Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Il disprezzo” (Alberto Moravia)

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“Presi dunque a vivere come un uomo che porta dentro di sé il malessere di una malattia incombente, ma non si decide mai ad andare dal medico; ossia cercando di non riflettere troppo né sul contegno di Emilia verso di me, né sul mio lavoro. Sapevo che un giorno avrei dovuto affrontare tale riflessione; ma appunto perché mi rendevo conto che essa era inevitabile, cercavo di ritardarla più che fosse possibile: quel poco che già avevo sospettato me la faceva evitare e anche, seppure in maniera inconsapevole, temere. Continuavo, così, ad avere con Emilia quei rapporti che a tutta prima, mi erano sembrati intollerabili e che, adesso, temendo il peggio, cercavo di persuadermi, senza riuscirci del tutto, che fossero normali: durante il giorno discorsi indifferenti, casuali, evasivi; la notte, ogni tanto, l’amore, con molto impaccio e non senza crudeltà da parte mia, senza alcuna vera partecipazione da parte di lei. Intanto continuavo a lavorare con diligenza e persino con accanimento, benché sempre più malvolentieri e con una ripugnanza sempre più decisa. Se avessi avuto il coraggio di definire a me stesso, fin da allora, la situazione in cui mi trovavo, avrei certamente rinunziato così al lavoro come all’amore, perché mi sarei convinto, come mi convinsi in seguito, che ogni vita si era ritirata da ambedue. Ma non avevo questo coraggio; e forse mi illudevo che il tempo si sarebbe incaricato di risolvere i miei problemi, senza alcuno sforzo da parte mia. Il tempo, infatti, li risolse, ma non nel senso che avrei desiderato. Così, tra Emilia che mi rifiutava se stessa e il lavoro al quale io mi rifiutavo, in un’aria sorda e oscura di attesa, i giorni passavano.”
(Alberto Moravia, “Il disprezzo”, ed. Bompiani)
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“Principianti” (Raymond Carver)

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“- In effetti che ne sappiamo noi dell’amore? – ha proseguito Herb. – E quel che dico, be’, lo dico davvero, se volete perdonarmi la franchezza. Ma, secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto d’amore. Diciamo di amarci e magari è vero, non ne dubito. Ci amiamo a vicenda e ci amiamo forte, tutti noi. Io amo Terri e Terri ama me e anche voi due vi amate. Sapete, no, di che tipo d‘amore parlo? Dell’amore fisico, quell’attrazione verso l’altro, verso il proprio compagno, e anche del semplice amore di tutti i giorni, l’amore per l’essere dell’altro, l’amare il tempo passato insieme, insomma tutte le piccole cose che costituiscono l’amore di tutti i giorni. L’amore carnale, dunque, e, be’, chiamiamolo pure l’amore sentimentale, la cura e l’affetto quotidiano per l’altra persona. Ma a volte ho grosse difficoltà a fare i conti con il fatto che devo aver amato anche la mia prima moglie. Però è vero, lo so che è vero. (…) C’è stato un momento in cui credevo di amare la mia prima moglie più della vita, abbiamo anche fatto dei figli assieme. Invece ora la detesto con tutto il cuore. Davvero. Voi come lo spiegate? Che cosa è successo a quell’amore? È stato semplicemente cancellato dalla grande lavagna, come se non fosse mai successo? Vorrei tanto saperlo, che fine ha fatto. Vorrei tanto che qualcuno me lo dicesse.”
(Raymond Carver, “Principianti”, ed. Einaudi)

“Non abitiamo più qui” (Andre Dubus)

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“In un matrimonio esistono diversi tipi di bugie la cui malignità uccide pian piano ogni cosa: quel giorno io stavo sperimentando l’intera gamma, che andava dalla bugia bell’e buona dell’adulterio, fino all’accurata selezione d’informazioni che avviene quando tra due persone iniziano ad esserci argomenti di cui non si può più parlare. È dura dire quale delle due cose uccida prima, ma direi questa selezione degli argomenti di conversazione, perché è una resa: eviti di toccare le ferite e di conseguenza eviti di toccare le profondità del cuore. (…)
Così cercavo di sedare il nostro male con un palliativo, e facevo giri di parole per evitare di parlare direttamente di noi, di quello che eravamo, e in ogni momento sapevo, con una punta di disperazione, che ormai avevo assunto per sempre quella posa facile e bugiarda. Col passare degli anni ci ero scivolato dentro, gradualmente, come in una morte lenta, e ora, passati quegli anni e in vista di tutti gli anni a venire, avevo smarrito ogni proposito di onestà fra noi. E tuttavia alle volte, quando ero solo e lontano da casa – sempre, perché succedesse, dovevo essere lontano da casa, magari a guidare in un giorno di sole, fra alberi verdi e prati rigogliosi – mi capitava di sentire come una specie di canzone che proveniva da un altro tempo lontano e allora mi veniva da piangere (anche se poi non piangevo) pensando a quando l’amavo ogni giorno e, al pomeriggio, risalivo la strada di casa felice di vederla, giorni in cui non dovevo mai pensare prima di parlare.”
(Andre Dubus, “Non abitiamo più qui”, ed. Mattioli 1885)

“Molti matrimoni” (Sherwood Anderson)

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“Chi cerca l’amore e va verso di esso impulsivamente, senza tenere conto della complessità della vita moderna è, se non un pazzo, almeno un temerario.

Non avete mai vissuto un momento nel quale fare ciò che in altri momenti risulta il più semplice e naturale degli atti, diventa improvvisamente un’impresa titanica?

Siete nella stanza d’ingresso di una casa. Di fronte a voi c’è una porta chiusa e, dietro la porta, seduto o seduta in una poltrona vicino alla finestra, c’è un uomo o forse una donna.

È il tardo pomeriggio d’un giorno d’estate, e avete deciso di avvicinarvi alla porta, di aprirla e dire:

– Non intendo più continuare a vivere in questa casa. Il mio baule è pronto e fra un’ora un uomo, al quale già ho dato l’ordine, verrà a prenderlo. Sono qui soltanto per dirti che non posso più continuare a vivere con te.

Siete dunque nell’ingresso, e tutto ciò che dovete fare è entrare nella stanza e dire queste poche parole. La casa è silenziosa e voi rimanete a lungo nell’anticamera, timoroso, esitante, senza aprire bocca. Lentamente vi rendete conto che siete giunti fino a lì in punta di piedi.

Per voi e per la persona che si trova dietro la porta è assolutamente consigliabile non continuare a vivere nella stessa casa. Questo dovreste dichiarare, ma probabilmente avete perso il buon senso. Perché non siete in grado di parlare giudiziosamente?

Perché vi riesce così difficile fare quei tre passi verso la porta? Le vostre gambe sono ancora in uno stato eccellente. Perché i vostri piedi sono tanto pesanti?

Siete un uomo giovane. Perché le vostre mani tremano come quelle di un vecchio?

Siete sempre stato convinto di essere un uomo coraggioso. Perché improvvisamente vi siete trasformato in una creatura debole e vile?

È divertente o è tragico sapere che non osate andare verso la porta, aprirla, ed entrando dire quelle poche parole senza che la vostra voce cominci a tremare?

Siete ancora in grado di controllarvi o siete praticamente come un pazzo? Perché quella ridda di pensieri circola senza tregua nel vostro cervello? Una ridda di pensieri che, mentre siete lì esitante, vi trascina già verso un abisso senza fine?

(Sherwood Anderson, “Molti matrimoni”, Robin edizioni) 

“Di contrabbando” (D. H. Lawrence)

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“Sigmund non rispose: spesso ella lasciava cadere così il discorso abbandonandolo al suo senso di tragedia. Non aveva nessuna idea di quanto la vita di lui fosse sradicata; e quando egli aveva tentato di farglielo intendere, ella aveva deviato, lasciandolo così, nel suo intimo, assolutamente solo.

– Non c’è settimana prossima – affermò la donna con grande calore – non c’è che il presente.

Nello stesso tempo si alzò e gli guizzò vicina. Cingendogli il collo con le braccia, gli chiuse forte il capo contro il suo cuore, immergendogli le mani nei capelli: sentiva egli, stretta contro il seno di lei, le narici e la bocca. Aspirava l’odore delle sue vesti di seta, e il morbido, inebriante aroma del suo corpo; a occhi chiusi si ripeteva, serio, tra sé che ella era cieca sul suo conto. Ma un altro se stesso esultava felice, senza preoccuparsi che ella fosse o no cieca, ora che così gli premeva la faccia contro il suo seno. Gli lisciò e gli accarezzò i capelli; fremendo si serrò ancora il capo di lui contro il petto, come se non avesse voluto più sciogliersi da lui, e si chinò a baciargli la fronte. Egli la prese per le braccia e così rimasero per un po’, immobili.”

(David Herbert Lawrence, “Di contrabbando”, ed. dall’Oglio)

Pur non raggiungendo le vette di “L’amante di Lady Chatterley” e “Figli e amanti”, due libri che mi piacquero tanto e che con l’occasione consiglio, “Di contrabbando” mi ha confermato ancora l’abilità di D. H. Lawrence nel mostrarci la nascita, lo sviluppo, la decadenza di passioni amorose.

Il romanzo è, infatti, la storia del rapporto tra la violinista Elena, neanche trentenne, e il quasi quarantenne Sigmund, suo maestro di musica e amante. Sposato a Beatrice, con figli, Sigmund trascorre con Elena una settimana lontano dalla routine del quotidiano, all’insegna delle molteplici sensazioni che un’avventura clandestina del genere può offrire. Alla gioia del poter condividere con l’amato spazi di libertà altrimenti impossibili, all’ardore che può scoccare sotto il sole cocente di spiagge selvagge, si uniscono emozioni di verso opposto, quali l’angoscia del sapere che tutto è una parentesi e che presto, inesorabile, il Tempo arriverà a dividere nuovamente gli amanti. Il ritorno ai doveri coniugali e paterni, inoltre, sarà per Sigmund fonte di una drammatica resa dei conti con la realtà e con sé stesso.

Lawrence, con la sua prosa lirica e sensuale, ci mostra quindi il desiderio crescente tra la sognatrice Elena e l’apparentemente più rude Sigmund, la paura di un eccessivo coinvolgimento emotivo, il terrore puro del distacco ormai prossimo, ma anche le distanze, sottili ma non meno subdole, che i due, a contatto per più giorni, cominciano a cogliere.

Un libro, insomma, sull’estasi inquieta che una passione “di contrabbando” può donare e sulle conseguenze (non sempre piacevoli, a volte tragiche) dell’amore o dei suoi surrogati.

“- Sembra che ci sia ancora un’eternità prima del treno delle tre e quarantacinque, no? – ella insistette.
– Vorrei che non avessimo da tornare a casa mai più.
Elena sospirò.
– Sarebbe pretendere troppo dalla vita. Qualche cosa noi lo abbiamo avuto, Sigmund – disse.
Egli chinò il capo senza rispondere.
– Sì, caro, qualche cosa era – ripeté Elena.
Egli si levò e se la strinse tra le braccia.
– Tutto, era – disse con la testa affondata nella sua spalla nuda, profumata d’uno squisito e fresco odore di mare. – Tutto.”

“La solitudine” (Alberto Moravia)

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“Era chiaro che Mostallino con quella sua conversazione voleva fare intendere a Perrone che, nonostante la presenza della donna, nulla tra di loro era cambiato. E così anche Perrone avrebbe voluto che fosse. Invece, per quanto si sforzasse di mettere in quei discorsi la consueta foga, egli si accorgeva con dispetto che i suoi pensieri erano altrove. Non soltanto non sapeva quasi rispondere a tono alle domande dell’amico e ogni tanto inciampava e si incantava come colpito da amnesia, ma neppure riusciva ad evitare che i suoi sguardi si appuntassero con troppa frequenza su Monica ritta tra loro, le spalle al camino. Erano sguardi indocili che andavano a Monica anche quando avrebbe voluto rivolgerli all’amico; e per quanto cercasse di renderli almeno leggeri e casuali, si abbattevano invece su quelle belle membra come mani pesanti che vogliono palpare e ghermire. Quasi quasi si meravigliava Perrone che sotto quelle occhiate furtive e indiscrete, Monica non cacciasse ogni tanto un grido o trasalisse e si contorcesse come chi si senta ad un tratto brancicare da dita violente. Ma Monica, e questo accresceva il suo turbamento,nonché rinchiudersi pareva, al contrario, sotto o suoi sguardi, aprirsi e respirare meglio come un fiore carnoso sotto un’acqua che lo ristori. Ella rispondeva, è vero, ogni tanto agli sguardi di Perrone con sguardi furtivamente supplichevoli che parevano significare: non mi guardi in questo modo, si moderi, perché mi guarda così?; ma era chiaro che anche queste mute implorazioni facevano parte di una sua provinciale e rustica civetteria. Insomma, pareva già complice, già d’accordo con lui per tradire Mostallino alla prima occasione. Questo pensiero riempiva Perrone di ripugnanza; e pur non potendo fare a meno di cedere troppo spesso all’attrazione che esercitava su di lui la vista di Monica, si riprometteva con rabbiosa fermezza di non oltrepassare mai questa prima muta fase del suo involontario tradimento.”
(Alberto Moravia, “La solitudine”, in “Racconti”, ed. Garzanti)

“Il tunnel” (Ernesto Sabato)

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“L’ora dell’incontro era arrivata! Ma realmente i corridoi si erano uniti e le nostre anime si erano toccate? Che stupida illusione era stato tutto questo! No, i corridoi continuavano a essere paralleli come prima, anche se adesso il muro che li separava era come di cristallo e io potevo vedere María come una figura silenziosa e intoccabile… No, nemmeno il muro era sempre così; a volte tornava a essere di pietra nera e allora io non sapevo cosa succedeva dall’altra parte, che ne era di lei in quegli intervalli anonimi, quali strane cose capitavano; e pensavo addirittura che in quei momenti il suo viso cambiava e che una smorfia di scherno lo deformava e che forse c’erano risa incrociate con un altro e tutta la storia dei corridoi era una ridicola invenzione o credenza mia e che in ogni caso, c’era un solo tunnel, buio e solitario: il mio, il tunnel in cui avevo trascorso l’infanzia, la giovinezza, tutta la mia vita.”

(Ernesto Sabato, “Il tunnel”, ed. Feltrinelli)

“Poesie del disamore” (Cesare Pavese)

Poesie disamore

“Torneremo per strada a fissare i passanti
e saremo passanti anche noi. Studieremo
come alzarci al mattino deponendo il disgusto
della notte e uscir fuori col passo di un tempo.
Piegheremo la testa al lavoro di un tempo.
Torneremo laggiù, contro il vetro, a fumare
intontiti. Ma gli occhi saranno gli stessi
e anche i gesti e anche il viso. Quel vano segreto
che c’indugia nel corpo e ci sperde lo sguardo
morirà lentamente nel ritmo del sangue
dove tutto scompare.
Usciremo un mattino,
non avremo più casa, usciremo per via;
il disgusto notturno ci avrà abbandonati;
tremeremo a star soli. Ma vorremo star soli.
Fisseremo i passanti col morto sorriso
di chi è stato battuto, ma non odia e non grida
perché sa che da tempo remoto la sorte
– tutto quanto è già stato o sarà – è dentro il sangue,
nel sussurro del sangue. Piegheremo la fronte
soli, in mezzo alla strada, in ascolto di un’eco
dentro il sangue. E quest’eco non vibrerà più.
Leveremo lo sguardo, fissando la strada.”

(Cesare Pavese, “Ritorno di Deola”, in “Poesie del disamore”, ed. Einaudi)

 

“Ella non osa parlarne, eppure ci pensa” (Søren Kierkegaard)

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“Perché tutto può dimenticare una ragazza, tranne una relazione. La vita di società, è vero, mette in contatto con il bel sesso, ma non permette di iniziare un rapporto, perciò vale a ben poco. In società ogni ragazza si presenta difesa dalle sue armi, la situazione è sempre la stessa e non suscita certo brividi di voluttà. Invece per la strada si trova come in alto mare, cosicché tutto ha maggiore effetto e sembra più misterioso. Darei cento talleri per il sorriso di una ragazza in strada, ma neanche dieci per una stretta di mano in un salotto. La cosa è ben diversa. Si deve cercare la ragazza in società solo se qualcosa c’è già stato. Si stabilisce allora una comunicazione invisibile e segreta tra noi e lei, e questo è seducente e rappresenta il miglior incitamento che io conosca. Ella non osa parlarne, eppure ci pensa. Non sa se abbiamo dimenticato o meno. La si può ingannare ora in un modo, ora nell’altro.

Quest’anno non mi andrà tanto bene con le altre, sono troppo preso da lei! Il mio bottino, in un certo senso, resterà magro, ma in cambio ho la speranza di ottenere il primo premio.”

(Søren Kierkegaard, “Diario del seduttore”, ed. Giunti)

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“Era pur sempre pronto ad amare tutte quelle immagini della vita. Ma ciò che non gli riusciva era di amarle senza riserva, com’è necessario per sentirsi a proprio agio nel mondo; da molto tempo su tutto quello che faceva e sentiva si posava come un alito di disgusto, un’ombra di impotenza e solitudine, un’antipatia universale, rispetto alla quale non riusciva a trovare una simpatia complementare.”
(Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, ed. Newton Compton)

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