossia cercando di non riflettere troppo né sul contegno di Emilia verso di me, né sul mio lavoro. Sapevo che un giorno avrei dovuto affrontare tale riflessione; ma appunto perché mi rendevo conto che essa era inevitabile, cercavo di ritardarla più che fosse possibile: quel poco che già avevo sospettato me la faceva evitare e anche, seppure in maniera inconsapevole, temere. Continuavo, così, ad avere con Emilia quei rapporti che a tutta prima, mi erano sembrati intollerabili e che, adesso, temendo il peggio, cercavo di persuadermi, senza riuscirci del tutto, che fossero normali: durante il giorno discorsi indifferenti, casuali, evasivi; la notte, ogni tanto, l’amore, con molto impaccio e non senza crudeltà da parte mia, senza alcuna vera partecipazione da parte di lei. Intanto continuavo a lavorare con diligenza e persino con accanimento, benché sempre più malvolentieri e con una ripugnanza sempre più decisa. Se avessi avuto il coraggio di definire a me stesso, fin da allora, la situazione in cui mi trovavo, avrei certamente rinunziato così al lavoro come all’amore, perché mi sarei convinto, come mi convinsi in seguito, che ogni vita si era ritirata da ambedue. Ma non avevo questo coraggio; e forse mi illudevo che il tempo si sarebbe incaricato di risolvere i miei problemi, senza alcuno sforzo da parte mia. Il tempo, infatti, li risolse, ma non nel senso che avrei desiderato. Così, tra Emilia che mi rifiutava se stessa e il lavoro al quale io mi rifiutavo, in un’aria sorda e oscura di attesa, i giorni passavano.”
(Alberto Moravia, “Il disprezzo”, ed. Bompiani)

“La solitudine” (Alberto Moravia)

Moravia

“Era chiaro che Mostallino con quella sua conversazione voleva fare intendere a Perrone che, nonostante la presenza della donna, nulla tra di loro era cambiato. E così anche Perrone avrebbe voluto che fosse. Invece, per quanto si sforzasse di mettere in quei discorsi la consueta foga, egli si accorgeva con dispetto che i suoi pensieri erano altrove. Non soltanto non sapeva quasi rispondere a tono alle domande dell’amico e ogni tanto inciampava e si incantava come colpito da amnesia, ma neppure riusciva ad evitare che i suoi sguardi si appuntassero con troppa frequenza su Monica ritta tra loro, le spalle al camino. Erano sguardi indocili che andavano a Monica anche quando avrebbe voluto rivolgerli all’amico; e per quanto cercasse di renderli almeno leggeri e casuali, si abbattevano invece su quelle belle membra come mani pesanti che vogliono palpare e ghermire. Quasi quasi si meravigliava Perrone che sotto quelle occhiate furtive e indiscrete, Monica non cacciasse ogni tanto un grido o trasalisse e si contorcesse come chi si senta ad un tratto brancicare da dita violente. Ma Monica, e questo accresceva il suo turbamento,nonché rinchiudersi pareva, al contrario, sotto o suoi sguardi, aprirsi e respirare meglio come un fiore carnoso sotto un’acqua che lo ristori. Ella rispondeva, è vero, ogni tanto agli sguardi di Perrone con sguardi furtivamente supplichevoli che parevano significare: non mi guardi in questo modo, si moderi, perché mi guarda così?; ma era chiaro che anche queste mute implorazioni facevano parte di una sua provinciale e rustica civetteria. Insomma, pareva già complice, già d’accordo con lui per tradire Mostallino alla prima occasione. Questo pensiero riempiva Perrone di ripugnanza; e pur non potendo fare a meno di cedere troppo spesso all’attrazione che esercitava su di lui la vista di Monica, si riprometteva con rabbiosa fermezza di non oltrepassare mai questa prima muta fase del suo involontario tradimento.”
(Alberto Moravia, “La solitudine”, in “Racconti”, ed. Garzanti)

“Boh” (Alberto Moravia)

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“Perché sono fatta così? Ieri, alle otto di sera ho ripetuto una volta di più all’Autodidatta (lo chiamo così per la sua passione per la cultura; in realtà ha nome Gaspare e fa il commerciante) che l’amavo alla follia; oggi, appena ventiquattr’ore dopo, l’aspetto pensando con accanimento alla maniera migliore, cioè più crudele e offensiva, di buttarlo fuori di casa. Cos’è avvenuto, dunque, tra ieri e oggi da far soffiare in senso così contrario il vento del mio sentimento? È quello che mi domando, rannicchiata sul letto sul quale passo praticamente la mia vita, nel mezzo del finimondo dei giornali e delle riviste illustrate, del telefono e degli elenchi telefonici, del vassoio della prima colazione e del vassoio del pranzo, della radio accesa e dei libri sfogliati e aperti.

Cerco il motivo di questa mia incredibile volontà e più lo cerco e meno lo trovo. Forse perché c’è, tra l’Autodidatta e me, una differenza di età, lui cinquanta ed io ventotto? o perché è sposato con tre figli grandi e nessunissima intenzione di lasciare la moglie per me? o perché è un negoziante, con un negozio neppure tanto in su, cioè di cravatte e di camicie, e io invece sono, come si dice, di famiglia “bene”, cioè di nobile casato, per giunta se non proprio ricca? o perché con me sfoggia la sua cultura, appunto, di autodidatta, in una maniera stregonesca, dandosi l’aria di essere onnisciente e io, dopo esserne stata a lungo affascinata, comincio, forse inconsciamente, a ribellarmi? o perché in amore è così innegabilmente virile e la virilità, si sa, soprattutto se compiaciuta, può essere irritante? In realtà sono tutti motivi insufficienti sia presi da soli che tutti insieme. E così, alla fine il solo motivo valido sembra essere, paradossalmente, l’assenza di motivi. Come quando si dice di una persona: “Non ho nulla da rimproverargli, ma c’è in lui qualcosa che proprio non va”; e questo qualche cosa che non va, porta alla fine all’ostilità e alla rottura.”

(Alberto Moravia, “Boh”, ed. Bompiani)   

Trenta racconti di donne che descrivono sé stesse, con tutte le contraddizioni che rimandano al titolo della raccolta, che è anche quello di uno dei racconti. Vittime o carnefici, le donne di questi racconti di Moravia sono tutte abbastanza taglienti e sarcastiche nelle descrizioni delle loro azioni più o meno aderenti alla morale comune. La perplessità che esse suscitano negli uomini che le attorniano non è altro che lo specchio della perplessità che provocano a loro stesse quando si analizzano (ma naturalmente vale anche il contrario). In sostanza, non ci si aspetti di uscire dalla lettura di “Boh” con la pretesa di aver compreso di più le donne (e gli uomini). Del resto, con un titolo così, non c’era da aspettarsi alcuna risoluzione. Detto ciò, Moravia, per quanto mi riguarda, è una garanzia di qualità eccelsa, dunque consiglio questo libro e mi rifugio nel mio personale e quotidiani “boh”.

Alberto Moravia su “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij.

Le Memorie dal sottosuolo sono del 1864; crediamo che raramente una data è stata così importante per fornire una chiave della comprensione di tutta l’opera di uno scrittore. Perché la data del 1864 è importante? Perché fino a quella data, anche se ha già scritto romanzi come Il sosia, Povera gente e Umiliati e offesi, Dostoevskij non è ancora l’autore di Delitto e castigo, di I demoni, di I fratelli Karamazov e di tutti gli altri romanzi sui quali incombe, senza mai arrivare a compimento, il progetto del “grande peccatore”. L’importanza delle Memorie dal sottosuolo sta nel fatto che per la prima volta Dostoevskij rivolge consapevolmente e, diciamolo pure, spietatamente lo sguardo a se stesso. Continua a leggere…

“I racconti 1927 – 1951” (Alberto Moravia)

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“La timidezza di Gianmaria, dovuta all’età giovanile e all’esuberanza chimerica dell’immaginazione, era così profonda e, nello stesso tempo, accompagnata da una tanto rabbiosa volontà di disinvoltura e di franchezza, che, spesso, il risultato era una strana sfrontatezza insieme imprudente e inutile. Gli accadeva così, ossessionato com’era dal timore di parere timido, di precipitare azioni che avrebbero richiesto lunghi e cauti approcci; oppure di buttarsi ad occhi chiusi, quasi spaventato dal proprio coraggio, in imprese ridicole o sterili o pericolose dalle quali ogni uomo sicuro di sé avrebbe rifuggito. Ancora, questa ostinata aspirazione a parere diverso da quello che era e a sforzare la propria natura, lo portava ad agire senza necessità, secondo certi suoi calcoli astratti e rigidi coi quali si illudeva di creare motivi e regole di condotta che in realtà gli mancavano affatto. E il tratto più curioso era che, una volta assunte queste parti insincere e puntigliose, come certi attori molto bravi, se ne investiva al punto di crederci; e di provare davvero quei sentimenti che in principio non aveva fatto che fingere”.

(Alberto Moravia, “L’imbroglio”, in “I racconti 1927 – 1925”, ed. Tascabili Bompiani)  

Alberto Moravia esordì nel mondo del romanzo con “Gli indifferenti”, pubblicato nel 1929, quando lo scrittore aveva appena ventidue anni ed era agli albori di una lunga carriera che l’avrebbe poi portato a scrivere, oltre a saggi, articoli giornalistici e reportage, una sfilza di altri romanzi, alcuni meno riusciti, la grande parte di assoluto rilievo, a cominciare da “La noia” (1960), che a mio parere, assieme a quello dell’esordio, costituisce una vetta dell’opera di Moravia. Il volume “I racconti 1927 – 1951” raccoglie, per l’appunto, una serie di racconti che Moravia elaborò in quel lungo periodo che intercorre tra le due opere sopra citate. Senza dimenticare che intanto produsse altri romanzi, si può dire che nei racconti stessi ritroviamo, talvolta solo accennate, altre più sviscerate, le tematiche caratterizzanti quei due libri e più in generale l’intera produzione narrativa dell’autore. Ambientati nell’ambiente della media borghesia romana, classe alla quale Moravia apparteneva ma che castigava nei suoi scritti, i racconti rivelano un mondo di relazioni ipocrite, spesso fondate unicamente sul potere corruttivo del denaro, su un’indifferenza reciproca malcelata e su rapporti amorosi che non riescono a redimere esistenze superficiali, inette, abuliche, dagli slanci di entusiasmo saltuari e improntate a una solitudine dalla quale è difficile sfuggire.

Un quadro così fosco, però, non deve indurre chi legge quest’articolo ad abbandonare i racconti di Moravia al suo destino infausto. Gli stessi, infatti, sebbene trattino gli argomenti predetti, sono tutt’altro che noiosi o angoscianti. A parte qualche eccezione, cioè qualche racconto meno riuscito, la maggiore parte sono pregevoli ritratti di personaggi alle prese con dilemmi, scelte e ambiguità che appartengono all’essere umano, che ne rivelano le grandezze e le brutture, non così disgiunte come una facile divisione tra bene e male potrebbe ipotizzare. Moravia ci guida in un’analisi della gelosia retrospettiva che coglie un’amante, analizza il percorso psicologico di un paziente ospedaliero che si crogiola nella sua malattia per fuggire dalla realtà, antipica “La noia” sviscerando l’atteggiamento ozioso di un ricco perdigiorno, delinea la figura di un avaro che anche nei rapporti sentimentali è incapace di donarsi e preferisce l’immaginazione alla realizzazione concreta delle sue speranze, svela i tortuosi meccanismi che legano due apparenti amici, e soprattutto analizza in modo mirabile i meccanismi della seduzione, un gioco pericoloso e spesso condotto con armi improprie e talvolta letali.

Tra quelli che più mi hanno convinto, segnalo “Inverno di malato”, “L’architetto”, “L’imbroglio” (del quale ho visto anche la trasposizione televisiva, certo non paragonabile al racconto ma fedele), “Ritorno dalla villeggiatura”, “La solitudine” e “L’avventura”.

“Racconti dell’Ohio” (Sherwood Anderson)

Racconti dell'ohio

“Il giovane che lasciava il paese per tentare l’avventura della vita cominciò a pensare, ma non pensò niente di troppo importante né di troppo drammatico. Non gli vennero in mente cose come la morte della madre, l’incertezza della sua futura vita in città, gli aspetti più seri e vasti della sua esistenza.

Pensò a piccole cose: Turk Smollet che portava le tavole sulla carriola per la vita principale del paese; una donna alta ed elegantissima che s’era fermata una notte nell’albergo del padre; Bull Wheeler, l’uomo che accendeva i lampioni e girava per le strade nelle sere d’estate con una torba in mano; Helen White alla finestra dell’ufficio postale di Winesburg mentre incollava il francobollo su una busta.

La mente del giovane era trascinata via dalla sua crescente passione per i sogni. A guardarlo non aveva l’aria molto in gamba. Mentre il ricordo di quelle piccole cose gli occupava la mente, chiuse gli occhi e si appoggiò sullo schienale. Rimase a lungo così e quando si mosse, e tornò a guardare dal finestrino, il paese di Winesburg era scomparso, e tutta la sua vita in quel luogo era diventata nient’altro che uno sfondo per dipingervi sopra i sogni della sua giovinezza”.

(Sherwood Anderson, “Racconti dell’Ohio”, ed Einaudi; titolo originale “Winesburg, Ohio”)

Devo la tardiva scoperta di Sherwood Anderson a Cesare Pavese e in particolare a un volume trovato nella biblioteca del mio paese, nel quale sono raccolti alcuni saggi dello stesso Pavese, relativi a scrittori statunitensi quali Faulkner, Dos Passos, Steinbeck e appunto Anderson.

Racconti dell’Ohio” (titolo originale “Winesburg, Ohio”) mi ha fatto pensare a un’altra grande opera, cioè “L’Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, Continua a leggere…

“Il libro dell’inquietudine” (Fernando Pessoa)

Il libro dell'inquietudine

“Ci sono giorni nei quali ogni persona che incontro e, ancor di più, le persone abituali della mia convivenza obbligata e quotidiana, assumono aspetti di simboli e, isolati o fra loro connessi, formano un alfabeto profetico od occulto che descrive in ombre la mia vita. L’ufficio diventa per me una pagina con parole fatte di gente; la strada è un libro; le parole scambiate con i conoscenti o gli sconosciuti che incontro sono espressioni per le quali viene meno il dizionario ma non completamente la comprensione. Parlano, si esprimono; eppure non parlano di se stesse e non esprimono se stesse; sono parole, ho detto, e non indicano, lasciano solo intendere. Ma, nella mia visione crepuscolare, distinguo solo vagamente quanto queste vetrate, che si rivelano sulla superficie delle cose, lasciano trasparire dalla loro interiorità che custodiscono e rivelano. Intendo senza arrivare alla coscienza, come un cieco al quale si parli di colori.

A volte, passando per la strada, colgo brani di conversazioni intime, e si tratta quasi sempre di conversazioni sull’altra donna, sull’altro uomo, sul ragazzo di uno o sull’amante dell’altro…

Per il solo fatto di sentire queste ombre di discorso umano, che poi in fondo è tutto ciò di cui si occupa la maggioranza delle vite coscienti, porto dentro di me un tedio disgustato, l’angoscia di un esilio tra ragni e l’immediata consapevolezza della mia umiliazione fra gente reale; la condanna, nei confronti del proprietario e del luogo, di essere simile agli altri inquilini dell’agglomerato; di stare a spiare con disgusto, fra le sbarre del retrobottega, l’immondizia altrui che si ammucchia sotto la pioggia in quel cortile interno che è la mia vita”

(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine).

Dopo aver reso parziale giustizia a Joyce, assente di lusso da queste mie pagine, stavolta mi dedico a Fernando Pessoa e al suo “Il libro dell’inquietudine”, capolavoro che lessi tanti anni fa in uno stato d’animo fin troppo predisposto ad assorbire le parole del grande scrittore portoghese. La rilettura che ho appena terminato mi ha permesso di apprezzare ancora di più il libro, proprio perché meno schiavo di certi pensieri mesti che mi avevano avvinghiato al testo di Pessoa.

Nella prefazione al libro, il compianto Antonio Tabucchi, traduttore nonché tra i principali divulgatori dell’opera di Pessoa, spiega il titolo originale dell’opera, “Livro do desassossego por Bernardo Soares” come indicativo della mancanza di sossego, cioè tranquillità o quiete. Lo stesso Tabucchi evidenzia come “Il libro dell’inquietudine”, in qualsiasi versione lo abbiate nelle vostre mani, debba essere considerato un libro potenziale, ipotetico, un’opera aperta, ricostruita secondo determinati criteri dagli esegeti di Pessoa, Continua a leggere…

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