
“Per quanto Ivan sia stato creato certamente per me, pure non posso accampare pretese su di lui io sola. Perché lui è venuto per rendere di nuovo le consonanti solide e palpabili, per aprire di nuovo le vocali perché risuonino piene, per farmi tornare le parole sulle labbra, per ristabilire i primi rapporti distrutti e redimere i problemi, e così non mi allontanerò di uno iota da lui, disporrò l’una sull’altra le nostre iniziali identiche, squillanti, con cui firmiamo i nostri biglietti, le scriverò una sopra l’altra, e dopo l’unione dei nostri nomi potremmo incominciare con cautela con queste prime parole a rendere ancora onore a questo mondo, perché esso possa augurarsi di farsi ancora onore, e poiché noi vogliamo la resurrezione e non la distruzione, ci guardiamo bene dallo sfiorarci pubblicamente, e solo di nascosto ci guardiamo negli occhi, perché con i suoi sguardi Ivan deve prima lavare dai miei immagini che sono cadute sulla retina prima del suo arrivo, e dopo molti lavaggi emerge di nuovo una immagine cupa, orribile, quasi inestinguibile, e allora Ivan me ne spinge sopra una chiara, perché non esca da me un brutto sguardo, perché io perda quel terribile sguardo che so di dove m’è venuto, ma non ricordo da dove, non ricordo…(ancora non puoi, ancora no, molte cose ti turbano…).
Ma poiché Ivan incomincia a guardarmi, non può più andare tanto male sulla terra.”
(Ingeborg Bachmann, “Malina”, ed. Adelphi)
Scrivere di “Malina” non mi risulta facile, non solo perché quando un romanzo mi è piaciuto molto ho sempre una sorta di reverenza, ma soprattutto perché questo sfugge a qualsiasi gabbia gli volessi costruire attorno. Per chi volesse leggerlo, consiglio di abbandonarsi alla fluviale prosa dell’Io protagonista e narrante, senza preoccuparsi troppo se avverte la sensazione di perdersi. “Malina” è un romanzo oscuro, disturbante, avvolgente, ma che si legge tutto d’un fiato, nonostante lo spaesamento che può cogliere alle prese con il vortice di parole della Bachmann, autrice che già ammiravo per precedenti letture, quali “Il trentesimo anno”, “Il buon Dio di Manhattan”, “Diario di guerra”, “Letteratura come utopia”, “Quel che ho visto e udito a Roma”, opere peraltro molto diverse tra loro e da “Malina”. Su questo blog, inoltre, ho pubblicato (e consiglio) una sua poesia, “La Boemia è sul mare”.
I personaggi ci sono presentati all’inizio, come per un’opera destinata al teatro. Scopriamo così che la storia avrà pochi protagonisti, e cioè Ivan, Malina, Io e sarà ambientato in un imprecisato Oggi. Sappiamo che Io è bionda, che scrive, e poco altro; vive con Malina, uno studioso d’arte che però lavora come funzionario statale, ma ha una storia anche con Ivan, ungherese, padre di due figli avuti da altra donna. Un triangolo, quindi, ma abnorme, com’è giustamente riportato nel retro copertina; tra i due uomini non c’è contatto, s’ignorando quasi del tutto, eppure tutti e due, sia pure su livelli diversi, sono importanti per Io. La vicenda è racchiusa quasi totalmente nella Ungarstrasse, una strada di Vienna e per la precisione, in modo ancora più claustrofobico, tra il civico 6 e il 9, il primo ospitante Io e Malina, il secondo dimora di Ivan.
Nella prima parte del romanzo l’esistenza interiore di Io sembra essersi assestata attorno a Ivan. Il passato, che l’ha ferita in modo irrimediabile e che incombe su tutta la narrazione, pare accantonato; il titolo di questa parte, “Felice con Ivan” ci fa pensare a una pacificazione, che però tale non è. Leggendo, infatti, si avverte sempre un’inquietudine di fondo, fosse anche solo nella spasmodica attesa che Ivan telefoni, lui che non appare così legato a lei quanto lei lo è a lui. Nella seconda parte entra in scena “Il terzo uomo”, il padre o la sua orrenda proiezione, in un delirio onirico, visionario che non sappiamo quanto affondi le radici nella realtà e quanto invece si risolva in considerazioni simboliche riguardanti la prevaricazione dell’uomo sulla donna. Questo capitolo è il più difficile, sia a livello contenutistico sia sotto il profilo stilistico. Nell’ultimo, invece, è più presente Malina, i suoi dialoghi fanno quasi scomparire Ivan dalla scena, eppure non è proprio così, alla fine il lettore si trova spiazzato, senza certezze sull’effettiva evoluzione della storia, anzi senza sapere se realmente una storia abbia avuto luogo o non sia stato tutto un lungo delirio.
È riduttivo, però, presentare “Malina” come la storia di un triangolo sentimentale contorto, perché all’interno della narrazione Io, quindi la Bachmann, introduce digressioni, annotazioni di costume, che talvolta leniscono anche il quadro oscuro, con osservazioni pungenti e divertenti, che siano su un salotto di amici o su un postino che non consegna più la posta. Un romanzo, insomma, che sfida il lettore alla comprensione e che può essere letto su diversi livelli (ma questo, per come la vedo io, vale per la gran parte dei romanzi). Suggerisco, al riguardo, un articolo che ho trovato sul web e che mi è parso efficace, al quale rimando per altre considerazione che avrei potuto aggiungere anch’io. In ogni caso, comunque, come sempre, a prescindere dalle interpretazioni possibili, il miglior modo di gustarsi un libro, un romanzo, è leggerlo e trarre le proprie impressioni; di conseguenza, vi lascio a un altro brano estratto da “Malina”.
“Solo sulla data ho dovuto riflettere a lungo, perché è quasi impossibile per me dire ‘oggi’, sebbene ogni giorno si dica, anzi si debba dire, ‘oggi’, ma se qualcuno mi comunica quel che si propone di fare oggi – per non dire domani – non assumo, come di solito dicono, uno sguardo assente, ma uno molto attento, per l’imbarazzo, tanto è priva di speranza il mio rapporto con l’‘oggi’, perché questo Oggi lo posso passare solo con una tremenda angoscia e una fretta pazzesca, e scrivere, o solo dire, in questa tremenda angoscia, ciò che succede, perché si dovrebbe distruggere subito quello che viene scritto sull’Oggi, come si strappano, si spiegazzano, non si finiscono, non si spediscono le lettere vere, perché sono di oggi e perché non arriveranno in nessun Oggi.
Chi una volta ha scritto una lettera orrendamente supplichevole, per poi strapparla e gettarla via, sa più di ogni altro ciò che va inteso qui per ‘oggi’. E chi non conosce quei biglietti quasi illeggibili: <<Venga, se mai, se può, se vuole, se Glielo posso chiedere! Alle cinque al Café Landtmann!>>. O questi telegrammi: <<Prego telefona subito stop oggi stesso>>. Oppure: <<Oggi non possibile>>.
Perché oggi è una parola che solo i suicidi dovrebbero usare, per tutti gli altri non ha assolutamente alcun senso, ‘oggi’ è soltanto la designazione di un giorno qualsiasi per loro, di oggi precisamente, per loro è evidente che debbono lavorare ancora una volta per otto ore, oppure sono liberi, faranno commissioni, compreranno qualcosa, leggeranno un giornale del mattino e uno alla sera, prenderanno un caffè, avranno dimenticato qualcosa, hanno un appuntamento, devono telefonare a qualcuno oppure, meglio ancora, non succede gran che.
Se invece io dico ‘oggi’, il mio respiro comincia a diventare irregolare, subentra l’aritmia che ora è anche verificabile su un elettrocardiogramma, solo non risulta dal tracciato che la causa è il mio Oggi, una cosa sempre nuova, incalzante, ma la prova del disturbo posso produrla, redatta nel volubile codice dei medici, di qualcosa che precede l’attacco di angoscia, mi predispone, mi stigmatizza, oggi in modo ancora funzionale, così dicono, credono loro, gli esperti. Solo io temo sia l’‘oggi’, che per me è troppo eccitante, troppo enorme, troppo commovente, e in questa eccitazione patologica sarà per me ‘oggi’ fino all’ultimo momento.
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