Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Castelli in aria (abbattuti)” – oppure “Ei fu cortometraggio”

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Nella schiera dei miei progetti rivelatisi poi vuote velleità, c’è anche una sorta di sceneggiatura per un cortometraggio, che teoricamente io e alcuni amici avremmo dovuto realizzare qualche anno fa, ma che in pratica agonizza in un cassetto della mia stanza. L’umanità, è bene sottolinearlo, non ha sentito né sentirà la mancanza di quest’opera potenziale, che avrebbe potuto infestare i social network o addirittura qualche “Festival del Corto”. Oggi, spinto dal tedio provinciale, mi sono riletto l’elaborato, così da rilevarne, a distanza di tempo, difetti evidenti e pretenziosità. Il titolo che avevo scelto come definitivo, “Castelli in aria”, nel quale avrei voluto condensare l’aleatorietà dei pensieri del protagonista, rappresenta, probabilmente, la parte più riuscita dell’opera. Inoltre, sebbene il titolo stesso non spicchi per brio, si dovrà ammettere che resta preferibile all’originale “La finestra del castello”, da me abbandonato per evidente squallore dello stesso.

Influenzato da non so quali letture dell’epoca, presumo qualcosa che evidenziasse la relatività della conoscenza, mi convinsi di avere in mente un’idea brillante nel corso di una passeggiata lungo la via principale del mio paese, dalla quale è possibile scorgere, in lontananza, il castello medievale che domina dall’alto le strade sulle quali ero e sono solito passeggiare. La prima scena, intitolata “Il viale dell’eterna illusione”, si apre con due amici che camminano mogi e silenti, accompagnati da “Un giorno dopo l’altro” di Luigi Tenco come colonna sonora, scelta non certo rappresentante uno slancio nel mondo dell’ottimismo. L’indicazione per l’eventuale regista del corto è di piazzare la telecamera alle spalle dei due viandanti, in modo da “dare il senso della prospettiva” e inquadrare anche il castello. Continua a leggere…

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“La sicurezza della pausa – caffè” (da “Frammenti da un camino”, n. 18)

– Per esempio, se adesso proponessi di fare la pausa – caffè, sono sicuro che voi apprezzereste, non è così?

Un sospiro di sollievo collettivo accolse le parole di Giorgio, lo psicologo che da quasi mezz’ora cercava di mantenere svegli i partecipanti a quel corso di formazione, organizzato dalla Regione nell’ambito d’interventi contro la crisi occupazionale. Il ragazzo, poco più che trentenne, aveva un compito difficile, considerando che gran parte dei presenti non aveva molto interesse per la psicologia applicata alle dinamiche aziendali; per lui era un’impresa spiegare l’importanza di un colloquio di lavoro affrontato con il giusto piglio o di un curriculum scritto in maniera non approssimativa. Sapeva benissimo, essendoci passato anche lui negli anni precedenti, che le sue parole sarebbero suonate vuote a gran parte dei presenti che, infatti, reprimevano a stento sbadigli, sussurravano tra di loro, fingevano di prendere appunti. Il gruppo era molto eterogeneo e questo creava, dal suo punto di vista, dinamiche interessanti.

– Noto che finalmente avete mostrato entusiasmo per una mia affermazione – sorrise Giorgio, smontando però subito la febbrile attesa degli altri – Il caffè lo prenderemo tra dieci minuti, adesso voglio terminare questo discorso sulla “sicurezza”, parlandone con voi.

Il tema di quella giornata del corso era proprio la “sicurezza”, intesa come fiducia in sé stessi.

– Allora, prima vi ho detto che l’uomo ha bisogno di sicurezza. Vi ricordate in relazione a quali bisogni è innanzitutto necessaria tale sicurezza? Continua a leggere…

Specchio delle sue brame

Seduto dall’altro lato del tavolo, il Dottore sembrava parte dell’arredamento, elegante ma accogliente come tutti gli oggetti che componevano quella stanza. Dopo averlo salutato, il Paziente fu quasi stupito dal fatto che il Dottore fosse dotato di parola, incasellato com’era tra il tavolo e le pareti ricolme di specchi, circondato da portacenere luccicanti, penne, quaderni, lettino e quant’altro facente parte del suo bagaglio professionale.

– Si accomodi. La attendevo per le 17.00 o forse la mia memoria comincia a perdere colpi? – esclamò sorridendo e digitando qualcosa sulla tastiera.

(è arrivato un paziente, ti spiace se riprendiamo la conversazione appena l’avrò liquidato?)

(ma come, proprio adesso…)

Il Paziente spiegò che, non avendo visto alcuno in sala d’aspetto, aveva deciso di bussare alla porta con qualche minuto d’anticipo, ma che avrebbe potuto anche tornare di là e attendere.

– Si figuri, nessun disturbo, stavo scrivendo un articolo che mi è stato commissionato, ma lo farò dopo aver parlato con lei.

(hai ragione cara, anche per me non è facile interrompere…non dovremmo scriverci certe cose in certi orari, sappiamo tutti e due che siamo sensibili all’argomento…)

(chiamalo “argomento” adesso…non dovremmo istigarci in orario di lavoro, ma ormai l’abbiamo fatto e immagino come sei ridotto in questo momento, ahaha….)

– Ecco, chiudo il file e apro la sua scheda paziente. Mi accennava telefonicamente al suo problema, me lo esponga e vediamo di cosa si tratta.

– Le dicevo, Dottore, che qualche giorno fa ho riflettuto sull’uso dei social network, su Facebook in particolare, Continua a leggere…

Indagini, parte seconda (o del pettegolezzo provinciale)

Il pettegolezzo, in provincia, è tanto deprimente, perché sintomo di grettezza mentale, quanto commovente, quando tenta di affibbiare a qualcuno (per esempio a me) una ragazza, sulla scorta d’indizi puerili. Al dilettante del pettegolezzo, magari tuo parente, non pare vero di scorgerti su una spiaggia, insieme a una donna, in un atto notoriamente compromettente quale può essere una passeggiata. Sulle prime, poco importa che la suddetta possa essere un’amica di lungo corso oppure una conoscente incontrata per caso pochi minuti prima. L’amante del “Li Ho Visti Io” è fermo a 1+1=2, ignaro che in certe questioni 1+1 può essere 0, quindi, leccandosi i baffi (che spesso non ha), passerà alla fase successiva, cioè l’indagine su chi sia, anagrafe alla mano, la candidata all’altare. Sommo scoramento potrà causargli lo scoprire che trattasi di donna diversa da quella che, l’anno precedente ma sulla stessa spiaggia, accompagnava l’ignaro playboy.

(Vabbè, a farla breve ho scoperto che anche quest’estate avrò una ragazza, a mia insaputa, come narravo in un delirante articolo qualche tempo fa: https://antoniodileta.wordpress.com/racconti/indagini-su-un-porno-non-del-tutto-sospettabile/)

Perché ogni tanto mi devo tagliare i capelli.

(“…so don’t get any big ideas, they’re not gonna happen

you’ll go to hell for what your dirty mind is thinking…”)

A parte qualche ascolto fugace e distratto al Pc, erano mesi che non mi sdraiavo sul letto, con le persiane chiuse, per ascoltare un disco dall’inizio alla fine. Semplicemente, non ne ero più in grado, così come da qualche tempo mi riesce difficile leggere un romanzo con lo stesso entusiasmo di un tempo. Non riesco a dirmi perché non riuscissi più ad ascoltare musica o perché c’è questa crisi nel rapporto tra me e i romanzi. Altre interessi che a poco a poco si sostituiscono ai precedenti, in maniera impercettibile ma continua, fino a che, un giorno, ti accorgi che la metamorfosi sta avvenendo sotto i tuoi occhi. Me ne sono accorto soprattutto perché c’è una terza cosa che non facevo da troppo tempo: tagliarmi i capelli.

Dopo pranzo ho preso “In rainbows”, ho chiuso le persiane, mi sono sdraiato sul letto e l’ho ascoltato dall’inizio alla fine. Nella semi-oscurità della stanza, ho guardato i romanzi che mi aspettano e che non ho voglia di leggere, ho guardato i libri che invece sto leggendo con avidità. Poi ho preso quasi sonno e i pensieri si sono fatti ancora più confusi, sfumati. Ho ripensato a un sogno di qualche giorno fa, quando il tunnel era pieno di colori, proprio come un arcobaleno, e il trucco era non cadere nel mezzo, dove invece tutto era nero.

Alla fine del disco, mi sono alzato, mi sono guardato nello specchio e la verità mi si è palesata innanzi gli occhi: oggi mi taglio i capelli.

Conoscenza e limiti

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“Per la maggior parte di noi è molto difficile tenere costantemente presente i limiti e la relatività della conoscenza concettuale. Poiché la nostra rappresentazione della realtà è molto più facile da afferrare che non la realtà stessa, noi tendiamo a confondere le due cose e a prendere i nostri concetti e i nostri simboli come fossero la realtà.”

(Fritjof Capra, “Il Tao della fisica”)

Sto leggendo il libro citato, regalatomi da un amico. Fino a pagina 50 è molto interessante, tra 250 pagine vi dirò qualcosa in più, se sarò in grado di farlo. Leggendo la frase che ho riportato m’è venuta in mente quest’opera di Escher, della quale non ricordo nemmeno il titolo. Non so perché, né è necessario saperlo, penso.

Un curriculum vitae “da brividi” (Kafka)

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“Sono nato il 3 luglio 1983 a Praga, ho frequentato fino alla quarta classe le scuole elementari della Città Vecchia; quindi passai al ginnasio tedesco statale della Città Vecchia; a diciotto anni incominciai gli studi nell’Università tedesca “Karl Ferdinand” di Praga. Dopo aver dato l’ultimo esame di stato, il 1° aprile 1906 entrai come praticante nello studio dell’avvocato Richard Löwy sull’Altstädter ring. In giugno diedi l’esame di storia e nello stesso mese ottenni la laurea in legge.

Come avevo subito spiegato all’avvocato Löwy, ero entrato nel suo studio soltanto allo scopo di impiegare il mio tempo perché fin da principio non era mia intenzione rimanere nell’avvocatura. Il 1° ottobre 1906 iniziai la mia pratica forense, che terminai il 1° ottobre 1907”.

(Franz Kafka, foto presa da “Kafka” di Max Brod)

E il “brivido” dov’è, si chiederà il lettore del blog? Il brivido è del tutto personale, scusate l’uso privatistico di mezzo pubblico. Quando ho letto le parole “Come avevo subito spiegato all’avvocato Löwy, ero entrato nel suo studio soltanto allo scopo di impiegare il mio tempo perché fin da principio non era mia intenzione rimanere nell’avvocatura” ho provato un brivido, non saprei come altro definirlo. Perché? Parte della risposta è nel “chi (non) sono?” di questo blog.

Wittgenstein e il tabaccaio.

Non si segna più“. Questa frase, affissa in una tabaccheria in luogo di “non si fa più credito“, è un concreto esempio di “gioco linguistico“.

Ho fatto notare al tabaccaio che la frase può essere interpretata, per esempio, in chiave calcistica. Lui, invece che chiamare le neuro per farmi portare via, mi ha spiegato che “non si fa più credito” era poco efficace.

P.s.: “gioco linguistico“, peraltro, si presta anch’essa a languide interpretazioni, che però lascio alla libera fantasia di ciascuno.

P.p.s.: appare evidente che quest’articolo riempie un vuoto tra il precedente e il successivo, che dovrebbe riguardare proprio Wittgenstein.

N. 12: “Disumano, troppo felino” (da “Frammenti da un camino”)

In quella porzione di paese, il sole, d’inverno, tramontava all’incirca alle 15.30, oscurato un palazzo che aveva visto crescere in pochi mesi. Si godeva l’ultima dose giornaliera di raggi, alternando la lettura a pensieri sterili, benché inevitabili. “La lucidità è la ferita più prossima al sole”. Pensava a questa frase di René Char e si chiedeva cosa significasse essere lucidi, quando e se possiamo definirci tali, e in che modo la nostra presunta lucidità si rapporta all’altrettanto ipotetica lucidità altrui. Riflettere su tutto ciò, ne era consapevole, non lo avrebbe portato ad alcun tipo di verità o senso. Del resto, non aveva tale ambizione. Gli importava, a quel punto, ragionare sull’assurdo delle situazioni, senza restarne travolto. In particolare, tornò col pensiero alla sera precedente, quando era andato via dal pub, in preda a un’emozione che aveva sentito avvampare in sé nel breve lasso di pochi minuti.

Non sentiva più tracce dell’antica tristezza. Continua a leggere…

N. 10: “Excusatio non petita…(una sbadata a Trastevere), da “Frammenti da un camino”

Nadia arrivò che la stazione era ancora deserta. In una stanza, oscura, erano accatastati oggetti vari, un telefono giaceva inutilizzato e l’unico segnale di funzionalità di quell’ambiente era dato da uno schermo acceso, chissà da chi, visto che il personale delle ferrovie in quella stazione non era in servizio permanente. Nella sala d’attesa due file di sedie, il cartello “No smoking” e volantini pubblicitari gettati a terra. Notò su un muro la scritta “I love you”. La mano era femminile. Sorrise di quell’ingenuità che era appartenuta, da adolescente, anche a lei, che pure non aveva mai sentiva il bisogno di esplicitare sui muri le proprie infatuazioni. Su plastica blu, a dare una parvenza di modernità e in contrasto con l’antico quadrante “Treni in arrivo. Roma – Napoli”, era stata posta la scritta “XXX”. Il parcheggio si preparava ad accogliere le auto dei pendolari che sarebbero giunti di lì a poco. Per tre secondi, una voce metallica, che sembrava provenire dall’oltretomba, gracchiò qualcosa.

Nadia, nonostante la solitudine di quei momenti, non avvertiva né tristezza né senso d’abbandono, piuttosto a colpirla fu il silenzio. Avvertiva quasi la sensazione di essere ancora in un sogno e che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa d’inaspettato. Come nella maggior parte dei casi, non accadde nulla, se non, circa mezz’ora dopo, l’arrivo del treno. Lei e gli altri pendolari, nel frattempo affluiti alla stazione, salirono. Continua a leggere…

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