Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Turgenev e un appassionato di arte

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(Nel racconto “Tatiana Borìssovna e suo nipote”, Turgenev ritrae con crudele ironia un appassionato d’arte che, in verità, di arte non capisce granché. Il quadro di Magritte, “La riproduzione vietata”, l’ho scelto proprio perché neanche io capisco molto, di arte e di me stesso.)

“… inoltre era infiammato di passione disinteressata per l’arte, e disinteressata sul serio, perché appunto d’arte il signor Benevolenski, a dire il vero, non capiva proprio nulla. Fa persin meraviglia: di dove, in virtù di quali misteriose, incomprensibili leggi, gli era venuta questa passione? Era, a quel che sembra, un uomo positivo, addirittura comune… del resto da noi in Russia di gente così ce n’è parecchia.

L’amore per l’arte e gli artisti dà a questa gente una sdolcinatezza indefinibile; praticarli, discorrere con loro è una pena: veri bastoni spalmati di miele. Essi, per esempio, Raffaello non lo chiamano mai Raffaello, né Correggio il Correggio: «il divino Sanzio, l’inimitabile de Allegris», dicono essi, e accentuano senza meno la lettera  o. Ad ogni talento paesano, pieno d’amor proprio, smaliziato e mediocre, danno del genio o, più esattamente, del “gegnio”; l’azzurro cielo d’Italia, il limone del mezzogiorno, i fragranti vapori delle Rive del Brenta sono sempre sulle loro labbra. «Eh, Vania, Vania», oppure: «Eh, Sascia, Sascia», si dicono l’un l’altro con sentimento: «Al sud noi dovremmo andare, al sud… io e tu siamo greci nell’anima, greci antichi!». Li si può osservare nelle esposizioni, davanti a talune opere di pittori russi. (Si deve notare che, in massima parte, tutti questi signori sono terribili patrioti). Ora indietreggiano un paio di passi e rovesciano il capo, ora si accostano di nuovo al quadro; i loro occhietti si coprono di un umore oleoso… «Uh, Dio mio», dicono infine con voce rotta dall’emozione, «quant’anima, quant’anima! e di cuore, poi, di cuore! ce ne ha messo dell’anima! un subisso di anima!… E concepito, poi! magistralmente concepito!». E che sorta di quadri nei loro salotti! Che razza di artisti vanno a trovarli la sera, bevono da loro il tè, ascoltano i loro discorsi! Quali vedute in prospettiva delle loro stanze non presentano loro, con la spazzola sul piano di destra, uno strato di sudiciume sul pavimento lucidato, un samovar giallo sulla tavola accanto alla finestra, e lo stesso padron di casa in veste da camera e papalina, con un vivo tocco di luce sulla guancia!”.

(Ivan Sergeevič Turgenev, “Memorie di un cacciatore”, ed. Bur)

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“L’ispettore generale” (Gogol’)

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“Per quanto riguarda voi, Amnos Fëdorovic, vi consiglierei di controllare un po’ meglio lo stato degli uffici pubblici. Nell’anticamera dove di solito i cittadini fanno la fila, i custodi tengono le oche con i paperotti che immancabilmente vanno a intrufolarsi tra le gambe della gente. Il fatto che ci si dedichi a un piccolo allevamento è certamente encomiabile, e non c’è nessun motivo di proibirlo… Solo, vedete, è la scelta del luogo che è inopportuna… Già da tempo avevo intenzione di dirvelo, ma me lo sono sempre dimenticato.”

(Nikolaj V. Gogol’, “L’ispettore generale”, ed. Garzanti)

Per motivi a me ignoti, pur essendo da sempre un grande ammiratore di Gogol’, nonché lettore di altrii suoii capolavori quali i “Racconti di Pietroburgo” e “Anime morte”, non avevo ancora letto “L’ispettore generale”, opera teatrale nella quale la magistrale e amara ironia dello scrittore raggiunge vette elevate.

“L’ispettore generale” causò malaesseri a Gogol’, perché non fu accolta bene, tanto che l’autore si vide costretto a difendersi a modo suo, scrivendo “All’uscita dal teatro dopo la rappresentazione di una nuova commedia”, un atto unico nel quale dava voce alle critiche del pubblico e poi, tra le altre cose, spiegava perché nell’Ispettore generale non fosse presente alcun personaggio positivo.

“L’ispettore generale” è una satira sull’ipocrisia, il malcostume, l’ingiustizia, la corruzione di una piccola cittadina russa, il cui Sindaco è spaventato dall’arrivo di un ispettore generale, proveniente da Pietroburgo. In realtà l’ispettore non è tale, bensì un perdigiorno che una serie di equivoci faranno assurgere a uomo temuto dal Sindaco, dal Sovraintendente alle opere pie, dal Giudice, dall’Ufficiale postale e dai miseri notabili della cittadina. Gogol’, al solito, è magistrale nel rappresentarci le meschinità e le ridicole bassezze morali di determinati tipi umani che, mutati tempi e luoghi, sono tutt’altro che scomparsi dai ranghi delle burocrazie odierne.

“E se l’autore inserisse nella commedia anche un solo personaggio positivo, e lo rappresentasse in tutta la sua attrattiva, gli spettatori, dal primo all’ultimo, passerebbero dalla sua parte, e dimenticherebbero completamente quelli che adesso li spaventano tanto (…).”

“Questo personaggio nobile e onesto è il riso. È nobile, perché ha deciso di intervenire nonostante l’opinione meschina di cui gode nel mondo. È nobile, perché ha deciso di intervenire anche a costo di procacciare all’autore una fama oltraggiosa, quella di freddo egoista, tanto che ora si dubita perfino della sua sensibilità. Nessuno è intervenuto in difesa del riso. Io sono il commediografo, l’ho servito onestamente e perciò adesso devo ergermi in sua difesa. No, il riso è molto più importante e profondo di quanto non si pensi. Non quello generato da un’irritazione effimera, dalla bile, da certe disposizioni morbose del carattere, e nemmeno il riso leggero che accompagna l’ozio e il divertimento; parlo del riso che sorge dalla limpida natura dell’uomo, dove è racchiusa la sua sorgente eternamente viva, e va al fondo delle cose, portando alla luce quello che altrimenti scivolerebbe via inosservato, e mostrandoci quella meschinità e vanità della vita che senza la forza del suo intuito non ci spaventerebbero come, invece, ci spaventano.”
(Gogol’, “All’uscita da teatro dopo la rappresentazione di una nuova commedia”, estratto contenuto nella prefazione a “L’ispettore generale”, ed. Garzanti)

“Le straordinarie avventure di Julio Jurenito” (Il’ja Erenburg)

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“In seguito si innamorò di Njura, una ragazza dagli occhi celesti, figlia di un impiegato delle poste, i cui tratti caratteristici erano quattro boccoli a forma di salsicciotti, un medaglione con l’immagine di un gattino e una passione sfegatata per la cioccolata al pistacchio. L’innamorato vagava senza meta, sospirando. Finalmente, dopo lunghi discorsi sulla propria solitudine e progressivi avvicinamenti alla ragazza sull’angusto divano, ne ottenne un bacio significativo. Lo assalirono quindi i primi dubbi. Per quanto sublime e seducente apparisse l’amore nelle opere dei migliori scrittori, per quanto dolci fossero le labbra tumide di Njura, molti aspetti lo lasciavano perplesso. Njura non era né Stëša né Marunja: aveva un padre e compagnia bella. In altre parole, bisognava sposarsi. Ma Njura non era nemmeno Beatrice, assetata di divino e di sacra ribellione: bisognava trovarle un impiego, altroché, e poi fasce e pannolini. I bambini, soprattutto. Ma si può forse leggere Nietzsche o Schopenhauer, con un marmocchio che ti frigna addosso?”

(Il’ja Erenburg, “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, ed. Meridiano Zero)

Non avevo mai letto alcun libro di Il’ja Erenburg e devo la sua conoscenza a Pablo Neruda, che me lo ha “presentato” nella sua autobiografia “Confesso che ho vissuto”, citandolo a più riprese. Grazie al poeta cileno ho così potuto scoprire la bellezza di un romanzo quale “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, un concentrato di satira, ironia, sarcasmo, un testo che è difficile definire un classico romanzo, perché è piuttosto una serie di quadri nei quali i protagonisti disquisiscono, con un certo beffardo cinismo ma non senza empatia per la debolezza umana, di argomenti quali la religione, i totalitarismi, l’amore, la religione, il sesso, insomma di tutto e di più.

Julio Jurenito è fautore di una non-filosofia di vita, un nichilismo volto a sovvertire l’ordine, un anarchico del pensiero che appare, quasi in veste da diavolo, a Erenburg stesso, in un caffè parigino. Capitolo dopo capitolo, il gruppo si espande, perché il Maestro, cioè Jurenito, assolda strada facendo una serie di personaggi strambi, quali Mister Cool, che vuole mettere su una società per azioni dedita alle missioni religiose, l’ingenuo senegalese Aisca, il mistico nichilista russo Tisin che cerca l’Uomo, il nullafacente romano Ercole Bambucci, e ancora Monsier Delhaie, che vuole costruisce una necropoli universale, per finire con Schmidt, studente tedesco dall’aberrante razionalità.

Assieme a codesti strampalati compagni di viaggio, il Maestro Julio attraversa il periodo che va dal 1913 al 1921 (anno in cui Erenburg scrisse il romanzo), ovvero un’epoca contrassegnata dalla violenza di una guerra mondiale e della Rivoluzione russa. Il libro, dunque, non è solo una carrellata di assurde e umane debolezze, ha un substrato ben più drammatico, ma la penna di Erenburg è comunque dissacrante, così che, in sostanza, si sorride, anzi si ride spesso, sia pure con la consapevolezza che, probabilmente, si sta ridendo per non piangere.

“Ci si adegua al tono generale” (Denis Diderot)

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“Il fatto è che volenti o nolenti ci si adegua al tono generale; che prendendo parte a una riunione, capita di solito persino di atteggiare i tratti del proprio viso in armonia con quelli delle facce che si scorgono nel varcare la soglia di una casa; che, essendo di cattivo umore, si simuli un’allegra disposizione di spirito e, per contro, un’aria grave quando ci si sentirebbe in vena di piacevolezze; non ci si vuole, insomma, sentire estranei nei confronti di alcuno; e così il letterato fa politica, il politico metafisica, il metafisico diventa moralista, il moralista discute di finanza, il finanziere di belle lettere o di geometria e ciascuno, piuttosto che tacere o limitarsi ad ascoltare, va sproloquiando su tutto ciò di cui non sa nulla tra la noia generale sopportata per sciocca vanità o per buona educazione.”
(Denis Diderot, “Questo non è un racconto”, Ed. Est)

“I fratelli Tanner” (Robert Walser)

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“Perché mai tutta questa gente, scrivani e contabili, perfino fanciulle nella più tenera età, entrano dallo stesso portone nello stesso edificio per scarabocchiare, provare le penne, per calcolare e gesticolare, per sgobbare e soffiarsi il naso, per temperare matite e portare in giro carte? Lo fanno forse volentieri, lo fanno per necessità, lo fanno con consapevolezza di compiere qualcosa di ragionevole e di proficuo? Vengono tutti dalle direzioni più diverse, alcuni arrivano perfino da lontano, in ferrovia, aguzzano le orecchie, per sentire se c’è ancora tempo di fare una passeggiatina prima d’entrare, sono pazienti come un gregge di agnelli, quando si fa sera tornare a sparpagliarsi ognuno nella propria direzione e l’indomani alla stessa ora si ritrovano di nuovo tutti. Si vedono, si riconoscono dall’andatura, dalla voce, dal modo di aprire una porta, ma hanno poco a che fare l’uno con l’altro. Si assomigliano tutti eppure sono tutti estranei, e se uno di loro muore oppure compie un’appropriazione indebita se ne meravigliano per una mattinata, e poi ogni cosa va avanti come prima. Capita che a qualcuno venga un colpo apoplettico mentre sta scrivendo. A cosa gli è servito avere ‘lavorato’ cinquant’anni nell’azienda? Per cinquant’’anni è entrato e uscito ogni giorno dalla stessa porta, ha usato centinaia e migliaia di volte nelle sue lettere commerciali gli stessi giri di frase, ha cambiato diversi vestiti e si è spesso meravigliato di quante poche scarpe consumava in un anno. E ora, si può forse dire che abbia vissuto? E non vivono così migliaia di persone? Forse sono i suoi figli del contenuto della vita, forse sua moglie è stata la luce della sua esistenza? Può darsi.”

(Robert Walser, “I fratelli Tanner”, ed. Adelphi)

Nel risvolto di copertina de “I fratelli Tanner”, è riportata una breve frase di Kafka, tra i primi ed entusiasti lettori del romanzo di Walser. Descrivendone il protagonista, Simon Tanner, Kafka ci dice che “corre dappertutto, e alla fine non diventa nulla, se non una gioia del lettore”. Sfogliando il romanzo, ho sorriso nell’immaginare Kafka alle prese con lo stesso, oltre cent’anni fa, in un altro posto del mondo, in un’altra lingua, con pensieri nel cuore così diversi dai miei, eppure, forse, per qualche minuto almeno, seduto anche lui sulla “mia” panchina. Prescindendo da questi pensieri surreali, devo dire che “I fratelli Tanner” ha confermato le ottime impressioni che avevo avuto su Walser in passato, sebbene in alcuni passaggi mia parso un po’ ridondante. Per essere ancora più bello, insomma, forse avrebbe dovuto essere tagliato qua e là, ma sono dettagli e può darsi anche che invece sia proprio la prolissità di alcune scene a dare il giusto colore al resto.

Simon Tanner è un antieroe, un fannullone di natura che però cerca, trova e abbandona un lavoro dopo l’altro, perché si sente oppresso dalla banale ripetitività dei lavori stessi e preferisce assecondare la sua natura di perdigiorno, discutendo con estranei incontrati per strada, fantasticando soliloqui in mezzo alla natura, provando la gioia di sentirsi debitori verso il mondo anche se è pressoché nullatenente. All’inizio del romanzo, troviamo Simon da un libraio, tanto intraprendente e volitivo nel chiedere il lavoro, quanto rapido nello stancarsene dopo pochi giorni. Kafka ha scritto che Simon alla fine “non diventa nulla” e non v’è dubbio che proprio in questo debba essere consistito il fascino di questo romanzo ai suoi occhi. Simon Tanner è un personaggio che non prova rancore verso nessuno, che spande la sua stramba e altalenante felicità per il mondo, che non scava nel proprio abisso perché non è una creatura dostoevskiana, e questo, se da un lato ci fa scorrere il libro con una certa serenità, dall’altro ci fa anche sentire una certa mancanza, quasi che, alla lunga, dopo un certo numero di pagine, ci si possa stancare del disincanto e dell’assenza di rancore del protagonista.

Ritorno alla Natura? (da Julio Cortázar)

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(Ogni tanto provo a “immergermi nella Natura”, ad esempio approcciando le piante sul balcone di casa, ma dopo un po’ mi stanco, è più forte di me. La penso come Cortázar, almeno per l’85-86 % di queste sue parole)

“In quest’epoca di ritorno spregiudicato e turistico alla Natura, in cui i cittadini guardano alla vita di campagna come Rousseau guardava il buon selvaggio, hanno più che mai la mia solidarietà: a) Max Jacob, il quale in risposta a un invito a trascorrere il fine settimana in campagna, disse fra lo stupefatto e il terrorizzato: <<La campagna, quel luogo dove i polli vanno in giro crudi?>>; b) il dottor Johnson, che a metà di un’escursione nel parco di Greenwich espresse energicamente la sua preferenza per Fleet Street; c) Baudelaire, che portò l’amore per l’artificiale fino alla nozione stessa di paradiso.

Un paesaggio, una passeggiata nel bosco, un tuffo in una cascata, un sentiero fra le rocce, possono appagarci esteticamente soltanto se ci è assicurato il ritorno a casa o in albergo, la doccia lustrale, la cena e il vino, la chiacchierata dopocena, il libro o le carte, l’erotismo che tutto riassume e ricomincia.

Diffido degli ammiratori della natura che di tanto in tanto scendono dall’auto per contemplare il panorama e per fare quattro o cinque saltelli fra i picchi; quanto agli altri, quei boy-scouts a vita che hanno l’abitudine di girovagare sotto enormi zaini e smisurate barbe, le loro reazioni sono principalmente monosillabiche o esclamative; tutto sembra consistere nel rimanere mille volte come stupidi dinanzi a una collina o a un tramonto che sono le cose più ripetute al mondo.

I civilizzati mentono quando cadono in deliquio bucolico; se manca loro lo scotch on the rocks delle sette e mezzo di sera, malediranno il minuto in cui hanno abbandonato casa propria per andare ad esporsi a tafani, insolazioni e spine; quanto ai più in armonia con la natura, sono tanto stupidi quanto lei. Un libro, una commedia, una sonata, non necessitano né di ritorno né di doccia; è lì dove raggiungiamo le nostre vette, dove siamo il più che possiamo essere. Ciò che cerca l’intellettuale o l’artista quando si rifugia in campagna è tranquillità, lattuga fresca e aria ossigenata; con la natura che lo circonda per ogni dove, lui legge o dipinge o scrive nella perfetta luce di una stanza ben orientata: se esce a passeggio o si affaccia a osservare gli animali o le nubi, è perché si è stancato di lavorare o di oziare. Non ti fidare, caro mio, della contemplazione di un tulipano quando il contemplatore è un intellettuale. Lì non c’è altro che tulipano + distrazione, o tulipano + meditazione (quasi mai sul tulipano). Non troverai mai uno scenario naturale che resista più di cinque minuti a una contemplazione impegnata, mentre invece sentirai abolirsi il tempo nella lettura di Teocrito o di Keats, soprattutto in quei brani dove compaiono scenari naturali. Sì, Max Jacob aveva ragione: i polli, arrosto.” Continua a leggere…

Parole utili

(Dal “Dizionario dei luoghi comuni” di Gustave Flaubert, ho scelto per voi amabili lettori alcune parole che, ne sono certo, potranno esservi utili nel corso del fine settimana.)

ATEO. Un popolo di atei non potrebbe sussistere.

AVVOCATO. Ci sono troppi avvocati alla Camera. Hanno il giudizio deformato, perché perorano il pro e il contro. Vengono consultati su qualsiasi cosa, anche su ciò che non conoscono. Di un avvocato che parla male, dire: <<ma è forte in Diritto>>.

CONCUPISCENZA. Termine da curato per designare i desideri carnali.

DIDEROT. Sempre seguito da <<d’Alembert>>.

EGOISMO. Lamentarsi di quello degli altri e non accorgersi del proprio.

GIOIA. Sempre accompagnata da <<pazza>>. Gli amici della franca gaiezza.

ILLUSIONI. Affettare di averne nutrite molte. Rimpiangere di averle perdute.

IMBECILLI. Tutti quelli che non la pensano come noi.

IMMORALITÀ. Se ben pronunciata, è una parola che dà prestigio a chi ne fa uso.

ITALIANI. Tutti traditori.

LIBERTINAGGIO. Si vede solo nelle grandi città.

MATERIALISMO. Pronunciare questa parola con orrore scandendone ogni sillaba.

NATURA. <<Com’è bella la Natura!>>, dirlo ogni qual volta ci si trovi in campagna.

“Il concerto”

“Lo Scienziato aveva promesso al Chiacchierone di portarlo a un concerto del Cantore. Il Chiacchierone amava le canzoni del Cantore, ma non tanto da perderci la testa. Era però curioso di vedere com’era fatto l’autore delle famose canzoni e il suo giro. Accettò dunque volentieri l’invito dello Scienziato. Il concerto era stato rinviato più di una volta. Poi corse voce che il Cantore doveva partire. Poi corse un’altra voce: che stavano per scacciarlo. Fu poi chiarito che non aveva questa gran voglia di partire, né si aveva tante intenzioni di lasciarlo andare. Insomma, tutto rimase nella situazione precedente, solo assai peggio di prima. Il concerto era stato organizzato in periferia, in una casa privata. La gente vi penetrava come fosse un rapporto clandestino. L’appartamento era invaso da un mucchio della più varia gente. Predominavano i giovani, barbuti ragazzi in maglione e donne non del solito tipo. C’era tanto di quel fumo che a fatica il Chiacchierone riuscì a scorgere il Cantore, in un angolo della stanza. Dinanzi a lui stavano un tavolinetto, delle bottiglie, del salame e un microfono. La gente aveva l’aria di cospiratori o di appartenenti a sette religiose segrete. Tutto dava un’impressione di povertà, come si partecipasse a qualche mistero mortificante, di cui vergognarsi. Il Cantore cantò delle vecchie canzoni, che il Chiacchierone aveva inteso più volte. Ma l’impressione era pur sempre conturbante. Tutta la notte il Chiacchierone non riuscì a dormire, in preda a un’inspiegabile inquietudine. La stessa cosa dovevano provare i primi cristiani quando si riunivano nelle catacombe, andava pensando. Cos’era mai? Una setta? Arte sopraffina? Una messa? In un primo momento gli era parso che il Cantore non avesse assolutamente nulla in comune col suo modesto pubblico. Ma subito dopo aveva capito che si trattava di un errore. Osservando più attentamente le persone, aveva visto le facce intelligenti, da gente colta. Non foss’altro lo Scienziato! A venticinque anni è già dottore in scienze, si è già fatto un nome! E io stesso, del resto, devo esser sembrato loro un mentecatto! Gli parve allora che fosse il Cantore a non essere all’altezza del pubblico. Ma anche stavolta sbagliava, e lo capì ancora prima di aver finito di formulare dentro di sé il proprio pensiero. E l’inquietudine lasciò il posto all’angoscia e allo spavento.” 

(Aleksandr Zinov’ev, “Cime abissali”, ed. Adelphi)

L’intellettuale (come sostantivo)

“La scuola era il centro della sua vita. Prima di andare al Barnard non aveva mai sentito adoperare il vocabolo intellettuale come sostantivo, e ne rimase molto colpita. Era un sostantivo coraggioso, un sostantivo orgoglioso, un sostantivo che evocava una consacrazione perpetua ad argomenti elevati e un freddo disprezzo per le banalità. Un’intellettuale poteva anche perdere la verginità con un soldato nel parco, ma poteva imparare a ricordarlo con un distacco ironico e divertito. Un’intellettuale poteva anche avere una madre che lasciava vedere le mutande quando si ubriacava, ma non permetteva che la cosa le desse fastidio. E poteva anche darsi che Emily Grimes non fosse ancora un’intellettuale, ma se prendeva una quantità di appunti anche alle lezioni più monotone, e se ne stava ogni sera a leggere finché gli occhi non le dolevano, era solo una questione di tempo prima che lo diventasse. C’erano delle compagne di corso, e perfino qualche ragazzo della Columbia, che la consideravano già un’intellettuale, anche solo dal suo modo di parlare.

– Non è soltanto una noia, – disse una volta di un tedioso romanzo del Settecento – è una noia perniciosa.

E non poté fare a meno di notare che nei giorni seguenti diverse altre ragazze dello studentato fecero ampio uso del vocabolo pernicioso.

Ma essere un’intellettuale era molto più che un modo di parlare, molto più che comparire ogni semestre nella lista degli studenti con i punteggi più alti, o trascorrere tutto il tempo libero nei musei e ai concerti e nei cinema che davano quel genere di film di solito definiti <<pellicole>>. Bisognava imparare a non ammutolire quando si metteva piede a una festa di intellettuali conclamati, più anziani – e a non commettere l’errore opposto chiacchierando a perdifiato, sparando stupidaggini o stramberie a raffica nel tentativo di fare ammenda per la stupidaggine o la stramberia detta due minuti prima. E se ci si rendeva ridicoli a feste del genere, bisognava imparare a non rigirarsi nel letto, più tardi, in preda ai tormenti dello sconforto.

Bisognava essere seri, ma – questo era l’esasperante paradosso – bisognava dare a vedere che non si prendeva mai nulla sul serio.”

(Richard Yates, “Easter Parade”, ed. minimum fax)

“Anime morte” (Gogol’)

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“Oggigiorno da noi tutti i gradi e i ceti sono così irritabili, che qualunque cosa appaia in un libro stampato sembra loro un affronto personale: dev’essere una tendenza che è nell’aria. Basta soltanto dire che in una città c’è un uomo stupido, e già è un affronto personale; a un tratto salterà fuori un signore dall’aria rispettabile e si metterà a urlare: <<Anch’io sono un uomo, dunque anch’io sono stupido>>, insomma, capirà al volo di che si tratta. E perciò, per evitare tutto questo, chiameremo la signora da cui era arrivata la visitatrice nel modo in cui veniva chiamata quasi unanimemente nella città di N.: e cioè una signora amabile da tutti i punti di vista. Si era guadagnata a buon diritto questo appellativo, poiché, davvero, non aveva badato a sacrifici per rendersi simpatica al massimo grado; benché, naturalmente, attraverso la simpatia trapelasse, ohi! quale pepato caratterino femminile! e benché talvolta in ogni sua parola amabile, spuntasse, ohi! quale spillone! E Dio ci scampi da ciò che le ribolliva in cuore contro colei che riusciva in qualche modo e in qualche campo a primeggiare. Ma tutto era ammantato dal più fine savoir-faire che si possa trovare in un capoluogo di governatorato. Essa eseguiva ogni movimento con gusto, amava perfino la poesia, talvolta sapeva perfino tenere il capo in atteggiamento sognante – e tutti erano d’accordo nel dire, appunto, che era una signora amabile da tutti i punti di vista. L’altra signora, invece, cioè la visitatrice, non aveva un carattere così poliedrico, e perciò la chiameremo: una signora semplicemente amabile.” Continua a leggere…

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