Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“La tempesta” (William Shakespeare)

la tempesta

“Mi pare, figlio mio,
che tu sia agitato come da paura:
non temere. Il nostro gioco è finito.
Gli attori, come dissi, erano spiriti,
e scomparvero nell’aria leggera.
Come l’opera effimera del mio
miraggio, dilegueranno le torri
che salgono su alle nubi, gli splendidi
palazzi, i templi solenni, la terra
immensa e quello che contiene; e come
la labile finzione, lentamente
ora svanita, non lasceranno orma.
Noi siamo di natura uguale ai sogni,
la breve vita è nel giro d’un sonno
conchiusa.
Sono turbato, signore: perdono,
sono debole, la mia vecchia mente
vacilla. Non vi agitate per questa
mia sofferenza. Se volete, intanto,
andate nella grotta a riposare;
io farò qualche passo qui d’intorno
per calmare lo spirito sconvolto.”
(William Shakespeare, “La tempesta”, ed. Oscar Mondadori, traduzione di S. Quasimodo.)

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“Il mondo del sesso” (Henry Miller)

“Noi continuiamo ad immaginarci che il mondo sia fatto così e così. Ci muoviamo sbadatamente sullo sfondo di un panorama che cambia caleidoscopicamente. E in questo sbadato arrancare, ci tiriamo dietro molte immagini d’attimi di esistenza passata. Finché non incontriamo ‘lei’. Improvvisamente il mondo non è più lo stesso. Tutto è cambiato. Ma come può cambiare in un batter d’occhio il mondo intero? È un’esperienza che abbiamo fatto tutti, eppure non serve a portarci più vicino alla verità. Continuiamo a bussare alla porta… Ho visto una volta un ritratto di Rubens all’epoca del matrimonio con la sua giovane moglie. Erano raffigurati insieme, lei seduta e lui in piedi dietro di lei. Non dimenticherò mai l’impressione fattami da quel quadro. Fu come dare una lunga occhiata nel mondo della felicità. Mi sembrava di sentirlo, il vigore di quel Rubens nel fior della vita; di sentire la fiducia che la sua giovanissima e amabilissima consorte destava in lui. Intuivo che doveva essere successo qualcosa di intimamente irresistibile, qualcosa che il Rubens pittore si era sforzato di fissare per sempre in quel quadro di felicità coniugale. Non conosco la biografia di Rubens e perciò non so se con quella donna abbia poi vissuto felice o no. Quel che successe dopo il momento fissato in quel dipinto, non m’importa. Il mio interesse sta tutto in quel momento che mi ha turbato e ispirato. Resta incancellabile nella mia mente.
E allo stesso modo io so che certe cose, che ho consegnato alla pagina scritta, sono vere e imperiture. Quel che è successo dopo, a me o a «lei», ha poca importanza.”
(Henry Miller, “Il mondo del sesso”, ed. Arnoldo Mondadori editore)

“Nel mondo della fantasia…” (da Sherwood Anderson)

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“Per l’uomo che nel mondo moderno usi l’immaginazione, c’è una cosa ben chiara fin dall’inizio. La vita si spezza in due e non importa quanto a lungo si viva e dove, le due estremità continueranno a ciondolare, penzolando nel vuoto.

A quale delle due vite, vissute con un solo corpo, bisogna dedicarsi? Dopotutto, c’è una qualche libertà di scelta.

C’è la vita della fantasia. In essa talvolta ci si muove con un piano stabilito, in una sequenza di giorni o perlomeno di ore. Nella vita della fantasia non ci sono cose come bene o male. Non ci sono Puritani. Le aride sorelle della Filistia non bussano alla porta. Il Puritano, il riformatore che ammonisce i Puritani, gli aridi intellettuali, tutti quelli che desiderano elevarsi, rifare la vita in base a un qualche piano preciso e concepito con il cervello umano, muoiono di malattia polmonare. Farebbero meglio a rimanere nel mondo dei fatti e impiegare le proprie energie per catturare i contrabbandieri, inventare nuove macchine, aiutare l’umanità – meglio che possono – nella sua senza dubbio lodevole ambizione di scagliare dei corpi nell’aria a cinquecento miglia orarie.

Nel mondo della fantasia, la vita si separa in movimenti lenti ed è fatta di molte sfumature che vanno dal brutto al bello. Ciò che è vivo è opposto a ciò che è morto. L’aria della stanza in cui viviamo è dolce per le narici o è avvelenata di stanchezza? Alla fine deve diventare una cosa o l’altra.

Tutta la moralità a quel punto diventa un semplice problema di estetica. Ciò che è bello deve portare una gioia estetica; ciò che è brutto deve procurare una tristezza e una sofferenza estetiche.

Oppure si può diventare, come fanno molti giovani americani, un saccente, privo di umiltà davanti alle possibilità della vita, sicuro di sé. E così alla fine si rischia di rimanere ciechi, sordi e muti, senza sentire e vedere niente: Molti dei nostri intellettuali pensano che questa sia la strada più comoda da percorrere.

Nel mondo della fantasia, dovete capire, nessun uomo è brutto. L’uomo è brutto soltanto nella realtà. Ah, ecco la difficoltà!”

(Sherwood Anderson, “Storia di uno scrittore di storie”, ed. Mattioli)

“La vita breve” (Juan Carlos Onetti)

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“Possiamo parlare? Sì, naturalmente: possiamo parlare. La fiducia e la comprensione, eccetera. Ma se possiamo parlare, non m’interessa più. Se io posso dire ogni cosa, ogni cosa non ha altra meta che la tua intelligenza. Se io parlo e tu capisci ogni cosa, non capirai ciò che io potrei volere che tu capissi. Per capirmi, veramente, bisognerebbe che tu fossi così infuriato, che ti sarebbe impossibile capirmi. E neanche a me importa. Mi pare di star parlando a un cadavere; ma a un cadavere che può ragionare senza sbagliarsi. Il fatto è che l’amore è finito, Juanicho. Lo sappiamo, lo abbiamo ripetuto tante volte, che l’amore è comprensione. E tuttavia, dura soltanto finché non possiamo capire completamente, finché possiamo prevedere con timore la sorpresa, lo sconcerto, la necessità di cominciare a capire, di nuovo, dal principio. Juanicho, comincio a sentire, come si sente il trascorrere degli anni, che i piedi si stanno intirizzendo. E così, la sorgente della mia gioia non è qui e non sei tu?”

(Juan Carlos Onetti, “La vita breve”, ed. Einaudi)

Nello scrivere le mie impressioni su “La vita breve” di Juan Carlos Onetti, affermo subito che è uno dei più bei libri che abbia letto negli ultimi anni, una lettura appagante, coinvolgente, affascinante che consiglio a tutti, un viaggio alla scoperta del potere rigenerante della fantasia, ma anche del pericolo di confondere mondi immaginati con quello “reale” che viviamo.

Il protagonista nonché narratore è Juan Maria Brausen, che sta per essere licenziato dall’agenzia pubblicitaria per la quale lavora e alla cui moglie Gertrudis è stato appena asportato un seno. Il rapporto con la donna, con il passar dei giorni, diventa sempre più difficile, essendo l’uomo incapace di nascondere il senso di pietà che lo pervade verso la compagna, ormai più potente di ogni desiderio. Impossibilitato o senza la volontà necessaria per risolvere le sue beghe coniugali e lavorative, Brausen, dovendo scrivere una sceneggiatura, si lascia trasportare dall’impeto creativo, Continua a leggere…

“Gran conforto: un sogno in cambio del vero.”

GENIO. Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata o pensarne?

TASSO. Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.

GENIO. Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.

TASSO. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi immaginavamo?

GENIO. Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qua! cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi meraviglia che gli uomini siano uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non siano angeli.

TASSO. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.

GENIO. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non ti venne mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso, ti metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.

TASSO. Gran conforto: un sogno in cambio del vero.

GENIO. Che cosa è il vero?

TASSO. Pilato non lo seppe meno di quello che so io.

GENIO. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai.

TASSO. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto vale un diletto vero?

GENIO. Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in un sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne trae…

(Giacomo Leopardi, “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”)

Dimenticare l’astrazione (da “Centuria” di Manganelli)

magritte bacio

(A chi dimentichiamo, a chi cerchiamo di dimenticare, a chi, senza volto, ci è impossibile dimenticare. Ho letto almeno tre volte di fila il paragrafo quarantadue da “Centuria” di Giorgio Manganelli. La prima ‘solo’ leggendo, la seconda pensando, forse per contrasto o forse chissà, al quadro di Magritte, la terza aggiungendo la canzone dei Rem come colonna sonora. Però poi sono riuscito ad andare avanti, tranquilli)

“Un uomo sta cercando di dimenticare una donna; non è una situazione eccezionale, non fosse il fatto che egli non ama quella donna. Una donna cerca di dimenticare un uomo, anche essa un uomo che non ama. Non hanno avuto alcun rapporto amoroso, nemmeno erroneo, non si sono fatte dichiarazioni, ma forse hanno fatto delle ipotesi e dei progetti putativi. Le ipotesi tenevano sempre conto del fatto che l’uomo e la donna non si amavano, e tuttavia erano delle ipotesi che riguardavano la donna e l’uomo. Hanno parlato di molte cose indifferenti, e di talune cose importanti ma estremamente generiche. No, forse astratte sarebbe la parola più esatta. Così, entrambi si sono irretiti in un gioco inconsistente di astrazioni, affettivamente deserte, ma la cui potenza mentale è intensa. Dunque, cercando di dimenticare le astrazioni? Essi sanno che non è così. Il loro cruccio è di averne parlato fra loro, in una condizione di assoluto disamore, compiendo un gesto in qualche modo illecito, e che tuttavia ormai li riguarda. Si sono confessati, ridendo, di sentirsi complici casuali di un delitto che, in fondo, era estraneo ad entrambi: ma in realtà quel delitto estraneo li interessava enormemente. Infatti, ora la loro vita è molestata dal transito di figure astratte, di ipotesi inafferrabili, che non riescono né a sciogliere né a rendere compatte: ciascuno dei due ha passato all’altro le proprie astrazioni, e per una bizzarria non rara ma raramente tanto minuziosamente lavorata, le astrazioni hanno formato un sistema, si sono saldate in un trama che, ora, li lega, sebbene essi si sentano, ad ogni altro livello, del tutto estranei. Ma la loro stessa estraneità fa parte, è anzi uno dei centri, o forse semplicemente il centro, di quella macchina di astrazioni dalla quale entrambi sono travolti. Essi, che non sono passionali, hanno avuto la strana sorte di essere sospinti verso una esperienza passionale che non tocca né il corpo, né le parole, né il futuro, né il passato. Lentamente, opponendo astrazione ad astrazione, essi erodono l’immagine dell’altro; ma temono che, cancellata l’immagine, espulsa dalla propria vita la figura dell’altro, resterà quella trama della passione astratta, quella bizzarria del destino, che, essendo senza volto, è impossibile dimenticare.”  

(Giorgio Manganelli, “Centuria”, ed. Adelphi)

Doppio sguardo, una sorta di felicità

Mentre ero su un autobus provinciale, guardando il mio e l’altrui riflesso nel vetro del finestrino, mi è tornato alla mente un breve racconto di Julio Cortázar, ambientato nel vagone di una metropolitana e nel quale l’autore descrive, in una decina di pagine, un “gioco” che il protagonista svolge con l’inconsapevole complicità dei passeggeri e soprattutto delle passeggere. Di seguito l’inizio del racconto.

“Adesso che lo scrivo per altri tutto ciò potrebbe esser stato la roulette o l’ippodromo, ma quel che cercavo non era denaro, a un certo momento avevo cominciato a sentire, a decidere che un vetro del finestrino del metro poteva portarmi la risposta, l’incontro con una sorta di felicità, esattamente qui dove tutto avviene sotto il segno della più implacabile rottura, entro un tempo sotto terra che un tragitto fra stazione e stazione disegna e limita così, inappellabilmente sotto. Dico rottura per comprendere meglio (dovrei comprendere un sacco di cose da quando ho iniziato a giocare il gioco) quella speranza di una convergenza che forse mi sarebbe stata data dal riflesso in un vetro di finestrino. Superare la rottura che la gente non sembra avvertire sebbene vai a sapere che cosa pensa questa gente affaticata che sale e scende dai vagoni del metro, quel che cerca oltre il trasporto questa gente che sale prima o dopo per scendere dopo o prima, che solo si trova in una zona del vagone dove tutto è deciso in precedenza senza che nessuno possa sapere se usciremo insieme, se io scenderò per primo oppure quell’uomo magro con un rotolo di carte, se la signora anziana in verde continuerà fino al capolinea, se quei bambini scenderanno ora, è evidente che scenderanno perché raccattano quaderni e righe, si avvicinano ridendo e giocando alla porta mentre là nell’angolo una ragazza si sistema per restare, per rimanere ancora molte stazioni sul sedile finalmente libero, e quell’altra ragazza è imprevedibile, Ana era imprevedibile, si manteneva molto eretta contro lo schienale sul sedile, dalla parte del finestrino, era già là quando salii alla stazione Étienne Marcel e un negro abbandonò il sedile di fronte e parve che la cosa non interessasse nessuno e io potei scivolare con una scusa qualsiasi fra le ginocchia dei due passeggeri seduti dalla parte del corridoio e mi trovai di fronte ad Ana e quasi subito, perché ero sceso nel metro per giocare ancora una volta al gioco, cercai il profilo di Margrit nel riflesso del vetro del finestrino e pensai ch’era carina, che mi piacevano i suoi capelli neri con una specie di breve ala ad acconciarle in diagonale la fronte.

Non è vero che il nome di Margrit o Ana sorgesse in seguito o che sia ora un modo di distinguerle nella scrittura, cose come questa si davano per decise istantaneamente nel gioco, voglio dire che in alcun modo il riflesso nel vetro del finestrino poteva chiamarsi Ana, così come non poteva neppure chiamarsi Margrit la ragazza seduta di fronte a me che non mi guardava e aveva lo sguardo smarrito nella noia di quell’interregno in cui tutti paiono consultare una zona di visione che non è quella circostante, eccetto i bambini che fissano e in pieno le cose fino al giorno in cui gli viene insegnato a collocarsi anch’essi begli interstizi, a guardare senza vedere con quell’ignoranza civile di ogni vicina apparenza, di ogni possibile contatto, ognuno installato nella propria bolla d’aria, allineato fra parentesi, preoccupato dal perdurare della minima aria libera fra ginocchia e gomiti altrui, rifugiandosi in <<France Soir>> o in libri tascabili, sebbene quasi sempre come Ana, occhi collocati nel vuoto fra quanto è veramente visibile, in quella distanza neutra e stupida che andava dalla mia faccia a quella dell’uomo concentrato nel <<Figaro>>. Ma allora Margrit, se qualcosa potevo prevedere era che a un certo punto Ana si sarebbe voltata distratta verso il finestrino e allora Margrit avrebbe visto il mio riflesso, l’incrociarsi degli sguardi nelle immagini di quel vetro in cui l’oscurità della galleria pone il suo mercurio attenuato, la sua felpa violetta e mobile che dà alle facce una vita su altri piani, gli toglie quell’orribile maschera di gesso delle luci municipali del vagone e soprattutto, oh sì, non avresti potuto negarlo, Margrit, fa guardare davvero quell’altra faccia del vetro perché durante il tempo istantaneo del doppio sguardo non esiste censura, il mio riflesso nel vetro non era l’uomo seduto di fronte ad Ana e che Ana non doveva guardare apertamente in un vagone di metro, e inoltre colei che stava guardando il mio riflesso non era Ana ma Margrit nel momento in cui Ana rapidamente aveva sviato gli occhi dall’uomo seduto di fronte a lei perché non stava bene guardarlo, voltandosi verso il vetro del finestrino aveva visto il mio riflesso in attesa di quell’attimo per poter sorridere lievemente senza alcuna insolenza o speranza quando lo sguardo di Margrit fosse caduto come un uccello nel suo sguardo. Durò forse un secondo, forse un po’ di più perché sentii che Margrit aveva avvertito quel sorriso che Ana condannava non fosse altro che con il solo gesto di chinare il viso, di esaminare vagamente la chiusura della borsa di pelle rossa; ed era quasi giusto continuare a sorridere anche se Margrit ormai non mi guardava più perché in un certo senso il gesto di Ana accusava il mio sorriso, continuava a sentirlo e non occorreva più che lei o Margrit mi guardassero, meticolosamente comprese nel provare la chiusura della borsa…”

(Julio Cortázar, estratto da “Manoscritto trovato in una tasca”, in “I racconti”, ed. Einaudi)

Astrazione

http://www.treccani.it/vocabolario/astrazione/

“…nonostante ciò ho saputo conservare un certo senso dell’umorismo e specialmente una notevole capacità d’astrazione, voglio dire che se un tizio non mi piace lo cancello immediatamente, e mentre lui parla e parla io passo a Melville, e intanto quel disgraziato crede che lo stia ascoltando. Così, se mi piace una donna posso astrarle i vestiti non appena entra nel mio campo visivo, e mentre lei mi dice che oggi c’è un tempo infame, io trascorro lunghi minuti ad ammirarle l’ombelico. Qualche volta è quasi malsana questa mia dote.”

(Julio Cortázar, “Virtù dell’astrazione”, in “Racconti”, ed. Einaudi)

“Lo sguardo altrove” (per “Paesaggi sconosciuti”, mostra pittorica di Angelo Zuena)

Angelo 3

Dal prossimo 8 dicembre, fino al 6 gennaio 2015, a Itri (Lt), si terrà la mostra pittorica “Paesaggi sconosciuti”, nella quale saranno esposte alcune opere di Angelo Zuena.

Ho avuto l’onore e l’onere di scrivere qualcosa per il catalogo che esce in concomitanza con la mostra. Pubblico lo scritto anche qui sul blog, aggiungendo le parti che alla fine sono state risparmiate ai lettori del catalogo d’arte (le parti tagliate sono riconoscibili perché in corsivo e tra parentesi).

Aggiungo alcune foto dei quadri di Angelo Zuena e invito tutti gli interessati. Le date sono quelle indicate sopra; per gli orari, lo spazio d’esposizione sarà aperto al pubblico tutti i giorni, all’incirca tra le 17.00 e le 20.00.

LO SGUARDO ALTROVE

Da un po’ di tempo Angelo Zuena, per me, non è più “solo” un artista che vive nel mio stesso paese, ma anche un compagno di chiacchierate. Ho potuto conoscerlo, quindi, ma non abbastanza a fondo da comprendere cosa c’è dietro le sue opere, quali sono le ragioni ultime che lo spingono, da decenni, a dipingere. A pensarci bene, non credo nemmeno di averglielo mai chiesto, forse perché dubito che sia possibile, persino per lui, comprendere in pieno certe motivazioni.

Non ero mai stato nel suo studio ed entrandovi fui colpito dallo schieramento di colori, che per me erano solo oggetti dalle tinte differenti; per lui, invece, erano e sono materiale destinato alla metamorfosi, a vivificarsi fino allo sgorgare definitivo dell’opera che, sottolineò quel giorno, non è mai solo frutto di un’ispirazione momentanea, (di una visione improvvisa), bensì di un lavoro certosino, graduale, faticoso. Gli chiesi quanto tempo richiedesse l’esecuzione di un quadro e mi pentii all’istante di quella stupida domanda. Sapevo già, prima ancora che lui mi rispondesse, che l’elaborazione tecnica può essere più o meno complessa, ma fondamentale è il lungo percorso mentale che sfocia nei dipinti.

Scrutavo con curiosità e ammirazione i quadri da esporre, Angelo parlava, prendevo nota nella mia testa, elaboravo le sue parole e le mescolavo al mio pensiero; la mente umana, allora, mi parve il luogo ignoto per eccellenza, il fulcro attorno al quale ruotano tutti gli altri scenari, compresi quelli pittorici e letterari. La geografia di questi territori immaginari, di queste lande meravigliose o terrificanti, è imprecisa, avvolta nell’oblio tipico dei sogni. Situati in un immaginario altrove, pur non essendo un’impossibile evasione totale, rappresentano uno scostamento, un cambio di prospettiva, i cui tragitti sfumano, mutano, si mescolano, disegnando labirinti che destabilizzano.

(L’ignoto, tuttavia, non è solo ciò che avvertiamo come esterno, ma si manifesta anche nelle vesti di paure fondate sull’ambigua conoscenza del mondo interiore. Certi pensieri ci spaventano proprio perché sappiamo di esserne la causa, ma bisogna affrontare quelle zone d’ombra, non accantonarle quasi non esistessero, bensì frequentarle quel tanto che impedisca loro di crescere nel silenzio e, se possibile, sublimarle. Solo il nostro sguardo può permettere a qualche luce di filtrare tra le fronde degli alberi che rendono buio il paesaggio interiore.

Siamo su un balcone, a pochi centimetri dalla ringhiera, non abbiamo paura di cadere. Se, però, vediamo che la ringhiera non c’è, ci sembrerà molto più difficile restare a pochi centimetri dall’orlo, con il baratro dinanzi a noi. Ma se avessimo gli occhi chiusi, guidati da una voce amica che ci dice quando fermarci per non toccare la ringhiera, sapendo che la ringhiera c’è, anche se in realtà l’hanno tolta a nostra insaputa, proveremmo forse paura? E dunque, abbiamo più paura dell’ignoto o del già noto? Oppure non sono due aspetti scissi?)

Qualcuno però, ogni tanto, scopre una chiave che consente di districarsi in questi angusti territori. I più temerari, abili o semplicemente i più fortunati, si rintanano nel territorio sconosciuto per eccellenza, quello che non andrebbe nominato, ma solo vissuto, e che per comodità chiamiamo Amore. Cos’altro è, l’Amore, se non una (inesorabile, dolente, esaltante) discesa in un luogo che sappiamo di non conoscere e che pure, per una ragione che ci sfugge e che cerchiamo invano di comprendere, ci attrae? Vogliamo far parte di un mondo ignoto che l’Altro si porta dentro, e vorremmo anche che il nostro fosse conosciuto dall’Altro;  quando accade che i due mondi si mescolano, ecco sgorgare un panorama diverso, un nuovo modo di vedere le cose.

Più in generale, non è l’Altro un abisso insondabile, nel quale pure cerchiamo di riconoscere ciò che è già nostro e di scoprire ciò che invece ignoriamo? Anche il patto inconscio che sottoscrivono l’artista, la sua opera e i fruitori può raggiungere un certo grado d’intimità, ma non sfugge all’impossibilità di colmare quella lacuna che ci separa dall’Altro. Siamo così sicuri che l’artista, con quel dettaglio, abbia voluto descrivere (evocare) proprio quella sensazione che ci pervade leggendo un libro, ascoltando una canzone, guardando un film, osservando un quadro? Sarebbe assurdo pretendere quest’identità, sappiamo bene quanto di nostro immettiamo nell’opera; d’altra parte, lo stesso artista (Chi è artista? Quando lo si diventa? In una parentesi è bene non sfiorare nemmeno tali domande), una volta licenziata l’opera, sa bene che essa non è più solo sua, ma che l’interpretazione dello spettatore la sposta altrove.

Eppure, talvolta, toccate certe nostre corde interiori, percepiamo che quel distacco tra noi e l’Altro, nello specifico tra noi e l’artista, non è più così abissale, (e ci sentiamo affiancati a lui nell’osservare uno scorcio di mondo). Quando poi si ha la fortuna di conoscere personalmente un autore, allora si può osare e presumere, può darsi a torto ma anche no, di cogliere anche nelle opere alcuni tratti caratteriali che abbiamo avuto modo di intuire nel corso di chiacchierate lungo le strade del paese. Ho sentito, guardando le opere di Angelo, le agrodolci note della malinconia e della solitudine.

Una sera mi chiese cosa fosse per me l’arte, (io non ricordo con esattezza cosa risposi, forse) elusi la domanda, perché, anche se dentro di me sentivo di avere una risposta, sapevo che non poteva essere né esaustiva né appagante. Si trattava di uno di quegli interrogativi ai quali mi è sempre parso estremamente difficile rispondere, (e che studiosi di diversa formazione sviscerano da secoli, con efficacia talvolta sublime ma mai definitiva). Un territorio labile sotto i nostri piedi, che s’intreccia con quello dove alloggia la Bellezza, altra parola sfuggente, altro labirinto nel quale tentiamo di orientarci e che ci lascia smarriti (di fronte all’impossibilità di trovare parole adeguate a comunicare in pieno ciò che sentiamo quando, per l’appunto, ci sorprendiamo ammaliati dalla Bellezza). Perché anche la Bellezza è un paesaggio sconosciuto, nel quale c’inoltriamo con la paura che non mantenga la sua promessa di felicità. E poi, a quale Bellezza aspiriamo, a quella dell’uomo, della natura, a quella fisica o spirituale, e su quali arbitrari criteri distinguiamo queste presunte diverse manifestazioni del Bello? Inoltre, non è forse il caso di prendere atto che nel paesaggio della Bellezza è insito anche il Brutto, che le cose non sono così scindibili? Il terreno si fa sempre più paludoso e rischiamo di restarne avvinghiati, e allora, a un certo punto, è bene fermarsi, respirare, scrutare quest’orizzonte indistinto senza pretendere di scoprirne i segreti più nascosti, perché comunque, dovremmo averlo capito, nessuno potrà mai svelarcene la totalità.

A questo punto, voltandomi indietro, mi accorgo che la pagina bianca non è più tale, si è trasformata anch’essa in un paesaggio sconosciuto. Inquieto, prima di uscire da questo suolo fluttuante, potrei agganciarmi a qualcosa. Per esempio, potrei chiedere ad Angelo che cos’è per lui l’arte oggi, confrontare la sua opinione con la mia, ma sono quasi certo che non lo farò, o almeno lo farò fuori dal paesaggio nel quale sto scrivendo, perché so che si tratterebbe di esprimere un’opinione azzardata, di cristallizzarla in una forma scritta destinata a sciogliersi il giorno seguente. In quanto ad Angelo Zuena, la risposta alla domanda che non gli farò l’ha già data in tutti questi anni. Non c’è niente da dire, tutto è nelle sue opere, (nei suoi paesaggi sconosciuti.)

Angelo 1

Angelo 4

Angelo 2

“Le città invisibili” (Italo Calvino)

citta_invisibili

Sto leggendo “Le città invisibili” di Italo Calvino. L’inizio non mi ha entusiasmato, ma poi è stato un crescendo e spero che continui così. Non so se scriverò un altro articolo sul libro quando lo avrò finito (adesso sono a circa un terzo; magari modificherò questo, oppure no, non so e non conta molto) e, nel dubbio, prima di presentarvi un passaggio che mi è piaciuto molto, accenno sin d’ora alla trama, che poi non è tale nel senso classico della parola. Il libro è composto da differenti descrizioni di città immaginarie; Calvino si serve di Marco Polo, il quale racconta i suoi viaggi in queste città. Ad ascoltarlo c’è l’imperatore Kublai Kan, malinconico perché consapevole del vuoto che c’è dietro le sue conquiste.

Il libro è suddiviso in nove capitoli, all’interno dei quali c’è un’ulteriore suddivisione secondo le macro-tipologie di città. Troviamo così “La città e la memoria, “La città e il desiderio”, “La città e i segni”, Le città sottili”, “Le città e i segni”, “Le città e gli scambi”, etc, etc. Il lettore potrà, volendo, anche seguire un percorso diverso da quello ordinario, questo perché le singole descrizioni sono indipendenti l’una dall’altra, pur se i diversi temi si ripetono. In ogni caso, pur non potendo ancora esprimere un parere complessivo sul libro, pubblico il brano sottostante.

“A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano. Continua a leggere…

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