Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Il fantasma di Boboli” (Firenze 17-21 luglio 2018)

In questo articolo sono ammassati i frammenti sparsi che il viaggio compiuto a Firenze mi ha ispirato. Non vi è una coerenza precisa, se non la Bellezza devastante di questa città.

Ho visto tramonti peggiori.

 

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(Uscendo dall’appartamento che mi ospita, a pochi metri ho notato questa targa, che ricorda Carlo Levi nel periodo in cui visse proprio qui, a Piazza de’ Pitti.)

“Qui abitò tra il dicembre 1943 e l’agosto 1945 Carlo Levi.
Qui scrisse ‘Cristo si è fermato a Eboli’ e dipinse quadri fra i suoi più belli e umani, nella casa di Annamaria Ichino, per lui e altri sicuro rifugio dal nazifascismo e dalle persecuzioni antisemite.”

 

(Il fantasma di Boboli)
Al giardino di Boboli dovevo andarci l’anno scorso, ma quel giorno era chiuso, il treno del ritorno incombeva e quindi lasciai il fantasma di me stesso là, fuori dall’ingresso di Porta Romana, in compagnia di un altro bel fantasma, ma un po’ deluso da quella porta serrata.
Stamattina sono entrato da Palazzo Pitti, ingresso principale. Ho passeggiato nel verde, ho ammirato il panorama di Firenze, le vasche d’acqua, le grotte, il Museo della porcellana, ho percorso il viale dei cipressi e, a un certo punto, ho visto un cancello, l’ho riconosciuto. Era proprio quello di Porta Romana, stavolta aperto.
Ho compreso di trovarmi dall’altra parte e poi, che ci crediate o meno, ho visto lui, il mio fantasma, ancora là fuori, che chiacchierava con un altro fantasma, a dirla tutta molto più elegante del mio.
Mi sono avvicinato al cancello, quasi con la paura di rovinare la loro conversazione, ma curioso, incredulo nel constatare come lui, il mio fantasma, fosse ancora lì dopo otto mesi.
Anche lui si è accorto di me e mi ha indicato all’altro fantasma, che ha sorriso.
E infine, non so neanch’io come, arrivato a un paio di metri da loro, ho detto: “Potete entrare, che aspettate, non vedete che è aperto?”. Loro, all’unisono, mi hanno risposto, con una voce che non dimenticherò mai: “Aspettavamo che fossi tu ad aprirla.”
Poi, una volta entrati, abbiamo cominciato a ricordare tante cose, ma questa, in fondo, è un’altra storia.

 

bty

“In questi pressi, fra il 1868 e il 1869, Fedor Mihailovic Dostoevskij compì il romanzo L’idiota”.

Ce l’avevo davanti agli occhi da due giorni ma, pur attento osservatore di ogni minima targa commemorativa, non l’avevo ancora vista.
Chi mi conosce può immaginare cosa significhi scoprire che 150 anni fa il mio scrittore preferito, Dostoevskij, scrivesse quel grandioso romanzo a tre metri da dove alloggio per questa trasferta fiorentina.
Il tutto mentre io, che avevo portato cinque fogli bianchi per scrivere qualcosa, sono riuscito ad appuntare solo gli orari dei treni e il nome di qualche locale. La targa si trova a Piazza de’ Pitti.

 

Quasi ormai sulla via del ritorno in provincia, ho rotto gli indugi, ho giocato d’anticipo, svegliandomi all’alba e alle 8.19 esatte sono entrato agli Uffizi, abbeverandomi alla fonte della Bellezza, novello Bacco caravaggesco.

 

“Ero già in una sorta di estasi all’idea di trovarmi a Firenze (…) Assorbito nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, la toccavo per così dire. Ero giunto a quel livello di emozione, dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un tuffo al cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.
(Stendhal, “Roma, Napoli, Firenze”)

Nel 1817 il grande Stendhal, autore tra l’altro di romanzi come “Il rosso e il nero” e “La Certosa di Parma”, visitò la Basilica di S. Croce, a Firenze.
Nel libro “Roma, Napoli, Firenze”, racconta della vertigine che lo colse all’interno della Basilica e che, in seguito, sarà appunto nominata come “sindrome di Stendhal”.

 

Ciao Firenze, ciao Ponte Vecchio, è tempo di tornare al mio paese, ma questo non è un addio, anche se non si sa mai, un addio è sempre in agguato.
Tornerò, forse da turista o forse addirittura da Re, quando sarò straricco, quando il Ponte potrò acquistarlo e trasformarlo in una gigantesca biblioteca vista fiume.
Ah, Firenze, hai visto che sono riuscito a passare su quel Ponte decine di volte in questi giorni, senza mai canticchiare quella canzone che Ivan ti dedicò?
Volevo fare una foto perfetta per salutarti, ma come vedi un furgoncino e una coppia di turisti si sono inseriti nell’inquadratura. Ma è giusto che anche loro passino da una sponda all’altra, costruendo ricordi, frugando nel passato, vivendo il presente, sospettando il futuro.
Beh, adesso vado davvero, anche perché mi si sta annebbiando la vista, sembra quasi che mi si stiano inumidendo gli occhi e il treno non avrebbe tempo di aspettare che io capisca se sono lacrime di gioia, di malinconia o un groviglio inestricabile di queste e altre cose.

“Ricordo i suoi occhi, strano tipo di donna che era
quando gettò i suoi disegni con rabbia giù da Ponte Vecchio.
– Io sono nata da una conchiglia, – diceva –  “La mia casa è il mare e con un fiume no, non la posso cambiare”.

 

 

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“Il mondo del sesso” (Henry Miller)

“Noi continuiamo ad immaginarci che il mondo sia fatto così e così. Ci muoviamo sbadatamente sullo sfondo di un panorama che cambia caleidoscopicamente. E in questo sbadato arrancare, ci tiriamo dietro molte immagini d’attimi di esistenza passata. Finché non incontriamo ‘lei’. Improvvisamente il mondo non è più lo stesso. Tutto è cambiato. Ma come può cambiare in un batter d’occhio il mondo intero? È un’esperienza che abbiamo fatto tutti, eppure non serve a portarci più vicino alla verità. Continuiamo a bussare alla porta… Ho visto una volta un ritratto di Rubens all’epoca del matrimonio con la sua giovane moglie. Erano raffigurati insieme, lei seduta e lui in piedi dietro di lei. Non dimenticherò mai l’impressione fattami da quel quadro. Fu come dare una lunga occhiata nel mondo della felicità. Mi sembrava di sentirlo, il vigore di quel Rubens nel fior della vita; di sentire la fiducia che la sua giovanissima e amabilissima consorte destava in lui. Intuivo che doveva essere successo qualcosa di intimamente irresistibile, qualcosa che il Rubens pittore si era sforzato di fissare per sempre in quel quadro di felicità coniugale. Non conosco la biografia di Rubens e perciò non so se con quella donna abbia poi vissuto felice o no. Quel che successe dopo il momento fissato in quel dipinto, non m’importa. Il mio interesse sta tutto in quel momento che mi ha turbato e ispirato. Resta incancellabile nella mia mente.
E allo stesso modo io so che certe cose, che ho consegnato alla pagina scritta, sono vere e imperiture. Quel che è successo dopo, a me o a «lei», ha poca importanza.”
(Henry Miller, “Il mondo del sesso”, ed. Arnoldo Mondadori editore)

Rettitudine e misantropia

castello misantropo

“Ma questa rettitudine, che voi esigete in tutto e per tutto con tanta intransigenza: questa assoluta dirittura in cui vi rinchiudete, la riconoscete in colei che amate? Visti i pessimi rapporti in cui siete col genere umano, io mi stupisco che con tutto ciò che ve lo rende odioso, abbiate trovato nel suo ambito di che affascinare i vostri occhi; e ciò che ancor più mi sorprende, è questa strana scelta in cui il vostro cuore è caduto. La sincera Eliante ha un debole per voi, la saggia Arsinoè vi guarda con occhi dolci; ma il vostro animo si rifiuta ai loro voti e si lascia invece prendere al laccio dalle vane lusinghe di Selimene, che mi pare, per la civetteria e il gusto della maldicenza, perfettamente in tono con le usanze del giorno d’oggi. Come mai, voi che odiate mortalmente queste usanze, le tollerate nella bella Selimene? Forse, in una così bella persona, non sono più dei difetti? Oppure non li vedete? Oppure li perdonate?”

(Molière “Il misantropo”, ed. Bur)

“Il bene sia con voi!” (Vasilij Grossman)

vasilij grossman

“- Devi capire, – diceva suo padre – che la gente non si preoccupa per il fatto che la macchina diventerà uguale all’uomo o addirittura migliore di lui. Nessuno se ne ha a male e nessuno se ne spaventa. Non fa paura, l’uguaglianza fra uomo e macchina. A far paura è l’uomo, non la macchina. È la paura inconscia dell’uomo verso l’uomo; non è la macchina, ma l’uomo stesso a minacciare il suo prossimo. Lo capisci? Non si ha paura dell’uguaglianza tra uomo e macchina, ma della disuguaglianza fra gli uomini generata dall’uguaglianza con la macchina. È questo il guaio! Si ha paura che l’uguaglianza con la macchina renda l’uomo impotente nella lotta per la libertà, eterno schiavo non delle macchine ma degli uomini. Si ha paura che l’equivalenza con un aggeggio inanimato accentui una disumanità senza precedenti…”

(Vasilij Grossman, “Il bene sia con voi!”, ed. Adelphi)

Nella lista dei libri da leggere, da tempo ho inserito “Vita e destino” di Vasilij Grossman. Un paio di mesi fa, trovandomi davanti “Il bene sia con voi!”, decisi di comprarlo, quasi per introdurmi alla lettura di un autore che fino allora non avevo mai letto. Iniziai a leggerlo e, dopo una ventina di pagine, lo abbandonai, perché mi stavo annoiando o forse, più precisamente, perché non era il momento giusto. Un paio di giorni fa, infatti, ho riprovato a leggere “Il bene sia con voi!” e il risultato è stato molto diverso. Ho scoperto che non avevo sbagliato acquisto e che i racconti contenuti nel libro mi hanno convinto quasi tutti.

Oltre allo splendido racconto dedicato alla Madonna Sistina di Raffaello, del quale ho già riportato alcuni estratti su questo blog, sono presenti altri otto racconti scritti tra il 1943 e il 1963, anno antecedente la morte dell’autore. Spesso in primo piano e talvolta sullo sfondo, c’è la guerra, l’orrore del nazismo e le ripercussioni dello stesso in Russia. Sarebbe riduttivo, però, sostenere che si tratti solo di ciò, perché Grossman è abile sia quando ci racconta del viaggio nei paesini dell’Armenia (racconto che dà il titolo al libro), sia quando ci descrive la nostalgia per Mosca nel periodo in cui lavorava in un laboratorio minerario, o ancora quando riflette sulla morte all’interno di un cimitero.

In sostanza, sono ben lieto di aver riprovato e prossimamente andrò all’assalto di “Vita e destino”.

“I primi minuti per le strade di una città sconosciuta hanno un qualcosa che i mesi successivi – gli anni, persino – non riusciranno a scalfire. Sono momenti in cui dal forestiero si sprigiona un’energia visiva che definirei atomica, una capacità d’attenzione che ha una forza nucleare. Egli si imbeve, si impregna, si intride di quell’enorme universo con un’intensità penetrante, con un’emozione che tutto pervade: le case, gli alberi, i volti dei passanti, le insegne, le piazze, gli odori, la polvere, il colore del cielo, l’aspetto dei cani e dei gatti. Divinità onnipotente, in quei minuti l’uomo genera un mondo nuovo, crea, costruisce dentro di sé una città con tanto di piazze, strade, corti e cortili, con i suoi passeri, la sua storia millenaria, le sue attività industriali e commerciali, il teatro dell’Opera e le trattorie. E la città che all’improvviso emerge dal nulla è una città insolita, diversa dalla città reale, è una città che gli appartiene, una città in cui le foglie d’autunno frusciano come in nessun altro luogo, la polvere ha un odore tutto suo e i bambini conoscono un modo particolare di tirare con la fionda. Continua a leggere…

“La Madonna Sistina” (Vasilij Grossman)

raffaello

Non sono né un fervente credente (anzi) né un esperto/appassionato di Raffaello, però segnalo questo breve racconto di Vasilij Grossman, nel quale l’autore, prendendo spunto da una mostra organizzata dalle autorità sovietiche a Mosca nel 1955, dove erano esposte opere della Galleria di Dresda che i russi avevano portato con sé nel corso dell’avanzata verso la Berlino ancora nazista (opere che la Russia si accingeva a restituire ai tedeschi), riflette sul quadro di Raffaello e sul campo di sterminio di Treblinka, che egli aveva visitato.

“E capisco di avere sempre usato con leggerezza una parola dalla potenza tremenda – immortalità -, di averla sempre confusa con la pur possente vitalità di alcuni capolavori dell’uomo. Nonostante la mia venerazione per Rembrandt, Beethoven e Tolstoj, mi è finalmente chiaro che di tutte le opere capaci di colpire il mio cuore e la mia mente, opere create dal pennello, dal cesello o dalla penna, solo questo quadro di Raffaello non morirà fino a che l’uomo avrà vita. Anzi, se anche l’uomo dovesse estinguersi, gli esseri che prenderanno il suo posto sulla terra – lupi, ratti, orsi o rondini che siano – verranno sulle loro zampe o con le loro ali ad ammirare la Madonna di Raffaello.

L’hanno vista dodici generazioni di esseri umani, questa tela, un quinto dell’umanità passata sulla faccia della terra dall’inizio dell’evo moderno fino ai giorni nostri.

L’hanno guardata vecchiette in miseria, imperatori europei e studenti, miliardari d’oltreoceano, papi e principi russi, l’hanno ammirata vergini purissime e prostitute, colonnelli dello Stato Maggiore, ladri, geni, tessitori, piloti di caccia e maestri di scuola, l’hanno vista i buoni e anche i cattivi.

(…)

La bellezza della Madonna è legata saldamente alla vita terrena. È democratica, umana; è la bellezza di tantissime persone – gialli con gli occhi a mandorla, gobbi con il naso lungo e pallido, neri con i capelli crespi, le labbra tumide. È universale. La Madonna è anima e specchio dell’uomo, e chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela – profonda e indistruttibile – ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie.

Penso che questa Madonna sia l’espressione più atea della vita, di quell’umano a cui il divino non partecipa.

(…)

Il ricordo di Treblinka era riaffiorato nel mio cuore senza che me ne rendessi conto… Era lei a calpestare scalza, leggera, la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragitto da dove il convoglio veniva scaricato fino alla camera a gas. La riconosco dall’espressione che ha sul viso, negli occhi. Guardo suo figlio e riconosco anche lui dall’espressione adulta, strana. Così dovevano essere madri e figli quando scorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka sullo sfondo verde scuro dei pini, così era la loro anima.

Quante volte ho cercato di distinguere nel buio coloro che scendevano dal treno; i profili di quelle figure, tuttavia, erano sempre vaghi – o erano i volti a sembrare sfigurati da un orrore infinito e tutto si strozzava in un grido tremendo, o era la prostrazione fisica e morale, la disperazione a coprire quei visi con un velo di indifferenza ottusa e testarda, oppure era il sorriso ebete della follia a stamparsi sui volti di chi, scesa dal treno, marciava verso la camera a gas.

(…)

Perché siamo vivi? Una domanda tremenda, dura, che solo i morti possono fare ai vivi. Ma i morti tacciono, non fanno domande.

Il silenzio che è seguito alla guerra viene violato ogni tanto da qualche esplosione, e sul cielo si stende una nebbia radioattiva. La terra su cui tutti viviamo trema – alle armi atomiche sono subentrate quelle termonucleari.

(…)

Che cosa diremo al cospetto del tribunale del passato e del futuro, noi uomini vissuti nell’epoca del nazismo? Non abbiamo giustificazioni.

Diremo che non c’è stata un’epoca più dura della nostra, ma che non abbiamo lasciato morire l’umano nell’uomo.

E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo.

Che vivrà in eterno, e vincerà.”

(Vasilij Grossman, racconto “La Madonna Sistina” in “Il bene sia con voi!”, ed. Adelphi)

 

“Lo sguardo altrove” (per “Paesaggi sconosciuti”, mostra pittorica di Angelo Zuena)

Angelo 3

Dal prossimo 8 dicembre, fino al 6 gennaio 2015, a Itri (Lt), si terrà la mostra pittorica “Paesaggi sconosciuti”, nella quale saranno esposte alcune opere di Angelo Zuena.

Ho avuto l’onore e l’onere di scrivere qualcosa per il catalogo che esce in concomitanza con la mostra. Pubblico lo scritto anche qui sul blog, aggiungendo le parti che alla fine sono state risparmiate ai lettori del catalogo d’arte (le parti tagliate sono riconoscibili perché in corsivo e tra parentesi).

Aggiungo alcune foto dei quadri di Angelo Zuena e invito tutti gli interessati. Le date sono quelle indicate sopra; per gli orari, lo spazio d’esposizione sarà aperto al pubblico tutti i giorni, all’incirca tra le 17.00 e le 20.00.

LO SGUARDO ALTROVE

Da un po’ di tempo Angelo Zuena, per me, non è più “solo” un artista che vive nel mio stesso paese, ma anche un compagno di chiacchierate. Ho potuto conoscerlo, quindi, ma non abbastanza a fondo da comprendere cosa c’è dietro le sue opere, quali sono le ragioni ultime che lo spingono, da decenni, a dipingere. A pensarci bene, non credo nemmeno di averglielo mai chiesto, forse perché dubito che sia possibile, persino per lui, comprendere in pieno certe motivazioni.

Non ero mai stato nel suo studio ed entrandovi fui colpito dallo schieramento di colori, che per me erano solo oggetti dalle tinte differenti; per lui, invece, erano e sono materiale destinato alla metamorfosi, a vivificarsi fino allo sgorgare definitivo dell’opera che, sottolineò quel giorno, non è mai solo frutto di un’ispirazione momentanea, (di una visione improvvisa), bensì di un lavoro certosino, graduale, faticoso. Gli chiesi quanto tempo richiedesse l’esecuzione di un quadro e mi pentii all’istante di quella stupida domanda. Sapevo già, prima ancora che lui mi rispondesse, che l’elaborazione tecnica può essere più o meno complessa, ma fondamentale è il lungo percorso mentale che sfocia nei dipinti.

Scrutavo con curiosità e ammirazione i quadri da esporre, Angelo parlava, prendevo nota nella mia testa, elaboravo le sue parole e le mescolavo al mio pensiero; la mente umana, allora, mi parve il luogo ignoto per eccellenza, il fulcro attorno al quale ruotano tutti gli altri scenari, compresi quelli pittorici e letterari. La geografia di questi territori immaginari, di queste lande meravigliose o terrificanti, è imprecisa, avvolta nell’oblio tipico dei sogni. Situati in un immaginario altrove, pur non essendo un’impossibile evasione totale, rappresentano uno scostamento, un cambio di prospettiva, i cui tragitti sfumano, mutano, si mescolano, disegnando labirinti che destabilizzano.

(L’ignoto, tuttavia, non è solo ciò che avvertiamo come esterno, ma si manifesta anche nelle vesti di paure fondate sull’ambigua conoscenza del mondo interiore. Certi pensieri ci spaventano proprio perché sappiamo di esserne la causa, ma bisogna affrontare quelle zone d’ombra, non accantonarle quasi non esistessero, bensì frequentarle quel tanto che impedisca loro di crescere nel silenzio e, se possibile, sublimarle. Solo il nostro sguardo può permettere a qualche luce di filtrare tra le fronde degli alberi che rendono buio il paesaggio interiore.

Siamo su un balcone, a pochi centimetri dalla ringhiera, non abbiamo paura di cadere. Se, però, vediamo che la ringhiera non c’è, ci sembrerà molto più difficile restare a pochi centimetri dall’orlo, con il baratro dinanzi a noi. Ma se avessimo gli occhi chiusi, guidati da una voce amica che ci dice quando fermarci per non toccare la ringhiera, sapendo che la ringhiera c’è, anche se in realtà l’hanno tolta a nostra insaputa, proveremmo forse paura? E dunque, abbiamo più paura dell’ignoto o del già noto? Oppure non sono due aspetti scissi?)

Qualcuno però, ogni tanto, scopre una chiave che consente di districarsi in questi angusti territori. I più temerari, abili o semplicemente i più fortunati, si rintanano nel territorio sconosciuto per eccellenza, quello che non andrebbe nominato, ma solo vissuto, e che per comodità chiamiamo Amore. Cos’altro è, l’Amore, se non una (inesorabile, dolente, esaltante) discesa in un luogo che sappiamo di non conoscere e che pure, per una ragione che ci sfugge e che cerchiamo invano di comprendere, ci attrae? Vogliamo far parte di un mondo ignoto che l’Altro si porta dentro, e vorremmo anche che il nostro fosse conosciuto dall’Altro;  quando accade che i due mondi si mescolano, ecco sgorgare un panorama diverso, un nuovo modo di vedere le cose.

Più in generale, non è l’Altro un abisso insondabile, nel quale pure cerchiamo di riconoscere ciò che è già nostro e di scoprire ciò che invece ignoriamo? Anche il patto inconscio che sottoscrivono l’artista, la sua opera e i fruitori può raggiungere un certo grado d’intimità, ma non sfugge all’impossibilità di colmare quella lacuna che ci separa dall’Altro. Siamo così sicuri che l’artista, con quel dettaglio, abbia voluto descrivere (evocare) proprio quella sensazione che ci pervade leggendo un libro, ascoltando una canzone, guardando un film, osservando un quadro? Sarebbe assurdo pretendere quest’identità, sappiamo bene quanto di nostro immettiamo nell’opera; d’altra parte, lo stesso artista (Chi è artista? Quando lo si diventa? In una parentesi è bene non sfiorare nemmeno tali domande), una volta licenziata l’opera, sa bene che essa non è più solo sua, ma che l’interpretazione dello spettatore la sposta altrove.

Eppure, talvolta, toccate certe nostre corde interiori, percepiamo che quel distacco tra noi e l’Altro, nello specifico tra noi e l’artista, non è più così abissale, (e ci sentiamo affiancati a lui nell’osservare uno scorcio di mondo). Quando poi si ha la fortuna di conoscere personalmente un autore, allora si può osare e presumere, può darsi a torto ma anche no, di cogliere anche nelle opere alcuni tratti caratteriali che abbiamo avuto modo di intuire nel corso di chiacchierate lungo le strade del paese. Ho sentito, guardando le opere di Angelo, le agrodolci note della malinconia e della solitudine.

Una sera mi chiese cosa fosse per me l’arte, (io non ricordo con esattezza cosa risposi, forse) elusi la domanda, perché, anche se dentro di me sentivo di avere una risposta, sapevo che non poteva essere né esaustiva né appagante. Si trattava di uno di quegli interrogativi ai quali mi è sempre parso estremamente difficile rispondere, (e che studiosi di diversa formazione sviscerano da secoli, con efficacia talvolta sublime ma mai definitiva). Un territorio labile sotto i nostri piedi, che s’intreccia con quello dove alloggia la Bellezza, altra parola sfuggente, altro labirinto nel quale tentiamo di orientarci e che ci lascia smarriti (di fronte all’impossibilità di trovare parole adeguate a comunicare in pieno ciò che sentiamo quando, per l’appunto, ci sorprendiamo ammaliati dalla Bellezza). Perché anche la Bellezza è un paesaggio sconosciuto, nel quale c’inoltriamo con la paura che non mantenga la sua promessa di felicità. E poi, a quale Bellezza aspiriamo, a quella dell’uomo, della natura, a quella fisica o spirituale, e su quali arbitrari criteri distinguiamo queste presunte diverse manifestazioni del Bello? Inoltre, non è forse il caso di prendere atto che nel paesaggio della Bellezza è insito anche il Brutto, che le cose non sono così scindibili? Il terreno si fa sempre più paludoso e rischiamo di restarne avvinghiati, e allora, a un certo punto, è bene fermarsi, respirare, scrutare quest’orizzonte indistinto senza pretendere di scoprirne i segreti più nascosti, perché comunque, dovremmo averlo capito, nessuno potrà mai svelarcene la totalità.

A questo punto, voltandomi indietro, mi accorgo che la pagina bianca non è più tale, si è trasformata anch’essa in un paesaggio sconosciuto. Inquieto, prima di uscire da questo suolo fluttuante, potrei agganciarmi a qualcosa. Per esempio, potrei chiedere ad Angelo che cos’è per lui l’arte oggi, confrontare la sua opinione con la mia, ma sono quasi certo che non lo farò, o almeno lo farò fuori dal paesaggio nel quale sto scrivendo, perché so che si tratterebbe di esprimere un’opinione azzardata, di cristallizzarla in una forma scritta destinata a sciogliersi il giorno seguente. In quanto ad Angelo Zuena, la risposta alla domanda che non gli farò l’ha già data in tutti questi anni. Non c’è niente da dire, tutto è nelle sue opere, (nei suoi paesaggi sconosciuti.)

Angelo 1

Angelo 4

Angelo 2

“Le affinità elettive” (Johann Wolfgang von Goethe)

goethe

“- Se la coscienza, – ribatté Carlotta, – ti suggerisce simili considerazioni, allora io posso star tranquilla. Queste metafore sono garbate e interessanti, e chi non si diverte a giocare con le similitudini? Ma l’uomo, insomma, sta ben più in alto di questi elementi, e se in questo campo ha un po’ largheggiato con le belle parole di scelta e di affinità elettiva, farà anche bene a tornare un po’ in sé stesso e ad apprezzare degnamente il valore di tali espressioni. Purtroppo conosco anch’io tanti casi in cui un’intima unione di due esseri, che sembrava indissolubile, è stata distrutta dal casuale intervento di un terzo, e uno di quelli che prima sembravano così bene accoppiati ha dovuto prendere il largo.

– In questi casi i chimici sono molto più galanti, – disse Edoardo; – essi vi associano un quarto elemento, perché nessuno rimanga scompagnato.

– Verissimo! – replicò il Capitano; – questi casi sono anzi i più interessanti e i più notevoli, poiché vi si può realmente rappresentate come s’incrociano in questa quadruplice vicenda attrazione, affinità, abbandono ed unione: quattro sostanze, finora combinate a due a due, poste in contatto, abbandonano la loro unione precedente e si combinano in modo nuovo. In quest’espellere e catturare, in questa repugnanza ed attrazione, par veramente di scorgere una superiore determinazione; si è portati ad attribuire a simili sostanze una specie di volontà di scelta e il termine tecnico di affinità riesce perfettamente giustificato. Continua a leggere…

“Della bellezza” (Zadie Smith)

della bellezza

“Senza che nessuno se ne fosse accorto, Howard aveva fatto il suo ingresso nella stanza. Era completamente vestito, scarpe comprese. Aveva i capelli bagnati e pettinati all’indietro. Era forse una settimana che Howard e Kiki non si trovavano nella stessa stanza, quantunque a tre metri di distanza, e ora in pieno contatto visivo, come i ritratti ufficiali a grandezza naturale di due estranei, appesi uno di fronte all’altro. Mentre Howard chiedeva ai ragazzi di uscire dalla stanza, Kiki si concesse il tempo di guardarlo. Ora lo vedeva diversamente; era uno degli effetti collaterali. Difficile dire se questo suo nuovo modo di vederlo fosse più vero di quello precedente. Ma era senza dubbio più crudo, più rivelatore. Adesso scorgeva ogni piega e ogni tremito in una bellezza in declino. Scopriva di poter provare disprezzo anche per le sue caratteristiche più neutre. Le sottili, diafane narici caucasiche. Le orecchie carnose da cui sbucavano peli che Howard si affrettava a rimuovere, ma la cui spettrale esistenza lei continuava a registrare. Le uniche cose che minacciavano di disturbare la sua determinazione erano gli strati temporali di Howard così come le si presentavano dinanzi: Howard a ventidue anni, a trenta, a quarantacinque, a cinquantuno; la difficoltà di mantenere tutti quegli Howard al di fuori della coscienza; l’importanza di non lasciarsi sviare, di rispondere solo all’Howard più recente, quello di cinquantasette anni. Howard il bugiardo, lo spezzacuori, l’impostore.” Continua a leggere…

Sui miei gusti posso discutere (sulla digestione di una torta)

L’antico e conosciuto motto ci spiega che sui gusti c’è poco da discutere. Non bisogna aver letto “La critica del giudizio” di Kant o interi manuali di estetica per comprendere che il gusto è qualcosa di molto personale. In quest’articolo, però, non voglio soffermarmi su cos’è il gusto, né su possibili criteri per spiegare perché riteniamo un libro, un film o una canzone belli. Sarebbe, per me, una pretesa assurda. Sul tema della bellezza, peraltro, mi sono già avvalso, in passato, dell’autorevole opinione di alcuni personaggi che si sono interrogati su cos’è la bellezza.

In questa sede voglio riflettere sul perché talvolta, magari dopo aver digerito male e aver avuto incubi di varia natura, mi sveglio e riesco a trovare pecche, difetti, mancanze a libri, film, canzoni o altro che avevo ritenuto, fino allora, dei capolavori assoluti. Sto semplificando, è chiaro che certi processi non avvengono, quasi mai, dalla sera alla mattina, che i mutamenti sono lenti e che le metamorfosi, a meno di non chiamarsi Gregor Samsa, non avvengono così all’improvviso. Il nostro gusto si affina nel corso degli anni ed è naturale che ciò che ci piaceva da adolescenti possa respingerci due decenni dopo. Peraltro, qui mi riferisco non alle repulsioni totali, quelle che ci portano a ripudiare totalmente qualcosa che prima apprezzavamo, ma a qualcosa di più sottile.

Un mio amico mi disse, scusandosi per l’azzardato paragone, che ci si può gustare un film o un libro come fosse una torta, verificando se ci piace o no, e solo dopo, volendolo, andare ad analizzare i singoli ingredienti di cui è composta. A me accade, insomma, che pur restando la torta identica, non riesca più ad accettare la presenza di certi ingredienti nella stessa, nonostante debba ingoiarli a forza se voglio gustarmela. Fuori di metafora, mi succede di trovare qualcosa di molto sgradevole, in film, libri, canzoni che pure mi piacciono e continuo ad ascoltare/guardare/leggere. Può essere una concezione teorica, un certo modo di usare il linguaggio, un aspetto biografico, qualsiasi cosa, che viene a insinuarmi dubbi. Al contrario, può accadere che io resti affascinato da alcuni ingredienti della torta, sebbene la torta nel suo complesso mi risulti indigesta. Anche qui, non mi riferisco all’ipotesi della (ri)scoperta di un film, un libro o una canzone che prima non mi era piaciuto e adesso mi entusiasma, bensì a quando, pur continuando ad avere un giudizio negativo sull’intero film, sul libro e sulla canzone, io percepisco, assieme all’insofferenza per il tutto, un piacere per una parte del tutto.

Queste considerazioni notturne, sonnolente e deliranti mi hanno indotto a riflettere su come, il più delle volte, quei processi di cui sopra siano nient’altro che un giudizio su me stesso. Quella canzone che due anni fa mi entusiasmava e mi muoveva dentro, adesso mi piace, la ascolto volentieri, ma la trovo artificiosa, il testo mi appare un mero esercizio di esibizionismo lessicale; eppure è la stessa, cos’è cambiato? Sono cambiato io, la risposta è semplice, ma decisiva. Anche se ammiro tuttora quel gruppo e quella canzone, e quindi non è un caso di rinnegamento totale, percepisco che è quel singolo ingrediente della torta a non scendermi più giù. Ciò accade, però, perché quell’aspetto, che prima sentivo anche mio, adesso non mi appartiene più, anzi, addirittura lo trovo insopportabile quando lo riscontro in me. Di conseguenza, il fastidio che avverto nel sentire il cantante esprimersi a quel modo, lo stesso di due anni fa, è un’insofferenza verso me stesso, verso quella mia caratteristica che ho combattuto o sto combattendo (per esempio, rileggendo l’articolo, trovo sgradevole aver scritto, poco sopra, la frase “mero esercizio di esibizionismo lessicale”). Nel caso contrario, invece, mi succede di trovare gradevole qualcosa che fino a qualche tempo fa mi faceva “orrore”. Anche in questo caso, non mi riferisco a schizofrenici cambi di rotta, ma a quando, pur ascoltando una canzone (leggendo un libro, guardando un film) che anche oggi non mi piace, perché la ritengo demenziale o per altro motivo, mi sorprendo, però, a sorridere e a provare piacere per qualcosa che non ritenevo potessi apprezzare. Qui, la situazione è speculare. La torta, cioè il tutto, continua a non scendermi nello stomaco, ma il singolo ingrediente, che pure c’era già prima ma che non avevo mai notato, mi piace. Ciò significa che anche quella canzone, che la ragione continua a rigettare, contiene qualcosa di mio, o almeno qualcosa capace di stimolare una zona latente in me.

In definitiva, insomma, non mi resta che prendere atto del mio molteplice ruolo di giudice, accusato e soprattutto degustatore di torte più o meno metaforiche, tenendo sempre presente che è difficile, forse sconsigliabile, mettersi a sindacare i gusti altrui, ed è altrettanto difficile, ma forse più auspicabile, interrogarsi sui propri.

Tutto questo, pensate, è stato causato dalla torta che mia madre ha sfornato qualche giorno fa e che sul momento mi sono ingurgitato, a essere sincero, senza farmi troppe domande sul tutto e sulla parte. Mi piaceva, ecco.

“Il tempo di attesa stimato è”

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“Il tempo di attesa stimato è superiore ai quattro minuti. Tutti gli operatori sono al momento occupati. La invitiamo ad attendere”.

Quattro minuti possono essere tanti, ma mi conviene attendere, se riaggancio e riprovo più tardi non è detto che possa andarmi meglio. Sì, ma intanto a cosa penso? Il micio si arrampica al mio polpaccio, vorrebbe salire tra le mie braccia, ma adesso non si può, devi attendere anche tu, caro felino, almeno quattro minuti, poi potremo avvinghiarci quanto vuoi, ma ora le mani mi servono, vedi, una per reggere la cornetta, l’altra per prendere appunti, se e quando sarò messo in contatto con un operatore.

“Il tempo di attesa stimato è superiore ai quattro minuti. Tutti gli operatori sono al momento occupati. La invitiamo ad attendere”.

L’attesa. Passiamo molto del nostro tempo ad attendere qualcosa. Certe volte si tratta della fila alla posta o dal medico, che da queste parti significa anche poter socializzare con qualcuno, solo a volerlo. L’attesa può essere snervante, ma il poeta c’insegna che il più delle volte nel villaggio il sabato è meglio della domenica proprio perché si è ancora immersi nell’attesa, Continua a leggere…

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