Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “memoria”

“Menzogna e sortilegio” (Elsa Morante)

“In queste notti di veglia, al posto dell’antica menzogna ho una nuova compagna: la memoria. Trascorro l’intera notte a ricordare eventi passati. Non soltanto il mio passato, e in particolare l’infanzia, e l’ultimo anno vissuto coi miei parenti, che ritrovo intatto e vivido come fosse di ieri; ma anche il loro passato, quello di mio padre e di mia madre, e della mia famiglia defunta. Non posso usare altro verbo che ‘ricordare’: infatti tutto ciò che ignoravo di loro mi si spiega naturalmente, e io ripercorro fin dal principio le loro vite come se tutte fossero episodi della mia. Allo stesso modo di chi, ridestatosi da un sonno letargico, ritrovi ad una ad una, dopo una breve incertezza, le circostanze della propria vita da sveglio.”
(Elsa Morante, “Menzogna e sortilegio”, ed. Einaudi)

Pubblicità

“Confesso che ho vissuto” (Pablo Neruda)

“Federico non venne all’appuntamento. Camminava già verso la morte. Non lo vedemmo più. E in questo modo la guerra di Spagna, che cambiò la mia poesia, cominciò per me con la scomparsa di un poeta.
Che poeta! Non ho mai visto riuniti come in lui la grazia e il genio, il cuore alato e la cascata cristallina. Federico García Lorca era il folletto dissipatore, l’allegria centrifuga che raccoglieva nel suo seno e irradiava come un pianeta la felicità di vivere. Ingenuo e commediante, cosmico e provinciale, musicista singolare, splendido mimo, pauroso e superstizioso, raggiante e gentile, era una specie di riassunto delle età della Spagna, della fioritura popolare (…)
Mi seduceva il gran potere metaforico di García Lorca e mi interessava tutto quanto scriveva. Dal canto suo, mi chiedeva a volte di leggergli le mie ultime poesie e, a metà della lettura, mi interrompeva dicendo: <<Non andare avanti, non andare avanti, che mi influenzi>>.
Nel teatro e nel silenzio, fra la folla e nell’intimità, era un moltiplicatore della bellezza. Non vidi mai un uomo che avesse tanta magia tra le mani, non vidi mai un fratello più allegro. Rideva, cantava, musicava, saltava, inventava, faceva scintille. Poveretto, aveva tutti i doni del mondo e come fu un lavoratore d’oro, un fuco d’alveare della grande poesia, era uno sperperatore del suo ingegno (…)
Federico García Lorca non fu fucilato; fu assassinato. Naturalmente nessuno poteva pensare che un giorno l’avrebbero ammazzato. Fra tutti i poeti di Spagna era il più amato, il più caro, il più simile ad un bambino per la sua meravigliosa allegria. Chi avrebbe potuto credere che esistessero sulla terra, e sulla sua terra, mostri capaci di un delitto così inspiegabile?”
(Pablo Neruda, “Confesso che ho vissuto”, ed. Sugarco)

“Vertigini”

mde

“A Vienna il dottor K. prende alloggio all’Hotel Matschakerhof, per simpatia verso Grillparzer, che si fermava sempre lì per pranzo. Un gesto di deferenza destinato, purtroppo, a dimostrarsi inefficace. Per quasi tutto il tempo il dottor K. si sente malissimo. Soffre di un senso d’oppressione e di disturbi visivi. Benché disdica i suoi appuntamenti ogni volta che può, si ritrova di continuo in mezzo a una quantità spaventosa di gente – così almeno gli sembra. Siede a tavola con gli altri come un fantasma, ha gravi attacchi di claustrofobia e da ogni sguardo che lo sfiora si crede indagato sin nel profondo. Accanto a lui, quasi a gomito, c’è Grillparzer, ormai decrepito. Fa delle brutte smorfie e a un certo punto gli posa addirittura una mano sul ginocchio. Durante la notte il dottor K. ha una crisi. La storia di Berlino continua a tormentarlo. Inutilmente si rigira nel letto, si mette delle compresse fredde sulla fronte, rimane a lungo alla finestra, guarda la via e vorrebbe giacere giù, di qualche piano, nella terra. Impossibile – annota il giorno dopo – condurre l’unica vita possibile, una vita in comune con una donna, ciascuno dei due libero, ciascuno per sé, senza matrimonio né di diritto né di fatto, vivere solamente insieme, impossibile compiere l’unico passo lecito oltre l’amicizia virile, perché lì, appena superato il limite stabilito, già si alza il piede che ti schiaccerà al suolo.”

(W. G. Sebald, “Vertigini”, ed. Adelphi)

Se “Austerlitz”, letto qualche giorno fa, mi aveva fatto “scoprire” le doti narrative di Sebald con colpevole ritardo, “Vertigini” mi ha confermato la sua abilità nell’avvincere il lettore alle storie raccontate, in questo caso quattro racconti aventi come tema comune il viaggio, nella sua accezione più ampia.

I viaggi oggetto del libro, infatti, sono anche da intendersi come puro spostamento fisico dei protagonisti, ma  soprattutto rappresentano l’occasione per escursioni mentali in uno spazio-tempo condensato, nel quale presente e passato si fondono in un intreccio di ricordi, citazioni, digressioni, vicende di personaggi famosi. Il primo racconto s’intitola “Beyle e lo strano fenomeno dell’amore” ed è incentrato su Henri Beyle, cioè Stendhal, accompagnato da Sebald nel suo percorso attraverso le Alpi, nell’anno 1800, quando il futuro scrittore è un giovanissimo soldato napoleonico che poi, una volta in Italia, comincerà a scoprire le meraviglie e le ambiguità dei sentimenti amorosi, che poi riverserà nei suoi romanzi e nel suo trattato sull’amore.

Il secondo è “All’estero” e concerne alcuni viaggi che il narratore/autore fece da Vienna a Milano, passando per Venezia e Verona. Sebald mescola, a ricordi personali, ampie e gradevoli parentesi nelle quali inserisce aneddoti su Kafka e in particolare su Casanova, incarcerato a Venezia secoli prima. Magistrale, inoltre, una pagina nella quale, trattando della solitudine nella folla all’interno delle stazioni ferroviarie, lo scrittore descrive un assalto al buffet. A Franz Kafka è dedicato il terzo scritto, “Il dottor K. in viaggio alle terme di Riva” nel quale è appunto descritto un viaggio, di lavoro e per motivi di salute, che Kafka fu costretto ad intraprendere verso l’Italia, nel settembre 1913, passando per Venezia e per Desenzano, prima di raggiungere un medico. Per gli amanti di Kafka, come me, sono pagine a tratti toccanti, specie quando Sebald riesce a descrivere lo stato malinconico che Kafka riversa nella lettere a Felice Bauer.

Infine, Continua a leggere…

“Austerlitz” (W. G. Sebald)

dav

“Perché non mi dici, ella domandò, disse Austerlitz, la ragione della tua inavvicinabilità? Perché, disse, da quando siamo arrivati qui sei come uno stagno gelato? Perché vedo le tue labbra schiudersi, quasi tu volessi dire, o magari persino gridare qualcosa, e poi non sento nulla? Perché arrivando non hai disfatto i tuoi bagagli e vivi, per così dire, soltanto dello zaino? Eravamo a qualche passo l’uno dall’altra, simili a due attori sulla scena. Con l’affievolirsi della luce gli occhi di Marie mutavano colore. E io cercai di nuovo di spiegare a lei e a me stesso quali incomprensibili sentimenti avessero continuato a opprimermi negli ultimi giorni: come un folle non vedevo altro intorno a me se non misteri e segni; mi sembrava che persino le mute facce delle case sapessero su di me qualcosa di negativo, e se da sempre ero stato convinto che il mio destino fosse una vita solitaria, adesso, nonostante il mio desiderio di lei, lo ero più che mai. Non è vero, disse Marie, che abbiamo bisogno dell’isolamento e della solitudine. Non è vero. Sei solo tu ad aver paura, non so di che cosa. Sempre ti sei tenuto un po’ a distanza, me ne ero ben accorta, ma adesso è come se ti trovassi su una soglia che non hai il coraggio di varcare. Non ero in grado allora di ammettere che Marie aveva ragione in tutto, ma oggi so, disse Austerlitz, perché dovevo prendere le distanze se qualcuno mi veniva troppo vicino, e ricordo che in quel prendere le distanze mi credevo in salvo e al tempo stesso mi sentivo un essere intoccabile, brutto da incutere spavento.”

(W. G. Sebald, “Austerlitz”, ed. Adelphi)

“Austerlitz” di W. G. Sebald è un romanzo toccante, avvincente, scritto (tradotto) meravigliosamente, un libro che mi ha avvinto alla lettura dalla prima all’ultima riga.

Jaques Austerlitz è un professore di storia dell’architettura che il narratore incontra alla stazione di Anversa nel 1967, in modo del tutto casuale e che sulle prime parla quasi esclusivamente di strutture architettoniche, senza troppi riferimenti a un vissuto personale che pare immerso in un oblio definitivo. Austerlitz è un solitario e le ragioni della sua difficoltà ad avere rapporti umani affondano in un passato oscuro che egli avrà la forza di affrontare solo negli anni Novanta, una volta andato in pensione, quando prenderà piena consapevolezza del dramma che si cela dietro il suo arrivo (1939) in Inghilterra.

A cinque anni, infatti, Austerlitz, che scoprirà di chiamarsi così solo un decennio dopo, si era ritrovato, senza sapere perché, adottato da due coniugi gallesi, dalla mentalità piuttosto retrograda. Da Praga era stato inviato, in un convoglio trasportante altri bambini, nell’immediata vigilia della seconda guerra mondiale, per preservarlo da orrori che i suoi reali genitori sconteranno sulla loro pelle, nei campi di concentramento e sterminio.

Il romanzo di Sebald, con i suoi andirivieni spaziotemporali, è una struggente riflessione sui temi della memoria individuale e collettiva, sull’oblio, su luoghi che segnano, sull’abbandono, sul tempo, sull’identità perduta/ritrovata, sulla solitudine e la paura di affrontare incubi che Austerlitz (e tante altre persone con storie simili alle sue) si portano dentro, ed è corredato da fotografie che aggiungono valore alle già potenti immagini lessicali che l’autore ci offre.

“Dette queste parole, Austerlitz tacque e rimase per qualche tempo – almeno mi pare – con lo sguardo perso nel vuoto. Sin dall’infanzia e dalla giovinezza, così infine riprese il discorso tornando a guardarmi, non ho mai saputo chi in realtà io sia. Dal mio attuale punto di vista mi rendo ben conto che già solo il mio nome e il fatto che, di questo nome, io sia rimasto defraudato fino ai quindici anni avrebbero dovuto mettermi sulle tracce della mia origine; eppure, negli ultimi tempi, ho anche capito per quale motivo un’istanza anteposta o preposta alla mia capacità di pensare, e con ogni evidenza dominante in modo assai avveduto da qualche parte del mio cervello, mi abbia sempre protetto dal mio segreto e sistematicamente distolto dal trarre le conclusioni più ovvie e dall’intraprendere ricerche coerenti con tali conclusioni. Non è stato facile liberarmi dal disagio che provavo nei confronti di me stesso, né sarà facile presentare ora le cose in una successione più o meno ordinata.”

“Il libro contro la morte” (Elias Canetti)

Canetti contro morte

“Troppo poco si è riflettuto su ciò che, dei morti, resta davvero vivo, disperso negli altri; e non si è escogitato alcun metodo per alimentare quei resti dispersi e mantenerli in vita quanto più a lungo possibile.
Gli amici di un uomo che è morto si ritrovano in un determinato giorno e parlano esclusivamente di lui. Ne incrementano la morte, se del morto non dicono altro che bene. Sarebbe meglio se litigassero, se prendessero partito pro o contro di lui, se ci raccontassero certi tiri mancini, di cui nulla si sapeva; finché su di lui c’è ancora qualcosa di sorprendente da dire, il morto si trasforma e non è morto. La pietà, che cerca di conservarlo dentro l’ambra, non è affatto segno di amicizia. Nasce dalla paura e vuole soltanto mantenerlo inoffensivo da qualche parte, come dentro la bara e sottoterra. Affinché il morto, nella sua impalpabilità, continui a vivere bisogna consentirgli di muoversi. Dev’essere collerico, come prima, e nella sua collera far uso d’una imprecazione inaspettata, nota solo a colui che ce la riferisce. Deve diventare affettuoso: coloro che lo hanno conosciuto nella sua severità e spietatezza, devono all’improvviso percepire quanto egli sapesse amare. Si vorrebbe quasi che ciascuno degli amici avesse la sua parte del morto da rappresentare, e allora, messe tutte quante assieme, esse lo farebbero rivivere. Nel corso di tali celebrazioni si potrebbe altresì consentire una graduale partecipazione dei più giovani e dei non iniziati, affinché anche a essi fosse dato esperire, nella misura loro possibile, quell’uomo ancora sconosciuto. Certi oggetti, dotati di un qualche legame con lui, dovrebbero passare di mano in mano, e sarebbe bello se a ogni incontro annuale, accanto a una storia, apparisse anche un nuovo oggetto, rimasto fino allora nascosto.”
(Elias Canetti, “Il libro contro la morte”, ed. Adelphi)

“Ella non osa parlarne, eppure ci pensa” (Søren Kierkegaard)

dav

“Perché tutto può dimenticare una ragazza, tranne una relazione. La vita di società, è vero, mette in contatto con il bel sesso, ma non permette di iniziare un rapporto, perciò vale a ben poco. In società ogni ragazza si presenta difesa dalle sue armi, la situazione è sempre la stessa e non suscita certo brividi di voluttà. Invece per la strada si trova come in alto mare, cosicché tutto ha maggiore effetto e sembra più misterioso. Darei cento talleri per il sorriso di una ragazza in strada, ma neanche dieci per una stretta di mano in un salotto. La cosa è ben diversa. Si deve cercare la ragazza in società solo se qualcosa c’è già stato. Si stabilisce allora una comunicazione invisibile e segreta tra noi e lei, e questo è seducente e rappresenta il miglior incitamento che io conosca. Ella non osa parlarne, eppure ci pensa. Non sa se abbiamo dimenticato o meno. La si può ingannare ora in un modo, ora nell’altro.

Quest’anno non mi andrà tanto bene con le altre, sono troppo preso da lei! Il mio bottino, in un certo senso, resterà magro, ma in cambio ho la speranza di ottenere il primo premio.”

(Søren Kierkegaard, “Diario del seduttore”, ed. Giunti)

“La panchina della desolazione” (Henry James)

james

“Per lui, quel sedile, termine della sua passeggiata, era sacro; se lo rappresentava da anni come l’ultimo (sebbene ce ne fossero altri, non immediatamente vicino e diversamente disposti, che avrebbero potuto aspirare a quel titolo); così che poteva, con un immediato senso d’irritazione, cogliere di lontano, distinguere mentre si avvicinava, qualsiasi occupazione accidentale, e non avvicinarsi finché la contrarietà fosse durata. Quello che non tollerava era di rompere la tradizione, non importa se per un uomo o per una donna o per una coppia di innamorati; agli imbecilli di quest’ultima categoria era più avverso che a tutti gli altri; perché s’era seduto lì, in passato, solo, vi s’era seduto interminabilmente con Nan, vi s’era seduto – sì, con altre donne, quando le donne, nelle sue ore di libertà, potevano ancora trovare interesse in lui o lui in loro, ma non aveva mai diviso il sedile con estranei irrequieti e sospirosi…”

(Henry James, “La panchina della desolazione”, ed. Passigli)

Seduto sulla panchina della desolazione, unico ristoro di un’esistenza poco soddisfacente, Herbert Dodd scorge una donna raffinata che sembra essere lì per farsi notare da lui. Sulle prime non la riconosce, ma poi si accorge che è Kate Cookham, una lucida calcolatrice che molti anni prima l’aveva ridotto sul lastrico e alla quale era stato legato sentimentalmente, prima di sposarsi con Nan, poi morta. Cosa vuole adesso Kate da Herbert? Perché, a distanza di anni, dell’antico rancore sembrano non esserci più tracce e Kate appare fiorita rispetto alla gioventù?

Henry James, con la consueta abilità nel tratteggiare elegantemente la psiche dei personaggi, ci propone un racconto sull’intreccio, il confine labile che può esserci tra odio e amore, Continua a leggere…

“La cosa migliore che abbiamo avuto”

Flaubert

“L’educazione sentimentale”, Gustave Flaubert.
L’ultima pagina.
Te le ricordi le vacanze del 1837?

“Un mondo perduto e ritrovato” (Aleksandr Lurija)

lurjia

“Più a lungo la mia mente rimugina cercando nella memoria le parole necessarie per esprimere questo pensiero, più diventa difficile ricordare le parole adatte. Ma qualcosa devo pur ricordare, almeno parole approssimative, generiche, non esatte, almeno quelle. Le raccolgo, queste parole ausiliarie per il mio pensiero. Però non mi metto a scrivere subito, perché devo comporre la frase. E comincio a comporla, giro e rigiro le parole più volte, per far sì che la frase somigli a quelle che ho sentito o letto nei libri veri, corretti.

Ma che fatica scrivere! Mi viene in mente l’idea di descrivere qualcosa tratto da ciò che ricordo del ferimento, della successiva malattia, i primi tormenti. Ho preso al volo un bel pensiero! Comincio a cercare una parola per questo pensiero, poi un’altra… ma la terza parola per esprimere questo pensiero non mi viene, non la ricordo… la cerco, cerco… Alt! L’ho trovata! L’ho trovata! Ma qual era il mio pensiero?… L’ho dimenticato… E dove sono le due parole che avevo trovato con tanta fatica? Non ricordo nemmeno quelle. Torno a frugare nella memoria, di nuovo cerco il pensiero per scriverlo, cerco le parole adatte per questo o quell’altro pensiero, le annoto su fogli e foglietti, prima di inserirle nel testo che devo scrivere, unendole al pensiero sviluppato dalla mia mente disturbata dalla ferita. Ma com’è doloroso tutto questo… Dimenticare continuamente cosa stai scrivendo, cosa stai pensando, dove ti trovi, non ricordarlo, non saperlo per lunghi minuti…”

(Aleksandr Lurija, “Un mondo perduto e ritrovato”, estratto da una pagina del diario di Lev A. Zaseckij, ed. Adelphi)

Nel 1943, lungo il fronte occidentale russo, il ventitreenne soldato Lev A. Zaseckij, già studente d’ingegneria meccanica, è colpito in testa da un pallottola sparata da un tedesco, che non sarà mai estratta dal suo cervello, Continua a leggere…

“Mendel dei libri” (Stefan Zweig)

zweig

“Perché lui leggeva come altri pregano, come i giocatori giocano e gli ubriachi, intontiti, fissano il vuoto: leggeva in modo talmente assorto, con un tale, commovente rapimento, che da allora il modo in cui legge il resto del mondo mi è sempre parso profano. In Jakob Mendel, quel piccolo rigattiere di libri galiziano, io, giovane uomo, avevo visto personificato per la prima volta il grande segreto della totale, assoluta concentrazione, che accomuna l’artista all’erudito, il vero saggio al folle patentato, questa tragica fortuna e sfortuna della piena, totale ossessione.”

(Stefan Zweig, “Mendel dei libri”; citazione tratta dall’edizione Newton)

“Mendel dei libri” è un racconto di circa venti pagine, scritto nel 1929 (almeno così ho letto), dunque nel mezzo delle due guerre mondiali, una delle quali, la prima, ha un suolo ruolo tragico(mico) nella vicenda narrata da Zweig. I temi principali del racconto sono la “sublime ossessione” per i libri che affligge Mendel, un rivenditore ambulante che per oltre trent’anni vende i suoi libri, seduto allo stesso angolo nel “Caffè Gluck” di Vienna, e la caducità della memoria, del ricordo. Il narratore, infatti, ritrovandosi in quel caffè, avverte di essere legato a quel luogo da qualcosa, ma inizialmente non sa da cosa. Dopo un po’, però, si stupisce di come possa essersi scordato di “Mendel dei libri”, che per decenni era stato lì, presente, a sfoggiare la sua maniacale conoscenza libraria, relativa non tanto al contenuto degli stessi, quanto al prezzo, alla copertina, al titolo, all’editore, insomma a tutte quelle informazioni utili per il suo ruolo da venditore. L’ossessione di Mendel è tale che egli ignora gli eventi che accadono attorno a sé, siano essi degli operai che lavorano al suo fianco o lo scoppio della Prima Guerra mondiale. Il personaggio è certamente inverosimile per certi aspetti, ma offro all’autore la possibilità di considerazioni amare, a tratti struggenti, sulla fragilità della nostra memoria ma anche su come, pungolati da opportuni stimoli, nella nostra mente possano ridestarsi ricordi pungenti. Si legge tutto d’un fiato, sia per la brevità sia per la scorrevolezza della storia.

Navigazione articolo

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: