Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Lì, ma dove, come (Julio Cortázar)

“Tu che mi leggi, non ti è mai capitata quella cosa che comincia in un sogno e che torna in molti sogni ma che non è quello, non è solamente un sogno? Qualcosa che è lì, ma dove, come; qualcosa che capita sognando, certo, puramente sogno ma dopo anche lì, in altro modo perché morbido e pieno di buchi ma lì mentre ti lavi i denti, nel fondo della coppa del lavabo continui a vederlo mentre sputi il dentifricio o metti la faccia sotto l’acqua fredda, e già assottigliandosi ma ancora lo senti afferrato al tuo pigiama, alla base della lingua mentre scaldi il caffè, lì, ma dove, come, incollato al mattino, con il suo silenzio nel quale già entrano i rumori del giorno, il radiogiornale perché abbiamo acceso l’apparecchio e siamo svegli e alzati e la vita continua. Maledizione, maledizione, ma com’è possibile, che cos’è questa cosa che fu, che fummo in un sogno ma è altro, torna ogni tanto ed è lì, ma dove, come è lì e dove è lì? Perché di nuovo Paco stanotte, ora che lo scrivo in questa stessa stanza, accanto a questo letto dove le lenzuola segnano l’impronta del mio corpo? A te non accade come accade a me con qualcuno morto trent’anni fa, che seppellimmo un giorno di mezzogiorno a Chacarita, portando sulle spalle la cassa insieme con gli amici del gruppo, con i fratelli di Paco?”

(Julio Cortázar, “Lì, ma dove, come”, in “I racconti”, ed. Einaudi)

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“Dall’altro lato dei miei occhi chiusi” (racconto “Il fiume” di Julio Cortázar)

“E sì, pare che sia così, pare che te ne sia andata dicendo non so cosa, che andavi a gettarti nella Senna, qualcosa di simile, una di quelle frasi da notte fonda, mescolate a lenzuola e a bocca impastata, quasi sempre nel buio o con qualcosa come mano o piede che sfiori il corpo di chi ascolta appena, perché è da tanto che ti ascolto appena quando dici cose così, non vengono che dall’altro lato dei miei occhi chiusi, dal sonno che di nuovo mi tira giù. E allora va bene, cosa m’importa se te ne sei andata, se ti sei affogata o ti aggiri ancora per le banchine guardando l’acqua, e poi non è vero perché sei qui addormentata e respiri a singulti, ma allora non te ne sei andata quando andasti via a un certo punto della notte prima che io mi perdessi nel sonno, perché te ne eri andata dicendo qualcosa, che andavi ad affogarti nella Senna, ossia hai avuto paura, hai rinunciato e di colpo sei qui e quasi mi tocchi, e ti muovi ondeggiando come se qualcosa lavorasse dolcemente nel tuo sonno, come se davvero sognassi che sei uscita e che dopo tutto sei arrivata alla banchina e ti sei gettata in acqua. Così una volta ancora, per dormire dopo con la faccia di stupido pianto, fino alle undici di mattino, l’ora in cui portano il giornale con le notizie di coloro che si sono affogati davvero.

Mi fai ridere, poverina. Le tue decisioni tragiche, quel tuo modo di sbattere le porte come un’attrice da tournée di provincia, uno si domanda se realmente credi nelle tue minacce, nei tuoi ripugnanti ricatti, nelle tue irresistibili scene patetiche con il crisma delle lacrime, degli aggettivi e delle recriminazioni. Meriteresti qualcuno più dotato di me che ti desse la battuta, allora si vedrebbe erigersi la coppia perfetta, con il fetore squisito dell’uomo e della donna che si distruggono guardandosi negli occhi per assicurarsi la proroga più precaria, per sopravvivere ancora e ricominciare a perseguire inesauribilmente la propria verità di sterpaglie e di fondo di casseruola. Ma lo vedi, scelgo il silenzio e accendo una sigaretta e ti ascolto parlare, ti ascolto mentre ti lamenti (a ragione, ma che ci posso fare), o meglio ancora, mi addormento a poco a poco, cullato quasi dalle tue imprecazioni prevedibili, con gli occhi socchiusi mescolo ancora per un momento le prime folate dei sogni con i tuoi gesti di camicia da notte ridicola alla luce del lampadario che ci regalarono quando ci sposammo, e credo che alla fine dormo e porto con me, te lo confesso quasi con amore, la parte più utilizzabile dei tuoi movimenti e delle tue accuse, il suono schioccante che ti deforma le labbra livide di collera. Per arricchire i miei sogni in cui mai a nessuno viene in testa di affogarsi, puoi crederci. Continua a leggere…

“Il sogno” (August Strindberg)

Il sogno

“In questo ‘sogno’, richiamandosi a un suo sogno precedente, Verso Damasco, l’Autore ha cercato di imitare la forma sconnessa ma apparentemente logica del sogno. Tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono; su una base minima di realtà, l’immaginazione disegna motivi nuovi: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità e improvvisazioni.

I personaggi si scindono, si raddoppiano, si sdoppiano, svaniscono, prendono coscienza, si sciolgono e si ricompongono. Una coscienza, tuttavia, sovrasta tutto, quella del sognatore: per essa non ci sono segreti, incongruenze, scrupoli, leggi. Egli non condanna, non assolve; riferisce: e poiché il sogno, il più delle volte, è doloroso e solo di rado lieto, una nota di malinconia e pietà verso quanto è vivente attraversa il vacillante racconto. Il sonno, questo liberatore, diventa spesso doloroso, ma quando il tormento arriva all’estremo, ecco il risveglio a conciliare il sofferente con la realtà. E la realtà, per penosa che sia, in quel momento costituisce pur sempre un sollievo, rispetto al sogno tormentoso.

Che anche la vita sia un sogno, ci sembrava una volta un sogno poetico di Calderón. Ma quando Shakespeare fa dire a Prospero, nella Tempesta, che “siamo tutti della stoffa di cui sono fatti i sogni”, quando il Savio inglese enuncia, per bocca di Macbeth, che la vita “è una favola, raccontata da un folle”, è il momento per cominciare a riflettere sulla questione.

Chi accompagnerà l’Autore, nel corso di questi brevi ore, lungo il suo cammino di sonnambulo, troverà forse una somiglianza tra il caos apparente del sogno e il tappeto multicolore della vita indomabile, eseguito dalla “tessitrice del mondo”, che dispone prima l’ordito dei destini umani e fa poi la trama con i nostri interventi in contrasto e le nostre passioni incostanti. Continua a leggere…

Nietzsche sul sogno e sugli istinti

“Ci siamo, quindi?”. Con queste parole, stamattina, si chiudeva un mio sogno meraviglioso per complessità, assurdità, personaggi e situazioni. Non sto qui a raccontarlo perché non saprei renderlo. Finiva dinanzi a una porta, all’interno di una scuola o qualcosa del genere. Nell’accingermi ad aprirla ero consapevole che, aprendola, il sogno sarebbe finito e mi rivolgevo a un mio compagno onirico con la domanda di cui prima. A un suo cenno affermativo, la porta veniva aperta e io mi trovavo nel mio letto, fuori dal sogno.

Con l’occasione sono andato a rileggermi un aforisma di Nietzsche, contenuto in “Aurora”, che mi aveva colpito quando lessi quell’opera. Accanto al testo avevo annotato: “Anticipa Freud”.

È un po’ lungo, ma a mio avviso merita.

 

119. Esperienza vissuta e finzione poetica. Per quanto uno faccia progredire la sua conoscenza di sé, nessuna cosa potrà mai essere più incompleta del quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono la natura umana. Difficilmente potrà dare un nome ai più grossolani di essi: il loro numero e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il giuoco alterno dell’uno con l’altro e soprattutto le leggi del loro nutrimento gli resteranno del tutto sconosciuti. Questo nutrimento diventa dunque un’opera del caso; i nostri intimi eventi d’ogni giorno gettano ora a questo, ora a quell’istinto, una preda che viene subito rapidamente afferrata, ma l’intero andirivieni di queste vicende sta al di fuori di ogni nesso razionale con le esigenze nutritive di tutti quanti gli istinti: di modo che subentrerà sempre un duplice fenomeno, l’essere affamati e il languire degli uni, il rimpinzarsi, invece, degli altri. Ogni momento della nostra vita ci fa crescere alcuni tentacoli del nostro essere ed altri invece gli atrofizza, secondo appunto il nutrimento che quel determinato momento porta o no in se stesso. Le nostre esperienze, come si è detto, sono tutte, in questo senso, mezzi d’alimentazione, ma sparsi con mano cieca, senza sapere chi è che ha fame e chi è già sazio. E in conseguenza di questo casuale nutrimento delle parti, anche il polipo interamente sviluppatosi sarà qualcosa di altrettanto casuale, come lo è il suo divenire. Per parlare più chiaramente: Continua a leggere…

Sogno (poco) lucido e (molto) sudato.

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(“…mi sveglio ancora e mi sveglio sudato…”)

So che sto sognando, anche perché nella stanza con me vedo troppa gente e soprattutto un tizio a me noto che attraversa un muro e scompare.

Chiedo a un amico: – Mi confermi che tutto ciò è solo un sogno?

– No. – risponde lapidario.

– Mi stai dicendo che questa è realtà, che quello lì può attraversare i muri e noi possiamo trovarci qui, ora, con questi sconosciuti, in questa strana stanza?

– Se guardi bene, quel tizio non ha attraversato alcun muro, si è infilato in un interstizio che tu, dalla tua posizione, non potevi vedere.

Mi sposto. Osservo. Ha ragione lui. Il tipo mi ha giocato uno scherzo, o forse ero solo distratto.

– Allora come spieghi la mia forte sensazione di essere in un sogno, anche se tu mi dici il contrario?

– Te la spiego con l’abitudine, difficile a sradicarsi, di distinguere così nettamente sogno e realtà. Tu sei convinto che questo sia un sogno solo perché questi personaggi, questi luoghi e queste dimensioni non si adattano alla tua convinzione di cosa debba intendersi per realtà. Se anche ti dimostrassero che questa è la realtà e che non stai sognando, tu, attaccato come sei alla tua presunta realtà, non accetteresti la dimostrazione, che peraltro qui non si può dare. È reale o appartiene al sogno il fatto che tu stia pensando?

(Questo è per la rubrica “Le Grandi Dichiarazioni che salveranno l’umanità”. Non so che fine abbia fatto il tipo nascosto nel muro, né chi esso sia)

 P.s.: per la cronaca, non ho avuto il tempo di rispondere al mio saccente amico, essendomi svegliato dal “sogno” (???) in un mare di sudore. Ciao.

“Il sogno di un uomo ridicolo” (Fëdor M. Dostoevskij)

Fëdor Michajlovič Dostoevskij

“I sogni, si sa, sono un fatto straordinariamente strano: una cosa la vediamo nella nostra mente con una chiarezza spaventosa, con una rifinitura dei dettagli minuziosa, da orefice, mentre altre le sorvoliamo senza notarle affatto, per esempio lo spazio e il tempo. I sogni sono mossi non dalla ragione, ma dal desiderio, non dalla testa, ma dal cuore, ma, ciononostante, quali ingegnosissime acrobazie ha compiuto talvolta la mia ragione in sogno! Tra parentesi ad essa in sogno accadono cose assolutamente inconcepibili. Mio fratello, per esempio, è morto cinque anni fa. Talvolta io lo vedo in sogno: egli partecipa vivamente alle mie faccende, noi siamo vivamente interessati l’uno all’altro, eppure durante tutta la durata del sogno io so e ricordo perfettamente che mio fratello è morto e seppellito. Come mai allora non mi meraviglio affatto che, benché sia morto, egli tuttavia sia lì accanto a me e si dia premura delle mie cose insieme a me? Perché la mia ragione ammette tutto questo?”

(Fëdor Dostoevskij, “Il sogno di un uomo ridicolo”)

In chiusura del delirante articolo precedente affermavo che dovrei prendere molto più sul serio, di quanto già non faccia, i miei sogni. In attesa di capire cosa volessi dire con quell’affermazione, mi sono riletto, per restare in argomento, “Il sogno di un uomo ridicolo” di Fëdor Dostoevskij, racconto molto breve che fu pubblicato, nel “Diario di uno scrittore”, nell’ambito di una collaborazione con una rivista. L’anno di pubblicazione è il 1877, dunque nel pieno dell’elaborazione di quello che sarà poi il capolavoro finale dello scrittore russo, cioè “I fratelli Karamazov”, del quale questo racconto breve anticipa, sia pure in maniera germinale, un tema. Il protagonista, l’uomo che si sente ridicolo, ha qualcosa di Alioscia Karamazov, ma ovviamente sarebbe ridicolo (appunto) paragonare un racconto come questo, di poco superiore alle venti pagine, con la titanica e meravigliosa opera finale di Dostoevskij.

Così come “Memorie dal sottosuolo” inizia con il famoso incipit “sono un uomo astioso”, il racconto in questione inizia con un’altrettanto netta dichiarazione del protagonista narratore, il quale ci fa subito sapere di essere, o almeno di apparire agli occhi degli altri, come un uomo ridicolo. La sua ridicolaggine sta nel fatto che egli, dopo aver fatto un sogno particolare, che non sto qui a raccontarvi altrimenti potreste evitare di leggere il racconto, s’è messo in testa di predicare una certa teoria, il tutto dopo avere attraversato una crisi profonda che gli aveva reso indifferente tutto il resto del mondo e soprattutto lo aveva portato a prendere in mano una rivoltella per farla finita. A prescindere dai riferimenti a una sorta di Eden nella quale gli uomini potrebbero vivere in armonia e felicità, ciò che più mi ha colpito in questa rilettura è la larvata polemica, sviluppata più in profondità in altre opere di Dostoevskij, contro gli eccessi ai quali può condurre la scienza, quando dimentica che oltre la mera materia della quale siamo composti c’è un sentire che non è possibile cogliere con i soli strumenti dell’intelletto, ma che, ad esempio, ci appare nella sua potenza quando sogniamo, sia pure facendo, anzi vivendo, dei sogni ridicoli di uomini ridicoli.

Quando nell’articolo precedente raccontavo dei miei pensieri sotto il sole cocente, oltre a rappresentare la disfatta delle mie capacità logiche, volevo appunto sottolineare come le spiegazioni razionali, scientifiche, logiche, che pure mi affascinano, che sto cercando tuttora e che non reputo fredde (anzi), da solo non mi appagano, perché c’è sempre qualcosa che sfugge e che debbo indagare al mio interno, certo con l’ausilio dell’intelletto, del ragionamento, degli studi più avanzati ai quali mi è possibile accedere, ma anche con una bella dormita e un sogno assurdo, nel quale lo spaziotempo è diverso da quello del mio vissuto quotidiano e le persone costituiscono un caleidoscopio di emozioni che a occhi aperti non riuscirei neanche lontanamente a costruire.

“La coscienza dimeno”

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Interno di un edificio. Sono affacciato a una finestra dalla quale osservare il mondo esterno, ma non vedo nulla. Pochi metri più in alto c’è un’altra finestra. Per arrivare dalla prima alla seconda bisogna percorrere alcune scale disposte a spirale. Mi trovo ora di fronte alla seconda. Mi accorgo, però, che un altro me è ancora di fronte alla prima. Lo guardo, lui mi guarda. Poi, insieme, ci voltiamo verso le scale che ci collegano. Un terzo me le sta percorrendo, ma è indeciso se salire o scendere.

Si sente un vento impetuoso provenire dall’esterno. Mi spavento. Ci spaventiamo.

Mi sveglio all’improvviso. Mi trovo in un letto. Degli altri due non c’è traccia.

Sul comodino Kant. Forse dovrei leggere altro. Oppure cambiare dieta.

P.s.: approfitto della misera occasione concessami, per suggerire la visione di “Prima della pioggia” (“Before the rain”) di Milcho Manchevski, nonché di “Strade perdute” (“Lost highway”) di David Lynch, peraltro più noto.

Due film sul sogno (Bresson e Hitchcock)

Oggi vi segnalo due film, che spero potranno aiutarvi a passare le giornate invernali ricolme di piogge.

Sono molto diversi tra loro, accomunati soltanto da un comune riferimento al tema del “sogno”. Nel primo caso, si tratta di sogni ad occhi aperti, quelli dell’innamorato. Nel secondo, del sogno propriamente detto (sulla questione Sogni rimando anche i più curiosi al mio delirante articolo di qualche tempo fa).

Il primo si ricollega, in parte, al mio articolo precedente, nel quale ho trascritto un passaggio tratto da “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij. Il film in questione è liberamente tratto da “Le notti bianche”, racconto giovanile dello scrittore russo. Chi ha letto il libro sa qual è la trama, rispettata nella sua essenzialità, anche se è ambientato a Parigi, nel Novecento, invece che nella Pietroburgo ottocentesca. Lei, inoltre, si chiama Marthe e non Nasten’ka. Mi è piaciuto molto, lo preferisco alla versione che ne trasse Luchino Visconti, anch’essa non male. C’è persino qualche accenno di “mano malandrina”, rispetto alla castità assoluta del libro.

Di seguito l’inizio del film.

Il secondo film è invece “Io ti salverò” (titolo originale: “Spellbound”) di Alfred Hitchcock.

Forse non è all’altezza di altri capolavori del regista, ma l’ho apprezzato egualmente e ve lo segnalo. Si tratta di un viaggio alla ricerca dell’identità perduta di un soggetto che ha perso la memoria, e che intreccia una relazione con la sua psicanalista. L’amore riuscirà a salvarlo?

La scena che vi riporto è un sogno dell’uomo, ed è stata sceneggiata da Salvator Dalì.

 Buona visione e soprattutto buoni sogni.

Perché i miei Sogni a Occhi Chiusi sono meglio dei miei Sogni a Occhi Aperti

Non so voi chi frequentate nei vostri Sogni a Occhi Chiusi, personalmente ritengo giusto mettervi al corrente che ogni tanto v’invito ai miei, e voi venite, certo a vostra insaputa, ma non per questo in maniera meno partecipata. Anche se talvolta non conosco il vostro volto, oppure conosco il volto ma non la voce, dovete sapere che contribuite allo splendore ineffabile dei miei Sogni a Occhi Chiusi.

L’articolo vuole essere una riflessione sconclusionata sulla malia dei miei Sogni a Occhi Chiusi. Tutto parte da un’intuizione che ho avuto l’altro giorno mentre passeggiavo e discutevo con un amico. A onor del vero, va detto che la passeggiata era onirica, cioè tecnicamente è avvenuta mentre dormivo, quindi per una logica cosiddetta realistica non è avvenuta. Eppure è avvenuta, ve lo assicuro. Non mi metterò, infatti, a fare l’elogio del Sognatori a Occhi Aperti, che sia l’innamorato o colui che crede nella redenzione del mondo dal male. Per quello ho già dato in passato, il mio antico blog, ad esempio, pullulava di riferimenti alla figura del Sognatore da notti bianchi dostoevskiane, che per tanto tempo ha deviato la mia esistenza verso sentieri tortuosi e spesso dolorosi. Quelle notti bianche sono finite di giorno, proprio come nel libro, ed è bene lasciarle nell’oblio.

Vorrei, piuttosto, sviluppare quel discorso che stavo sostenendo con il mio amico nel sogno. La tesi, non importa se fosse la mia o la sua, è che “i Sogni fatti a Occhi Chiusi sono meglio di quelli fatti a Occhi Aperti”. Dove sta la novità? È bello sognare, i sogni aiutano ad andare avanti nella vita, a darsi un obiettivo, chi non sogna è già morto, tutte queste belle storielle ce le siamo già raccontate. Nulla di tutto ciò, a me interessa il sogno in sé e per sé, l’atto stesso del sognare, ciò che accade a Occhi Chiusi, non ciò che può significare in termini di aspirazioni future, di speranze, timori, frustrazioni, illusioni. Non m’interessa, non in quest’occasione, chiedermi perché ho sognato quella donna, chi rappresenta, se la ritroverò nell’esistenza reale, nei bar, nei pub. Quelle domande appartengono già al sognare a Occhi Aperti, applicare le regole spazio-temporali del quotidiano, con i limiti e condizionamenti del vissuto.

A me interessa invece fare l’elogio spassionato di quel mondo che frequento quando chiudo gli occhi. Sono consapevole che quel mondo a Occhi Chiusi affonda le radici anche in ciò che vivo a Occhi Aperti, Freud non è passato invano nemmeno dalle mie parti, so anche che non bisogna confondere le cause con gli effetti, e che magari se sogno, a Occhi Chiusi, di attraversare il Tevere a nuoto, potrebbe significare che quegli occhi devo aprirli per andare a svuotare la vescica. Detto questo, so anche che il mondo a Occhi Chiusi sottostà a regole che sfuggono a qualsiasi mio tentativo di descrizione. Non è un mondo idilliaco, non ne sto tessendo l’elogio perché lì, in quel mondo a Occhi Chiusi, tutto va bene e mi aiuta a sfuggire dal mondo a Occhi Aperti, no, non è così, spesso nel mondo a Occhi Chiusi ci sono scene apocalittiche, catastrofi, premonizioni di morte, che nella realtà, per mia fortuna, non ho vissuto in prima persona. Poi c’è tutto il resto, gli entusiasmi, l’amore, il sesso, e anche la noia, perché anche quest’ultima esiste nel mondo a Occhi Chiusi, certo, ma è diversa, e non chiedetemi perché, questo discorso, ve l’ho detto, non è mica definitivo o chiaro.

Dove voglio arrivare? Non è semplice, quel dibattito onirico procedeva in modo frammentario e tirarne le fila adesso, a Occhi Aperti, è già un tradimento, una rappresentazione falsata e indegna di quel che succede a Occhi Chiusi. Ecco, la tesi, se così vogliamo definirla, è che quei sogni, quelli del mondo a Occhi Chiusi, sono non solo diversi da quelli a Occhi Aperti, e questa è un’ovvietà, ma per me, e sottolineo per me, hanno ormai anche una superiorità di carattere ontologico – qualitativo.

Il Sogno ad Occhi Aperti non potrà mai eguagliare quello a Occhi Chiusi. Continua a leggere…

“Rosita di bianco vestita” (Rino Gaetano)

“C’è sempre qualcosa che non va, la donna, il salario, eccetera. Ma in fondo qualcos’altro ti consola. Rosita è appunto l’emblema di quello che ti fa scordare il precedente problema. Rosita è un ideale, non è una donna. Cioè, la meta che tu raggiungi dopo averne cercate delle altre. Chiaramente è la meta ultima del momento, che annulla tutte le altre. Cioè, tu hai dei sogni, hai mille sogni, ma alla fine arriva quello più grosso che annulla tutti quelli precedenti. Quindi raggiungere “Rosita”, ieri ho incontrato “Rosita”, perciò questa vita, tutto quello che vi ho raccontato fino adesso, i fiori, i vestiti di raso, tutte queste cose qui non hanno più senso: ho incontrato Rosita. E anche qui è un simbolo, non è una donna precisa. Ed è per questo che nella canzone c’è: Rosita di bianco vestita. Perché Rosita la vesto come mi pare. In questo momento la vesto di bianco, il giorno dopo magari di rosso, poi la vestirò di blu a strisce bianche. Ma non è tanto questo: Rosita vestita di bianco perché a me piace abbastanza giocare sulle parole, e qui il bianco rappresenta un po’ anche la bellezza e altre cose. Quindi fa parte sempre del gioco…”

(Rino Gaetano, da “Rino Gaetano live” di Emanuele Di Marco, Edizioni Stampa Alternativa; il passaggio è ripreso, a sua volta, da un’intervista del marzo 1979 a “Ciao 2001”)

p.s.: se vi piace Rino Gaetano, vi consiglio caldamente di comprare il libro che ho citato.

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