“Il fantasma esce di scena” (Philip Roth)
(Philip Roth, “Il fantasma esce di scena”, ed. Einaudi)
“Poi, cinque o sei settimane dopo, verso le quattro del mattino, avvolto in un bianco sudario venne a rimproverarmi. Disse: <<Avrei dovuto indossare un vestito. Hai fatto la cosa sbagliata>>. Mi svegliai urlando. Tutto ciò che faceva capolino dal sudario era il rammarico sulla sua faccia morta. E le uniche parole che disse erano una ramanzina: l’avevo vestito per l’eternità con i panni sbagliati.
Al mattino mi resi conto che aveva inteso alludere a questo libro, che, in carattere con l’indecenza della mia professione, avevo continuato a scrivere mentre lui era malato e moriva. Il sogno mi diceva che, se non nei miei libri o nella mia vita, almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre ma come il padre, per giudicarmi qualunque cosa io faccia.
Non devi dimenticare nulla.”
(Philip Roth, “Patrimonio”, ed. Einaudi)
Non so esattamente perché e non è così importante scoprirlo, ma ho pianto per un paio di minuti quando ho chiuso “Patrimonio” di Philip Roth, anzi già piangevo mentre leggevo le ultime pagine. Questo forse non è un motivo sufficiente per consigliare un libro, e allora aggiungo solo qualche altra parola. Roth racconta la morte del padre, Hermann, e lo fa iniziando dalla scoperta di un tumore che condannerà l’ottantaseienne e indomito ex-assicuratore, determinato a sopravvivere eppure già con mezza faccia paralizzata. Considerato l’argomento del romanzo, parrebbe ovvio dedurne che non possa trattarsi di una lettura allegra, e infatti tale non è. Al tempo stesso, però, Roth è così grande che riesce a strapparci lacrime sia per le risate che per la malinconia, nonché l’ansia e la paura che affliggono lui, figlio, di fronte a un padre che sta per morire e che pure, nonostante il crollo evidente, non vuole mollare.
“Puoi fare promesse, raccontare le ultime novità, chiedere la loro comprensione, il loro perdono, il loro amore; o puoi scegliere l’altro approccio, quello attivo, puoi strappare le erbacce, distribuire meglio la ghiaia, toccare con le dita le lettere incise nella lapide; puoi persino inginocchiarti e mettere le mani direttamente sui loro resti; toccando la terra, la loro terra, puoi chiudere gli occhi e ricordare com’erano quando erano ancora con te. Ma nulla viene alterato da questi ricordi, se non che il defunto sembra ancora più distante e irraggiungibile di quanto lo fosse mentre eri in macchina dieci minuti prima. Se al cimitero non c’è nessuno che ti osserva, per far sembrare che il morto non sia morto puoi fare delle cose piuttosto strampalate. Ma anche se riesci a emozionarti quanto basta per avvertire la sua presenza, in ogni caso te ne vai senza di lui. Ciò che provano i cimiteri, almeno alle persone come me, non è che i morti sono presenti, ma che se ne sono andati. Loro se ne sono andati, e noi ancora no. Questo è fondamentale, e per quanto inaccettabile lo si afferra abbastanza facilmente.”
“Non era più capace di fare uno Shakespeare a bassa intensità e non era più capace di fare uno Shakespeare ad altra intensità, e pensare che aveva fatto Shakespeare per tutta la vita. Il suo Macbeth era ridicolo, e quelli che lo videro lo dissero senza eccezione, e altrettanto fecero molti che non lo avevano visto. <<No, non hanno neanche bisogno di esserci stati – diceva lui – per insultarti>>. Molti attori, per aiutarsi, si sarebbero dati al bere; c’era sempre una vecchia barzelletta su un attore che beveva sempre prima di andare in scena, e che quando lo esortarono a non bere replicò: <<Come, dovrei andare là fuori da solo?>> Ma Axler non beveva, e così invece crollò. Il suo crollo fu monumentale.
La cosa peggiore era che vedere il proprio crollo con la stessa lucidità con cui si vedeva recitare. La sofferenza era atroce, e tuttavia lui dubitava che fosse genuina, il che la rendeva ancora peggiore. Non sapeva come passare da un minuto all’altro, era come se la mente gli si stesse liquefacendo, aveva il terrore di stare da solo, non riusciva più a dormire più di due o tre ore per notte, mangiava appena, ogni giorno pensava di ammazzarsi con l’arma che aveva in solaio – un fucile a pompa Rennington 870 che teneva nella casa isolata per autodifesa – e nondimeno gli sembrava tutta una commedia, una commedia recitata male. Quando reciti la parte di uno che sta crollando, la tua interpretazione ha un ordine e una coerenza; quando la persona che vedi crollare sei tu, e quella che stai recitando è la tua fine, è tutta un’altra cosa, una cosa spaventosa e terrorizzante.”
(Philip Roth, “L’umiliazione”, ed. Einaudi)
Simon Axler è un grande attore teatrale, ma superati i sessant’’anni sente di aver totalmente perso la capacità di recitare, ma soprattutto avverte che questa crisi attoriale è sintomo di una più generale inabilità ad ascoltare gli altri e a parlare. Simon si sente smascherato, umiliato ancora di più dall’impossibilità di trovare una spiegazione razionale a ciò che gli sta accadendo. L’incontro con Pegeen, una lesbica di trent’anni più giovane di lui, sembra ridonargli una nuova vitalità, in virtù di una passione erotica estrema che però si rivela, alla lunga, essere un’altra falsa illusione, una nuova maschera sotto la quale nascondere il vuoto che inesorabilmente lo sta inglobando.
Fin qui la trama ridotta all’osso, il resto sta nella penna tagliente di Philip Roth, ormai una garanzia per me (e non solo per me).
“Certamente c’erano altri che avremmo potuto invitare. Chiunque, di fatto, avrebbe potuto sedere con noi, mangiare il nostro cibo e sorseggiare il nostro caffè per poi spargere la notizia della nostra spavalda e irragionevole unione. Avevamo solo bisogno di una coppia – preferibilmente sposata – in rappresentanza del mondo e delle sue opinioni, un paio di estranei di fronte ai quali poter sfoggiare le nostre buone intenzioni e il nostro sostanziale decoro, e al cui giudizio poter sottoporre le prove di una carnalità ben ordinata e di una disciplina domestica. Una qualunque coppia che ci concedesse l’approvazione della società, se non un vero e proprio salvacondotto… Perché doveva essere questo che andavamo cercando quando, una mattina di sole una settimana dopo che io mi ero trasferito da lei, Martha si era svegliata e aveva detto: – Invitiamo qualcuno a cena! – e io avevo detto: – Che splendida idea!”
(Philip Roth, “Lasciar andare”, ed. Einaudi)
Il principale difetto che ho riscontrato in “Lasciar andare” di Philip Roth è che io già ho letto altri grandi capolavori dell’autore e questo romanzo non è all’altezza di altri testi. Ciò detto, però, resta un libro che non fa sentire per nulla (se non nel finale) la sua mole, oltre 700 pagine, e che “scorre” via che è un piacere, lasciandoci già intravedere quella che poi sarà l’evoluzione della scrittura di Roth.
“Lasciar andare” è il primo romanzo di Roth, pubblicato nel 1962 ed ambientato negli anni Cinquanta del Novecento. Il protagonista principale è Gabe Wallach, appena congedato dall’esercito e al quale muore la madre. Quest’ultimo evento, causando un incrinarsi nei rapporti anche col padre, costringe Gabe a rivedere la sua esistenza, a scardinarsi da situazioni stantie e cercare, con una certa ansia, nuovi legami sociali. L’occasione gli è fornita da Henry James, suo scrittore prediletto. Prestando “Ritratto di signora” a un suo conoscente, Paul, Gabe entra in contatto anche con Libby, moglie di Paul, cominciando a scoprire quanto le relazioni reali abbiano di affine e di diverso da ciò che lui leggeva nei romanzi. L’incontro con Martha, donna divorziata e con prole, confermerà a Gabe la difficoltà di lasciar andare le cose, essendo egli comunque implicato, nel corso della storia, in situazioni che, volente o nolente, deve affrontare.
Senza entrare in ulteriori dettagli, basta dire che già in questo romanzo affiorano alcune tematiche che Roth approfondirà in tutti i suoi romanzi successivi, sebbene in una forma meno profonda e anche meno drammatica. Alcune situazioni narrate sono a forte contenuto tragico, ma in “Lasciar andare” prevale il timbro ironico, anche sarcastico, e le vicende sentimentali di Paul, Gabe, Libby e Martha s’intrecciano in un vortice di fraintendimenti, fughe, assenze, mancanze e liti che strappano quasi sempre un sorriso, o proprio una sonora risata, al lettore. Non mancano, però, come detto, momenti più lirici e intensi, precursori di ciò che Roth saprà poi fare in seguito nella sua prolifica carriera di narratore.
“Nel momento stesso in cui stava sprofondando nel sonno, si elevò al di sopra di tutte le pretese e le ansia che l’avevano assillato, oltre le attese a cui aveva pensato di dover corrispondere, le necessità che aveva ritenuto di dover soddisfare, tutto ciò che aveva scambiato per compassione e amore. Arrivò quasi a intravedere per se stesso una nuova e gloriosa opportunità. Ma se quella gloriosa opportunità esistesse davvero, o se in quel momento fosse il sonno a separarlo da una qualche verità su ciò che la vita dà e prende, era impossibile dirlo. Si sentiva in sospeso sull’orlo di qualcosa, e poiché quel che poi gli accade fu di dormire, forse si trattava solo del sonno.”
Nelle prime pagine di “Lasciar andare”, Gabe presta “Ritratto di signora” a Paul. Qualche giorno dopo, incontra Libby, moglie di Paul, scoprendo che il libro lo sta leggendo lei e soprattutto che un conto è assorbire la storia di Isabel Archer narrata da James, altro trovarsi di fronte un marito, una moglie e disagi reali.
Alla stessa maniera, sento che leggere un romanzo di Roth con vista mare è cosa ben diversa dall’affrontare i miei demoni. So che al riguardo non possono trovare soluzioni definitive né Roth, né James, né chissà chi altro. Ed è un bene che sia così. So, però, che certe letture possono aiutare, momentaneamente, a “lasciar andare” i demoni per conto loro, a stabilire una tregua con me stesso.
Lo sanno anche questi due, uomo e donna (con bambino annesso), che stanno litigando a cinque metri dalla mia panchina, manco volessero dimostrarmi che davvero loro sono per me quello che Paul e Libby sono per Gabe, o ancora che Philip Roth è per me ciò che Henry James è per Gabe?
Il mare, placido e stronzo in lontananza, tace.
“- Reggerai di fronte alle sue grida isteriche, se si dovesse arrivare a tanto? Reggerai di fronte alle sue suppliche disperate? Riuscirai a guardare da un’altra parte mentre una persona sofferente ti implora, implora per qualcosa che vuole da te e che tu non sei disposto a concederle? Sì, a un padre potevi dire: <<Non sono fatti tuoi, lasciami in pace!>>. Ma hai il tipo di forza necessaria per questo? Perché tu hai anche una coscienza. E sono fiera che tu ce l’abbia, ma una coscienza può esserti nemica. Hai coscienza, hai compassione, hai anche dolcezza… allora dimmi, saprai fare le cose che si renderanno necessarie con questa ragazza? Perché la debolezza di un’altra persona può distruggerti tanto quanto la sua forza. Le persone deboli non sono innocue. La loro debolezza può essere la loro forza. Una persona tanto instabile è una minaccia per te, Markie, è una trappola.”
(Philip Roth, “Indignazione”, ed. Einaudi)
Nel 1951, in piena Guerra di Corea, Marcus Messner, ragazzo serio, diligente, studioso e appena iscrittosi all’università di Newark, scappa da quest’ultima per andarsene a studiare a Winesburg, nell’Ohio. Marcus scappa da suo padre, macellaio risoluto che da un po’ di tempo è diventato ossessivo, preoccupato com’è per la sorte del figlio, timoroso che possa darsi all’alcool, al gioco d’azzardo o che possa finire soldato in guerra. Giunto alla soglia della follia, sopportato anche dalla stoica moglie, il macellaio costringe il figlio a cercare altrove una certa libertà. Marcus, però, ben presto si accorgerà che il luogo dove è giunto, l’università di Winesburg, è una gabbia anch’essa, un groviglio di studenti fanatici religiosi, di compagni di stanza grotteschi con i quali non riesce ad instaurare alcun rapporto. A mitigare il tutto sembra pensarci Olivia, che però nasconde un passato tutt’altro che rassicurante.
Fin qui le mie parole, il resto lo fa la solita graffiante, divertente, tragicomica penna di Philip Roth.
“Avevamo dormito nella stesse stanza e studiato insieme – e adesso era morto a ventun anni. Aveva definito Olivia una mignotta – e adesso era morto a ventun anni. Quando sentii del fatale incidente di Elwyn, il mio primo pensiero fu che non mi sarei spostato dalla sua stanza se avessi saputo in anticipo che sarebbe morto. Fino ad allora, le uniche due persone di mia conoscenza che erano morte erano i due cugini più grandi uccisi in guerra. Elwyn era la prima persona morta che avessi odiato. Ora avrei dovuto smettere di odiarlo ed essere in lutto per lui? Avrei dovuto fingere di essere dispiaciuto per il fatto che era morto, e atterrito per il modo in cui era morto? Avrei dovuto fare il viso contrito e andare alla commemorazione funebre nella sede della sua confraternita e presentare le mie condoglianze ai confratelli, molti dei quali mi erano noti come ubriaconi che quando volevano richiamare la mia attenzione alla locanda fischiavano con le dita in bocca e mi si rivolgevano in un modo che suonava sospettosamente simile a <<ehi, ebreo>>? Oppure avrei dovuto cercare di riottenere il mio posto nella stanza di Jenkins Hall prima che venisse assegnata a qualcun altro?”
“Dieci mesi. Incredibile. Perché in questo periodo non è passato un giorno – a ben vedere, non un’ora – in cui non mi sia chiesto: <<Perché continuare con questa persona? Questa donna abbrutita! Questo personaggio rozzo, tormentato, disorientato, perduto, colmo di odio per sé stesso, privo d’identità…>> e così via. La lista era inesauribile. Continuavo a scorrerla senza mai arrivare in fondo. E la facilità con cui l’avevo raccolta per strada! (il trionfo sessuale della mia vita!): be’, il ricordo mi faceva grugnire di disgusto. Come tirare avanti con qualcuno di cui non posso materialmente rispettare il raziocinio, il giudizio e il comportamento? Che giorno dopo giorno innesca in me esplosioni di disapprovazione, e ora dopo ora tuoni di ammonimento? E le prediche! Oh che maestro sono diventato. Quando mi comprò quei mocassini italiani per il mio compleanno, per esempio: che lezione le impartii!
– Senti, – dissi quando uscimmo dal negozio, – un piccolo consiglio per gli acquisti: quando vai a fare qualcosa di così semplice come scambiare moneta con merce, non è necessario ostentare la tua fregna a chiunque si trovi nel nostro orizzonte. Okay?
– Ostentare cosa? Chi ha ostentato qualcosa?
– Tu, Mary Jane! Le tue presunte parti intime!
– Io no!
– Per cortesia, ogni volta che ti alzavi, ogni volta che ti sedevi, pensavo che saresti rimasta agganciata per la passera al naso del commesso.
– Geeesùuu, mi devo ben alzare. Mi devo ben sedere. O no?
– Ma non come se stessi montando o smontando da un cavallo.
– Be’, non so cosa ti piglia… comunque lui era un finocchio.”
(Philip Roth, “Il lamento di Portnoy”, ed. Einaudi)
Alex Portnoy, poco più che trentenne e stimato “Commissario aggiunto della Commissione per lo sviluppo delle risorse umane” di New York, steso sul letto dal suo psicanalista, racconta la sua ossessione per il sesso, con dovizia di lascivi particolari, nel tentativo di capire il perché di una tale fissa e quali sono le cause della sua impossibilità di legarsi a una donna, spaziando invece dall’una all’altra e soprattutto prediligendo le ragazze non ebree, essendo lui, invece, ebreo, quasi che penetrandole (ma Alex, sboccato e diretto com’è, direbbe: scopandole) possa entrare oltre che in loro, anche nell’ambiente sociale che esse rappresentano.
Il racconto delle vicissitudini sessuali di Portnoy è spesso esilarante, Continua a leggere…
“È come se nella coscienza, a provocarne il minimo turbamento, non fosse mai stato ammesso neppure quel livello assolutamente elementare di pensiero immaginativo. Un secolo di distruzioni diverso nei suoi eccessi da ogni altro viene a intristire la razza umana: decine di milioni di persone comuni condannate a patire una privazione dopo l’altra, un male dopo l’altro, mezzo mondo, o più di mezzo, sottoposto a patologico sadismo come politica sociale, intere società organizzate e ostacolare dalla paura di violente persecuzioni, la degradazione della vita individuale raggiunta in una misura ignota nella storia, nazioni vinte e ridotte in schiavitù da criminale ideologici che le privano di tutto, intere popolazioni così demoralizzare da essere incapaci di alzarsi dal letto la mattina col minimo desiderio di affrontare la giornata… Tutte le terribili pietre di paragone offerte da questo secolo, ed eccoli levarsi a prendere le armi per una Faunia Farley. Qui in America, o è Faunia Farley o è Monica Lewinsky! Il lusso di queste vite così turbate dai comportamenti inappropriati di Clinton e Silk! Questa, nel 1998, è la depravazione che devono sopportare. Questa, nel 1998, è la loro tortura, il loro tormento e la loro morte spirituale. La fonte della loro più grande disperazione morale, Faunia che mi fa un pompino e io che scopo Faunia.”
(Philip Roth, “La macchia umana”, ed. Einaudi)
Il professor Coleman Silk, settantunenne simpatico, loquace, estroverso, nasconde da oltre cinquant’’anni un segreto, anche alla moglie e ai suoi quattro figli. La sua carriera universitaria è brillante, diventa preside di facoltà, salvo poi subire un improvviso crollo, dovuto non al segreto celato, bensì al perbenismo, all’ipocrisia, alla maldicenza dell’ambiente accademico e non solo. Non gli si perdonano Continua a leggere…
“Incapace di dormire. Sabbath giaceva accanto a Roseanna sopraffatto da una clamorosa, deformante sensazione di cui fino allora non aveva mai avuto esperienza diretta. Adesso era geloso di quegli stessi uomini che, quando Drenka era viva, per lui non erano mai abbastanza. Pensava agli uomini che lei aveva incontrato in ascensori, aeroporti, parcheggi, grandi magazzini, ai congressi per gestori di alberghi, ai convegni sul cibo, agli uomini che si era fatta perché la attiravano fisicamente, agli uomini con cui era andata a letto soltanto una volta e a quelli con i quali aveva avuto delle storie prolungate, uomini che cinque o sei anni dopo il loro ultimo incontro inaspettatamente telefonavano in albergo per magnificarla, lodarla, spesso senza lesinare oscenità grafiche per dirle che lei era la donna meno inibita che avessero mai conosciuto. Ricordava quando lei gli spiegava – perché lui glielo chiedeva – cosa la inducesse a scegliere un uomo invece che un altro in una stessa stanza, e si sentiva come il più sciocco e ingenuo dei mariti che avesse appena scoperto tutte le infedeltà di sua moglie – si sentiva stupido come quel beato sempliciotto del dottor Charles Bovary. E pensare che ne aveva ricavato un così diabolico piacere! Una tale felicità! Quando lei era viva, niente lo eccitava o lo divertiva di più che ascoltare, con tutti i particolari, le storie della sua seconda vita. Anzi, la terza, perché la seconda era lui.”
(Philip Roth, “Il teatro di Sabbath”, ed. Einaudi)
“Giura che non scoperai più le altre o fra noi è finita”. Nel bruciante incipit c’è gran parte della trama di “Il teatro di Sabbath”, o almeno del tema portante del romanzo, cioè il sesso e la sua inarrestabile forza motrice. Chi si rivolge a Sabbath è Drenka, da tredici anni amante di Sabbath e al tempo stesso, Continua a leggere…
“Per ore dopo le tre telefonate consecutive – e dopo la prevedibile banalità e futilità dei suoi incoraggiamenti, dopo il tentativo di ravvivare il vecchio spirito cameratesco riesumando ricordi della vita dei colleghi, cercando di trovare cose da dire per fargli coraggio e tirarli su di morale – ciò che ebbe voglia di fare non fu solo telefonare e parlare con sua figlia, che trovò all’ospedale con Phoebe, ma ravvivare il proprio spirito telefonando e parlando con i suoi genitori. Ma ciò che aveva imparato era niente in confronto a quell’assalto furibondo e inevitabile che è la fine della vita. Fosse stato consapevole delle terribili sofferenze di ogni uomo e ogni donna che per caso aveva conosciuto in tutti i suoi anni di vita professionale, consapevole della storia dolorosa di rimpianti, di sconfitte e di stoicismo di ciascuno, storia di paura e di panico e di solitudine e terrore, se avesse saputo di tutte le cose da cui avevano dovuto infine separarsi, cose che per loro erano state di importanza vitale, e della sistematica distruzione che stavano subendo, avrebbe dovuto stare al telefono per tutto il giorno e fino a notte fonda, facendo almeno altre cento chiamate. La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro.”
(Philip Roth, “Everyman”, ed. Einaudi)
Nello scrivere le mie impressioni su “Everyman” di Philip Roth, parto dal presupposto che se un libro è capace di farmi venire gli occhi lucidi per motivi opposti, cioè divertimento e commozione, allora non posso che considerarlo un gran libro. “Everyman” ha come tema principale la morte, Continua a leggere…