
“Le occasioni di aver paura sono una delle poche cose che non scarseggiano in questi nostri tempi tristemente poveri di certezze, garanzie e sicurezze. Le paure sono tante e varie. Ognuno ha le sue, che lo ossessionano, diverse a seconda della collocazione sociale, del genere, dell’età e della parte del pianeta in cui è nato e ha scelto di (o è stato costretto a) vivere. Il guaio è che tali paure non sono tutte uguali fra loro. Dato che arrivano una alla volta, in successione ininterrotta ma casuale, esse sfidano i nostri (eventuali) sforzi di collegarle tra loro e ricondurle alle loro radici comuni. Ci spaventano di più perché risultano difficili da abbracciare nella loro totalità, ma ancor di più per il senso di impotenza che suscitano in noi. Non riuscendo a comprenderne le origini e la logica (ammesso che ci sia), ci troviamo al buio e incapaci di prendere provvedimenti – e, a maggior ragione, di prevenire o contrastare i pericoli che esse ci segnalano. Siamo semplicemente privi di strumenti e capacità a tal fine. I rischi che temiamo trascendono la nostra capacità di agire; finora non siamo nemmeno riusciti a definire chiaramente come dovrebbero essere gli strumenti e le capacità adeguate – e dunque siamo ben lontani dal poter iniziare a progettarli e realizzarli. Ci troviamo in una situazione non molto diversa da quella di un bambino disorientato; per riprendere l’allegoria utilizzata tre secoli fa da George Christoph Lichtenberg, se un bambino urta contro un tavolo, dà la colpa a quest’ultimo, mentre per casi simili noi abbiamo coniato la parola “destino” contro cui lanciare accuse”.
(Zygmunt Bauman, “Paura liquida”, editori Laterza)
In un articolo scritto qualche giorno fa, affrontavo, in maniera approssimativa, frammentaria e piuttosto scanzonata, il tema della paura. In questo vi presento un testo ben più interessante rispetto ai miei deliri, cioè “Paura liquida” di Zygmunt Bauman. Tanto per sdrammatizzare, la parola liquida del titolo non è in riferimento a possibili perdite notturne, ma richiama concetti che Bauman esprime anche in altre sue opere. La liquidità, in estrema sintesi, è da intendersi come la mutevolezza, l’instabilità, la freneticità della società odierna, con particolare riferimento ad argomenti quali la globalizzazione, il consumismo, la marginalizzazione dei poveri. L’oggetto principale di questo saggio, comunque, è la paura.
Il libro, come si evince dalle parole dello stesso autore, è un inventario delle paure, un tentativo di individuarne le radici, un invito a ragionarci su ed agire di conseguenza, nella consapevolezza che non esistono ricette miracolose né definitive per scacciare paure che attanagliano l’uomo dalle sue origini, paure che sono mutate nel corso dei millenni, o paure che addirittura sono insorte e divenute tipiche dell’epoca attuale. Nel mio precedente articolo, mi domandavo se la paura è sempre relativa a qualcosa che non conosciamo, quindi all’ignoto, o non riguardi anche ciò che conosciamo. Bauman sviluppa in maniera egregia la mia domanda e risponde con questo saggio che parte da un’introduzione di carattere generale sull’origine della paura e sugli usi che della stessa sono stati fatti. La prima considerazione è sul fatto che la paura derivante dall’incertezza della minaccia, che in linea teorica avremmo dovuto scacciare grazie al progresso scientifico e tecnologico, ha, al contrario, assunto il carattere dell’ubiquità. La globalizzazione, la possibilità di viaggiare, di conoscere tutto in pochi secondi grazie al web, ha certo portato innumerevoli vantaggi, ma ha anche allargato il terreno dove le nostre paure possono proliferare.
La paura può essere immediata, cioè derivante da pericoli concreti e visibili, oppure derivata dall’insicurezza circa qualcosa. In questo secondo caso, aggiunge Bauman, spesso può essere sganciata da reali pericoli ed essere, quindi, solo frutto di condizionamenti mentali. Ma perché abbiamo paura? Cosa sentiamo essere messo in pericolo? Bauman focalizza l’attenzione su tre macro-categorie: 1. il pericolo riguardante la possibile perdita o menomazione del nostro corpo e dei nostri beni materiali; 2. la paura di ordine più collettivo, riguardante catastrofi, sovvertimenti dell’ordine sociale vigente; 3. la paura circa la nostra collocazione all’interno del predetto ordine sociale. Bauman poi spiega come un modo che utilizziamo per difenderci dalle paure sia calcolare le probabilità di ciò che è prevedibile, tenendo ben a distanza dalla mente i pensieri su ciò che è imponderabile e per il quale è impossibile, a nostro parere, fare alcunché. Così facendo, però, accade che su larga scala ci si meravigli di catastrofi naturali che, per quanto imprevedibili e tremende, potevano essere limitate nella loro portata devastatrice, se solo si fosse sempre tenuto presente il pericolo supremo, cioè quello di morire.
Nel primo capitolo l’autore affronta proprio la paura delle paure: la morte. Innanzitutto, a mia parziale discolpa riguardo il mio articolo precedente, devo dire che mi ha fatto piacere leggere che anche Bauman ritenga errato quella concezione per la quale la morte non dovrebbe farci paura “perché quando ci siamo noi non c’è lei e viceversa”. La differenza tra me e Bauman è che lui argomenta in maniera mirabile. L’inizio del capitolo si serve dell’esempio dei reality show e dei quiz per mostrarci come i meccanismi più insospettabili che possiamo osservare nella nostra quotidianità siano atti a mostrarci l’inevitabilità della morte, dell’unico evento di cui non possiamo mai avere un’idea diretta e che ci coglierà comunque impreparati. Con la morte non si tratta di sapere il “se”, ma unicamente il “quando” e il “chi”. Un reality (sul quale, per inciso, il giudizio di Bauman non è, mi sembra, entusiastico, a prescindere dall’esempio che porta), eliminando un concorrente alla volta, rivela, libera e assolve il telespettatore dal pensiero della morte, presentandogliela in forma minimale e innocua.
Da questo pensiero abissale ci difendiamo in maniera diverse, anch’essere evolutesi nel corso della storia umana. Si può pensare che la morte non sia definitiva, quindi appellarsi all’eternità dell’anima, la grande invenzione del cristianesimo che tuttora appaga i credenti. Venuta meno questa forma di salvezza, nell’epoca moderna, secondo Bauman, le strategie sono la decostruzione e la banalizzazione della morte. La prima consiste nel non accettare mai la morte come fatto naturale, inevitabile, che prima o poi deve accadere, ma ricercare sempre e comunque una causa specifica della morte. La seconda consiste nel quotidiano esercizio: la fine di una relazione viene vissuta con un carico di drammaticità tale da prefigurare, sia pure in maniera imparagonabile, la morte, almeno la morte di un mondo, quello creato dalla relazione, che non ci sarà più. La frammentarietà dei rapporti sociali odierni, in teoria potenzialmente infiniti (basti pensare alle amicizie “virtuali”), ma labili quanto mai, non è altro, per Bauman, che un allenamento al distacco definitivo.
Un tema strettamente legato alla paura è il male, argomento che ci spaventa perché è incomprensibile, inesplicabile, sfida il nostro tentativo di rendere vivibile il mondo ritenendolo intellegibile, comprensibile con i nostri mezzi. Al riguardo, Bauman sottolinea come dalla vetusta concezione del male come conseguenza del peccato, si sia passati a una visione diversa ma non meno misteriosa e inappagante di cosa sia il male. Il terremoto e maremoto di Lisbona del 1755, che fornì a Voltaire l’occasione per le sue riflessioni, dà modo anche a Bauman di riflettere su come il male derivante dalle forze naturali sia non-intenzionale, indifferente alle nostre miserie umane. Poi, c’è il male causato e creato dall’uomo, che spaventa per la sua banalità, come ricordava la Arendt nel suo saggio-resoconto “La banalità del male”. Bauman rileva come il male ci faccia paura proprio perché, “a condizioni adatte”, può annidarsi ovunque e in chiunque.
Nel secondo capitolo Bauman tratta dell’orrore dell’ingestibile. L’umanità, che attraverso il progresso avrebbe dovuto epurare gran parte della paure, è riuscita a dotarsi di strumenti bellici atti a praticare una “mutua distruzione assicurata”. L’armamentario delle grandi potenze nucleari è un potenziale patologico-suicida delle moderne società, che hanno perso il senso del limite, che fingono di non comprendere la limitatezza delle risorse terrestri e lo stato di privilegio che una parte della popolazione terrestre (anch’io che posso scrivere quest’articolo) vive rispetto al resto. Invece che gestire la natura de-divinizzata, smussando gli effetti delle sue manifestazioni violente, l’uomo l’ha imitata nella sua irrazionalità. Bauman scrive il libro poco dopo l’uragano Katrina, che devastò New Orleans e rileva come in quell’occasione ad essere colpiti maggiormente furono, come spesso accade, gli indigenti. La burocrazia, inoltre, negli stati moderni, è diventato un alibi e una fonte di dequalificazione etica, all’interno della quale i funzionari solerti possono dimenticare, in nome dell’ordine ricevuto dall’alto, qualsivoglia barlume di solidarietà. La delega alla tecnologia, inoltre, deresponsabilizza l’uomo, che è stato molto “abile” ad apprendere dalla natura i suoi principi distruttivi e armarli contro se stesso, basti pensare agli armamenti atomici.
La globalizzazione, altro tema caro a Bauman, ha assunto, finora, connotati prevalentemente negativi e ha contribuito ad aumentare le paure, il bisogno di sicurezza entro e dei confini. La possibilità di spostarsi, congiunta alle condizioni disastrose in cui versano grandi zone del pianeta, ha condotto alle inevitabili migrazioni, che sempre ci sono state nella storia dell’umanità, ma che adesso, utilizzate in maniera squallida e propagandistica, hanno fomentato il risorgere di nazionalismi, razzismi, fanatismi e intollerenze che, peraltro, possono sfruttare i moderni mezzi di comunicazione per diffondere il loro “verbo”. Nella scelta tra essere carnefici, vittime o vittime collaterali, tendiamo a vedere nell’altro il colpevole, l’invasore, il pericolo, cadendo preda dell’antica e mai doma tentazione di dividere il mondo in Bene e Male, in Buoni e Cattivi, dimenticando (volendo dimenticare) che oltre alla naturale propensione alla violenza, che può esserci, esiste una grandissima fetta di disperati che, di fronte alla scelta se uccidersi o delinquere per necessità, optano per la seconda alternativa. Molto penetranti, inoltre, le pagine che Bauman dedica al fenomeno del terrorismo, che sfrutta anch’esso le potenzialità delle moderne tecnologie, non solo per colpire, ma anche per massimizzare gli effetti degli atti. La cultura del controllo, che sempre più si è diffusa dopo l’attacco alle torri gemelle, ha come effetto anche quello di spingere chi è più pigro o ha piacere a pensarla così, a ragionare per categorie.
Il paradosso cui si giunge è che proprio le società più sicure, quali dovrebbero essere, oggettivamente, quelle moderne, specie nella parte di mondo cosiddetta “evoluta”, sono attraversate da paure ed ossessioni talvolta giustificate, ma spesso generate ad arte da chi ha interesse commerciale, politico, militare, a conservare uno stato d’ansia collettivo, che aumenta quando, nelle maglie della sicurezza promessa, si intravede anche la minima smagliatura. Bauman, attraverso esempi puntuali e citazioni da giornali e tv, dimostra come i pubblicitari, le aziende e soprattutto i politici in campagna elettorale cavalchino l’onda della paura, paventando paure anche non dimostrabili in concreto, ma che fanno presa sullo “stomaco” dei cittadini.
L’ultimo capitolo Bauman lo dedica a cercare un senso alla parola. Cosa può fare un intellettuale, un pensatore, di fronte alle paure e più in generale per contribuire a rendere più vivibile e intellegibile questo mondo così caotico, frammentario, precario? L’antica concezione per cui dovrebbe affiancarsi a un Principe illuminato si è dimostrata fallimentare, così come il sogno dell’intellettuale organico al partito e guida della futura rivoluzione. Bauman, riprendendo un esempio di Adorno, auspica che si possa, almeno, lanciare un messaggio nella bottiglia, nell’auspicio che qualcuno, possibilmente non troppo in là nei decenni, possa coglierlo. Oltre ad augurarsi un difficile bilanciamento tra sicurezza e libertà, Bauman chiude sostenendo che solo annunciando l’inevitabilità della catastrofe si potrà evitare che la stessa accada. Stare sempre in guardia, insomma, cattivi profeti che si augurano di fallire nella loro previsione. Può essere una chiusura che incute paura, ma forse fanno più paura coloro che ritengo che vada sempre e comunque tutto bene.
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