Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“La ciociara” (Alberto Moravia)

la_ciociara

(Pubblicato nel 1957, il romanzo è la trasfigurazione letteraria dell’esperienza vissuta da Moravia ed Elsa Morante sulle colline circostanti Fondi, nel periodo settembre 1943-maggio 1944.
Nel romanzo, la narrazione è affidata a Cesira, popolana, negoziante a Roma e costretta, assieme all’ingenua figlia Rosetta, a scappare dalla capitale per rifugiarsi, appunto, sulle colline di Fondi.
Il libro è malinconico, tragico, scorrevole, una potente riflessione sullo squallore e la miseria umana che la guerra enfatizza a livelli estremi.)
“Ci disse pure il caso di una famiglia di sfollati che aveva passato quasi un anno in montagna, come noi, e poi discesa abbasso al momento dell’arrivo degli alleati e si era messa in una casetta sulla strada, a poca distanza dalla nostra: una bomba aveva preso in pieno quella casetta ammazzando tutti quanti: marito, moglie e quattro figli. Io ascoltavo queste cose senza dir nulla e così Rosetta. In altri tempi avrei esclamato: “Ma come? E perché? Poveretti. Guarda un po’ che fatalità.” Ma adesso non me la sentivo di dir nulla. In realtà le nostre disgrazie ci rendevano indifferenti alle disgrazie degli altri. E in seguito ho pensato che questo è certamente uno dei peggiori effetti della guerra: di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà.”
(Alberto Moravia, “La ciociara”)

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“1° settembre 1939” (W.H. Auden)

W H Auden

(Grazie al meraviglioso saggio di Iosif Brodskij, contenuto nel libro “Il canto del pendolo”, edizione Adelphi, ho scoperto con colpevole ritardo la poesia di W.H. Auden, che in seguito l’autore non inserì in una sua raccolta perché insoddisfatto di alcuni versi. La poesia è una profonda, sentita riflessione sul Male che alberga in ciascuno di noi e non solo nei tiranni.)

“1° SETTEMBRE 1939”, di W.H. Auden

Sono seduto in una delle bettole
della Cinquantaduesima strada*
incerto e spaventato
mentre scadono le astute speranze
d’un decennio basso e disonesto:
onde d’ira e paura
circolano per le luminose
e oscurate contrade della terra,
a ossessionare le nostre vite private;
l’indicibile odore della morte
offende la notte di settembre.
Meticolosa erudizione può
esumare l’offesa tutta intera che,
da Lutero ad oggi
ha spinto una cultura alla pazzia,
scoprire quello che successe a Linz**,
che smisurata imago fabbricò
un dio psicopatico:
io e il pubblico sappiamo
ciò che ogni bambino impara a scuola,
coloro a cui male è fatto,
male faranno in cambio.
L’esiliato Tucidide sapeva
tutto quello che può dire un discorso
sulla Democrazia***,
e quello che fanno i dittatori,
le sciocchezze senili che pronunciano
a un apatico sepolcro;
egli analizzò tutto nel suo libro,
la ragione messa al bando,
la sofferenza che si fa abitudine,
malgoverno e angoscia:
tutto questo ci è inflitto un’altra volta.
In quest’aria neutrale
dove ciechi grattacieli usano
tutta la loro altezza a proclamare
il vigore dell’Uomo Collettivo,
ogni lingua versa a gara
la sua scusa vana:
ma chi può vivere a lungo
in un sogno euforico;
guardano dallo specchio in fissità
il volto dell’imperialismo
e il sopruso internazionale.
Visi lungo il bancone
s’aggrappano al loro giorno medio:
le luci non devono mai spegnersi,
la musica deve continuare,
tutte le convenzioni cospirano
perché questa fortezza assuma in sé
l’arredamento di casa;
affinché non si veda dove siamo,
perduti in un bosco di fantasmi,
bambini paurosi della notte,
che non sono mai stati allegri o buoni.
La più ventosa roba militante
che Importanti Personaggi strillano
è meno rozza di quel che vogliamo:
ciò che Nijinsky impazzito scrisse
su Diaghilev****
è vero per il cuore più normale;
perché l’errore innato nelle ossa
di ogni donna e ogni uomo
bramare quel che non può avere,
non già l’amore universale,
bensì d’essere amato lui solo.
Dalla conservatrice oscurità
verso la vita etica
arrivano gli ottusi pendolari,
ripetendo il voto mattutino:
“Voglio essere fedele a mia moglie,
m’impegnerò di più sul lavoro”,
e i governanti inetti si svegliano
riprendendo il loro gioco obbligato:
chi può liberarli adesso,
chi può arrivare ai sordi,
chi può parlare per i muti?
Tutto quello che ho è una voce
che smuova la menzogna nascosta,
la menzogna romantica annidata nel cervello
del sensuale uomo della strada
e la menzogna dell’Autorità
i cui palazzi palpano il cielo:
non c’è una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste mai da solo;
la fame non consente scelta
al cittadino o alla polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.
Indifeso sotto la notte
il nostro mondo giace inebetito;
eppure, sparsi dappertutto,
ironici punti di luce
lampeggiano là dove i Giusti
si scambiano i loro messaggi:
oh, che io possa, composto come loro
d’Eros e di polvere,
assediato dalla medesima
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma che afferma.
(W. H. Auden, “1° settembre 1939″)

*Auden scrisse questa poesia nel 1939. Nello stesso anno si era trasferito negli Stati Uniti. Il 1° settembre 1939, com’è noto, la Germania nazista invase la Polonia.
**Linz è un paese austriaco dove Hitler passò parte della sua giovinezza.
***Allusione al libro di Tucidide, “La guerra nel Peloponneso”, ed in particolare all’orazione di Pericle.
****Diaghilev fu l’impresario teatrale che lanciò Nijinsky nella sua carriera da ballerino e ne fu anche l’amante.
(La traduzione riportata è una mia sindacabile, ma spero non tremenda, commistione tra la versione di Nicola Gardini, che ho trovato sul web, e quella riportata in note all’interno di “Il canto del pendolo”, di Iosif Brodskij, ed, Adelphi.)

“Le straordinarie avventure di Julio Jurenito” (Il’ja Erenburg)

sdr

“In seguito si innamorò di Njura, una ragazza dagli occhi celesti, figlia di un impiegato delle poste, i cui tratti caratteristici erano quattro boccoli a forma di salsicciotti, un medaglione con l’immagine di un gattino e una passione sfegatata per la cioccolata al pistacchio. L’innamorato vagava senza meta, sospirando. Finalmente, dopo lunghi discorsi sulla propria solitudine e progressivi avvicinamenti alla ragazza sull’angusto divano, ne ottenne un bacio significativo. Lo assalirono quindi i primi dubbi. Per quanto sublime e seducente apparisse l’amore nelle opere dei migliori scrittori, per quanto dolci fossero le labbra tumide di Njura, molti aspetti lo lasciavano perplesso. Njura non era né Stëša né Marunja: aveva un padre e compagnia bella. In altre parole, bisognava sposarsi. Ma Njura non era nemmeno Beatrice, assetata di divino e di sacra ribellione: bisognava trovarle un impiego, altroché, e poi fasce e pannolini. I bambini, soprattutto. Ma si può forse leggere Nietzsche o Schopenhauer, con un marmocchio che ti frigna addosso?”

(Il’ja Erenburg, “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, ed. Meridiano Zero)

Non avevo mai letto alcun libro di Il’ja Erenburg e devo la sua conoscenza a Pablo Neruda, che me lo ha “presentato” nella sua autobiografia “Confesso che ho vissuto”, citandolo a più riprese. Grazie al poeta cileno ho così potuto scoprire la bellezza di un romanzo quale “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, un concentrato di satira, ironia, sarcasmo, un testo che è difficile definire un classico romanzo, perché è piuttosto una serie di quadri nei quali i protagonisti disquisiscono, con un certo beffardo cinismo ma non senza empatia per la debolezza umana, di argomenti quali la religione, i totalitarismi, l’amore, la religione, il sesso, insomma di tutto e di più.

Julio Jurenito è fautore di una non-filosofia di vita, un nichilismo volto a sovvertire l’ordine, un anarchico del pensiero che appare, quasi in veste da diavolo, a Erenburg stesso, in un caffè parigino. Capitolo dopo capitolo, il gruppo si espande, perché il Maestro, cioè Jurenito, assolda strada facendo una serie di personaggi strambi, quali Mister Cool, che vuole mettere su una società per azioni dedita alle missioni religiose, l’ingenuo senegalese Aisca, il mistico nichilista russo Tisin che cerca l’Uomo, il nullafacente romano Ercole Bambucci, e ancora Monsier Delhaie, che vuole costruisce una necropoli universale, per finire con Schmidt, studente tedesco dall’aberrante razionalità.

Assieme a codesti strampalati compagni di viaggio, il Maestro Julio attraversa il periodo che va dal 1913 al 1921 (anno in cui Erenburg scrisse il romanzo), ovvero un’epoca contrassegnata dalla violenza di una guerra mondiale e della Rivoluzione russa. Il libro, dunque, non è solo una carrellata di assurde e umane debolezze, ha un substrato ben più drammatico, ma la penna di Erenburg è comunque dissacrante, così che, in sostanza, si sorride, anzi si ride spesso, sia pure con la consapevolezza che, probabilmente, si sta ridendo per non piangere.

“Il silenzio del mare” (Vercors)

il silenzio

“Che avrei da aggiungere? La gola chiusa dal dolore e dall’amarezza, cercai di far capire a Stani che quei singhiozzi, quella grida non furono espressione di una folle paura. Ma espressione – e ne ho il cuore a brandelli – dell’angoscia, della disperazione, dell’orrore, dell’agonia di un amore assassinato.

Mio Dio, perché non avete accecato Thomas fino alla fine? Perché avete voluto che nel fuggevole secondo dell’ultima occhiata egli vedesse un volto orribile – quel volto orribile che portiamo tutti in noi, uomini o nazioni – quello della parte disperata che fu sempre mammona? Di cosa l’avete punito? O di cosa mi avete punito? Poiché da quando egli non è più, ogni giorno la realtà della sua esistenza mi schiaccia – della sua esistenza nel secondo mortale che non seppi, che non sapemmo, che coloro rimasti degni di lui non seppero risparmiargli.”

(Vercors, “Il cammino verso la stella”, in “Il silenzio del mare”, ed. Einaudi)

Da diverso tempo avevo sul mio scaffale “Il silenzio del mare”, un libro che racchiude l’omonimo romanzo breve assieme ad altri due, “Il cammino verso la stella” e “Le armi della notte”. Questo libro finì tra le mie mani grazie al gentile dono di un mio amico, ma a lungo ne ho rimandato la lettura. Oggi, non so perché, l’ho preso in mano e ho scoperto tra storie scritte con  uno stile pacato, sobrio ma al tempo stesso capace di trasmettere emozioni forti. Vercors, questo il nome di battaglia clandestino, in realtà si chiamava Jean Bruller, nato a Parigi nel 1902 e attivo nella lotta antinazista nel corso della seconda guerra mondiale Continua a leggere…

“Il bene sia con voi!” (Vasilij Grossman)

vasilij grossman

“- Devi capire, – diceva suo padre – che la gente non si preoccupa per il fatto che la macchina diventerà uguale all’uomo o addirittura migliore di lui. Nessuno se ne ha a male e nessuno se ne spaventa. Non fa paura, l’uguaglianza fra uomo e macchina. A far paura è l’uomo, non la macchina. È la paura inconscia dell’uomo verso l’uomo; non è la macchina, ma l’uomo stesso a minacciare il suo prossimo. Lo capisci? Non si ha paura dell’uguaglianza tra uomo e macchina, ma della disuguaglianza fra gli uomini generata dall’uguaglianza con la macchina. È questo il guaio! Si ha paura che l’uguaglianza con la macchina renda l’uomo impotente nella lotta per la libertà, eterno schiavo non delle macchine ma degli uomini. Si ha paura che l’equivalenza con un aggeggio inanimato accentui una disumanità senza precedenti…”

(Vasilij Grossman, “Il bene sia con voi!”, ed. Adelphi)

Nella lista dei libri da leggere, da tempo ho inserito “Vita e destino” di Vasilij Grossman. Un paio di mesi fa, trovandomi davanti “Il bene sia con voi!”, decisi di comprarlo, quasi per introdurmi alla lettura di un autore che fino allora non avevo mai letto. Iniziai a leggerlo e, dopo una ventina di pagine, lo abbandonai, perché mi stavo annoiando o forse, più precisamente, perché non era il momento giusto. Un paio di giorni fa, infatti, ho riprovato a leggere “Il bene sia con voi!” e il risultato è stato molto diverso. Ho scoperto che non avevo sbagliato acquisto e che i racconti contenuti nel libro mi hanno convinto quasi tutti.

Oltre allo splendido racconto dedicato alla Madonna Sistina di Raffaello, del quale ho già riportato alcuni estratti su questo blog, sono presenti altri otto racconti scritti tra il 1943 e il 1963, anno antecedente la morte dell’autore. Spesso in primo piano e talvolta sullo sfondo, c’è la guerra, l’orrore del nazismo e le ripercussioni dello stesso in Russia. Sarebbe riduttivo, però, sostenere che si tratti solo di ciò, perché Grossman è abile sia quando ci racconta del viaggio nei paesini dell’Armenia (racconto che dà il titolo al libro), sia quando ci descrive la nostalgia per Mosca nel periodo in cui lavorava in un laboratorio minerario, o ancora quando riflette sulla morte all’interno di un cimitero.

In sostanza, sono ben lieto di aver riprovato e prossimamente andrò all’assalto di “Vita e destino”.

“I primi minuti per le strade di una città sconosciuta hanno un qualcosa che i mesi successivi – gli anni, persino – non riusciranno a scalfire. Sono momenti in cui dal forestiero si sprigiona un’energia visiva che definirei atomica, una capacità d’attenzione che ha una forza nucleare. Egli si imbeve, si impregna, si intride di quell’enorme universo con un’intensità penetrante, con un’emozione che tutto pervade: le case, gli alberi, i volti dei passanti, le insegne, le piazze, gli odori, la polvere, il colore del cielo, l’aspetto dei cani e dei gatti. Divinità onnipotente, in quei minuti l’uomo genera un mondo nuovo, crea, costruisce dentro di sé una città con tanto di piazze, strade, corti e cortili, con i suoi passeri, la sua storia millenaria, le sue attività industriali e commerciali, il teatro dell’Opera e le trattorie. E la città che all’improvviso emerge dal nulla è una città insolita, diversa dalla città reale, è una città che gli appartiene, una città in cui le foglie d’autunno frusciano come in nessun altro luogo, la polvere ha un odore tutto suo e i bambini conoscono un modo particolare di tirare con la fionda. Continua a leggere…

“Edizione straordinaria!” (estratto da “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus)

“La quantità che si autodivora consente ormai il sentimento soltanto per ciò che tocca noi stessi o chi ci è fisicamente più vicino, per ciò che si può immediatamente vedere, comprendere, toccare. E, infatti, non è facile vedere come ciascuno, col suo destino singolo, se la svigni da questa compagnia, dove in mancanza di un eroe tutti lo diventano? Non si è mai visto, a tanta ostentazione, corrispondere così poca comunanza. Il formato del mondo non è mai stato di così gigantesca piccolezza. La realtà ha le dimensioni del bollettino, che si sforza di raggiungerla con ansimante chiarezza. Il messaggero che insieme al fatto reca anche la fantasia si è piazzato davanti al fatto e l’ha reso inimmaginabile. E così arcanamente sinistro è l’effetto di tale sostituzione, che in ciascuna di queste miserevoli figure che oggi ci assillano col loro inevitabile gradi di <<Edizione straordinaria!>>, il grido che affliggerà per sempre l’orecchio dell’umanità, mi piacerebbe cogliere il responsabile di questa catastrofe mondiale. E poi, il messaggero non è nello stesso tempo il colpevole? La parola stampata ha indotto un’umanità svuotata a perpetrare orrori che non è più in grado di immaginare, e il terribile flagello della riproduzione li riconsegna alla parola, che fatalmente crea un male che a sua volta si rigenera. Tutto quel che accade, accade solo per chi lo descrive e per chi non lo vive. Una spia condotta al patibolo deve fare un lungo percorso perché la gente nel cinema possa distrarsi, e deve guardare ancora una volta la macchina da presa perché quelli nei cinema siano soddisfatti dell’espressione. Non mi faccia proseguire questo filo di pensieri fino al patibolo dell’umanità – eppure debbo farlo, perché io sono la sua spia in punto di morte, e il sentimento che mi stringe il cuore è l’horror di quel vacuum che questa inaudita pienezza di eventi trova negli animi, nelle macchine!”

(Karl Kraus, “Gli ultimi giorni dell’umanità”, ed. Adelphi)

“Un mondo perduto e ritrovato” (Aleksandr Lurija)

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“Più a lungo la mia mente rimugina cercando nella memoria le parole necessarie per esprimere questo pensiero, più diventa difficile ricordare le parole adatte. Ma qualcosa devo pur ricordare, almeno parole approssimative, generiche, non esatte, almeno quelle. Le raccolgo, queste parole ausiliarie per il mio pensiero. Però non mi metto a scrivere subito, perché devo comporre la frase. E comincio a comporla, giro e rigiro le parole più volte, per far sì che la frase somigli a quelle che ho sentito o letto nei libri veri, corretti.

Ma che fatica scrivere! Mi viene in mente l’idea di descrivere qualcosa tratto da ciò che ricordo del ferimento, della successiva malattia, i primi tormenti. Ho preso al volo un bel pensiero! Comincio a cercare una parola per questo pensiero, poi un’altra… ma la terza parola per esprimere questo pensiero non mi viene, non la ricordo… la cerco, cerco… Alt! L’ho trovata! L’ho trovata! Ma qual era il mio pensiero?… L’ho dimenticato… E dove sono le due parole che avevo trovato con tanta fatica? Non ricordo nemmeno quelle. Torno a frugare nella memoria, di nuovo cerco il pensiero per scriverlo, cerco le parole adatte per questo o quell’altro pensiero, le annoto su fogli e foglietti, prima di inserirle nel testo che devo scrivere, unendole al pensiero sviluppato dalla mia mente disturbata dalla ferita. Ma com’è doloroso tutto questo… Dimenticare continuamente cosa stai scrivendo, cosa stai pensando, dove ti trovi, non ricordarlo, non saperlo per lunghi minuti…”

(Aleksandr Lurija, “Un mondo perduto e ritrovato”, estratto da una pagina del diario di Lev A. Zaseckij, ed. Adelphi)

Nel 1943, lungo il fronte occidentale russo, il ventitreenne soldato Lev A. Zaseckij, già studente d’ingegneria meccanica, è colpito in testa da un pallottola sparata da un tedesco, che non sarà mai estratta dal suo cervello, Continua a leggere…

“Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini” (Kurt Vonnegut)

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“I tedeschi e il cane erano impegnati in un’operazione militare che aveva un nome spassosamente esplicativo, un’attività umana che di rado viene descritta nei particolari e il cui solo nome, riportato nei giornali o nei libri di storia, dà a molti entusiasti della guerra una sorta di appagamento post-coitale. È, nell’immaginazione degli appassionati della guerra, quello svagato gioco amoroso che segue all’orgasmo della vittoria. Si chiama “rastrellamento”.

Il cane, il cui abbaiare era parso tanto feroce nelle distese invernali, era un pastore tedesco, una femmina. Tremava. Aveva la coda tra le gambe. Era stato preso a prestito quel mattino da un contadino e non era mai stato in guerra. Non sapeva a che gioco si stesse giocando. Si chiamava Principessa”.

(Kurt Vonnegut, “Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini”, ed. Universale Economica Feltrinelli)

Kurt Vonnegut fu prigioniero di guerra in Germania nel corso della seconda guerra mondiale e testimone oculare del terribile bombardamento di Dresda, dal quale uscì indenne perché si trovava in un ex- mattatoio, adibito a luogo carcerario per lui e gli altri soldati catturati dai nazisti. Oltre vent’anni dopo, Continua a leggere…

“Una questione privata” (Beppe Fenoglio)

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“La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba.

Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.

Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo. – – Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce tornerò a Torino a cercarla. E’ lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria.”

(Beppe Fenoglio, “Una questione privata”, ed . Einaudi)

“Una questione privata”, come aveva scritto lo stesso Fenoglio in una lettera, è il tentativo, magistralmente riuscito, di narrare una storia privata non sullo sfondo della guerra, ma nel fitto della stessa. Milton, partigiano militante nei badogliani, nel bel mezzo della Resistenza, fronteggia anche la propria guerra privata. Ama Fulvia, di un amore nato grazie ai suoi interessi letterari e rimasto sospeso a causa delle vicende belliche. Di pattuglia con un commilitone, Continua a leggere…

“La luna è tramontata” (John Steinbeck)

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“ – Vedete, signore, nulla potrà mutare la situazione. Voi sarete disfatti e scacciati. – La sua voce era morbida, sommessa. – I popoli non amano essere conquistati e per questo non lo saranno. Gli uomini liberi non possono scatenare una guerra, ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combatterla nella sconfitta. Gli uomini-gregge, seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco perché sono sempre gli uomini-gregge che vincono le battaglie e gli uomini liberi che vincono le guerre. Vi accorgerete che è così”.

(John Steinbeck, “La luna è tramontata”)

La luna è tramontata” fu scritto da Steinbeck nel 1942 e quindi è facile comprendere chi possano essere, nello specifico, i conquistatori descritti nella vicenda, che fa riferimento a un episodio della Resistenza norvegese, ma che in realtà travalica i confini della stessa per assurgere a simbolo dell’insopprimibile anelito verso la libertà di un popolo che decide di non lasciarsi soggiogare dagli invasori.

Un piccolo paese è invaso, anche grazie a un negoziante traditore, da un manipolo di soldati e dai loro ufficiali, che s’instaurano nell’abitazione del Sindaco, nell’intento di apparire, agli occhi della popolazione locale, come accettati dall’autorità o comunque di porsi in maniera non conflittuale. L’ordine ricevuto “dall’alto” è quello di sfruttare la miniera di carbone presente nella zona e per farlo bisogna servirsi dei minatori locali, dunque tenerli mansueti, sfruttarli senza scatenare rivolte. All’inizio tutto sembra procedere secondo i piani, ma un giorno un minatore, stufo di ricevere ordini da un invasore che egli non riconosce come legittimato a dargliene, si rivolta e uccide un soldato. La situazione diventa giorno dopo giorno più incandescente, sebbene ancora non vi siano palesi focolai di rivolta. I conquistatori si rendono conto, piuttosto, dell’odio, della rabbia che la gente del posto nutre nei loro confronti.

Steinbeck, facendo uso del suo stile spesso ironico, ci mostra anche le diversità di carattere dei diversi invasori, anch’essi uomini, quindi alle prese con le debolezze di chi, dopo tutto, anche in guerra sente il bisogno di trovare una ragazza o si accorge che la teoria bellica è tutt’altro rispetto alla pratica. Dall’altro lato, c’è la gente del popolo invaso, i minatori, la cuoca Annetta, il dottor Winter e il sindaco Orden, i quali non si prestano al vile gioco dei vincitori perché sanno che i loro concittadini, superata una prima fase di sbigottimento, si organizzeranno, cercheranno di comunicare con il mondo esterno a quel contesto, si batteranno per dimostrare all’aggressore che la libertà e la dignità umana non si barattano con nulla, e che loro, i presunti vincitori, non sono altro che “mosche che hanno conquistato la carta moschicida”.

Un romanzo che certamente non è paragonabile al capolavoro di Steinbeck, cioè “Furore”, ma che offre spunti interessanti che vanno oltre la specifica vicenda narrata, sui quali spunti, però, vi lascio a voi stessi, consapevole che non saprei trarne insegnamenti generali, considerando quanto l’essere umano è stato in grado di fare al suo simile nel corso dei millenni, magari proprio in nome di una parola meravigliosa e terribile come “libertà”.

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