Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Le cose sarebbero potute andare anche diversamente”

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“In quel momento Ulrich non desiderava altro che essere un uomo senza qualità. Ma questo vale quasi per tutti. In fondo, negli anni della maturità, pochi individui sanno sono di fatto arrivati a sé stessi, ai propri piaceri, alla propria visione del mondo, alla propria moglie, al proprio carattere, mestiere, e ai propri successi, ma hanno la sensazione di non poter più cambiare molto ormai. Si potrebbe persino sostenere che sono stati ingannati, perché è impossibile trovare una ragione sufficiente perché le cose siano andate proprio in quel modo; sarebbero potute andare anche diversamente; gli avvenimenti sono derivati solo in minima parte dal loro contributo, per lo più sono dipesi da qualsivoglia circostanza, dall’umore, dalla vita, dalla morte di tanta altra gente, e solo in quel dato momento sono per così dire venuti loro incontro. In gioventù la vita si trovava ancora davanti a loro come un mattino inesauribile, colmo da ogni parte di possibilità e di nulla, ma ecco che già a mezzogiorno all’improvviso c’è qualcosa che può a ragione pretendere di essere ormai la loro vita, e questo è nel complesso non meno sorprendente del trovarsi d’un tratto di fronte una persona con la quale ci siamo scritti per vent’anni senza mai conoscerla e che ci siamo immaginati del tutto diversa. Ma ancora più strano è che la maggior parte della gente neppure se ne accorge; adottano l’uomo che è giunto da loro, nella cui vita si sono immedesimati; ora le sue esperienze le considerano espressione delle loro qualità, e il suo destino è merito o sfortuna loro. A queste persone è capitato qualcosa di simile a quello che accade alla mosca con la carta moschicida; qui li ha imprigionati su un peluzzo, lì ha bloccato un loro movimento, e gradualmente li ha avvolti fino a seppellirli in una spessa pellicola che solo molto lontanamente corrisponde alla loro forma originaria.”

(Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, ed. Newton Compton)

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“Meraviglie soffocate, dissipate”

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“In mezzo al chiacchiericcio nervoso delle figurine emerge dall’ombra il carattere meduseo della vita: ciò che vi è di insensato, di enigmatico, di solitario, il sordo e mordo non capirsi fra chi ama; la cupa coscienza, come di una mancanza commessa; il presagio albale di infinità sfuggite, di meraviglie soffocate, dissipate; e le molte cose che su anime troppo fine cadono come brina e ruggine.”

(Hugo von Hofmannsthal, da una recensione all’Anatol di Arthur Schnitzler, ora citata nelle note a un saggio di Roberto Calasso, all’interno del libro “Detti e contraddetti”, Karl Kraus, ed. Adelphi)

“Qui pro quo” (Gesualdo Bufalino)

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“Quanto a me, non era la sorpresa a prevalermi nell’animo, di fronte a questa seconda e presumibilmente definitiva verità. Era piuttosto una sorta di personale rancore e di delusione nei confronti del defunto, alla cui innamorante immagine s’era venuto sostituendo nelle ultime ore un simulacro di tristo burattinaio, inteso a prendersi giuoco di tutti, ma, mi pareva, in particolare di me. Veridiche o menzognere che fossero queste sua aggiuntive elucubrazioni, me ne veniva un sentimento di maldimare nel ritrovarmi ancora una volta zimbello, con tutti i fili nelle sue mani…”

(Gesualdo Bufalino, “Quo pro quo”, ed. Bompiani)

Di Gesualdo Bufalino avevo letto, finora, solo “Diceria dell’untore” e “Argo il cieco”, diversi tra loro ma entrambi apprezzati e che consiglio con l’occasione. “Qui pro quo” si differenzia ancora dagli altri e lo fa rielaborando il “giallo”, anzi scardinando alcuni elementi classici del genere.

Medardo Aquila è un editore, per l’appunto di libri “gialli”, e si trova a trascorrere le vacanze con sua moglie e diversi ospiti, tra i quali il cognato e socio Ghigo, l’avvocato Belmondo e sua moglie Matilde, la direttrice editoriale Lidia, uno scultore, un pittore e altra variegata fauna umana. Tra tutti, personaggio eminente, nonché narratrice della storia che vede vittima Medardo, c’è Ester Scamporrino alias Agatha Sotheby, segretaria dell’editore, la quale ha scritto un libro che s’intitola, guarda un po’, “Qui pro quo”.

Il romanzo fu definito, da Sciascia, una sorta di “pirandellismo introvertito”, perché non c’è una Verità che si mostra con evidenza, bensì tante maschere che i personaggi indossano con coscienza o anche solo perché agli occhi altrui appaiono sotto diversi aspetti. Medardo stesso, la vittima, potrebbe essere anche l’assassino di sé stesso, avendo architettato un piano diabolico per far ricadere la colpa su qualcun altro. La narratrice/segretaria indaga, assieme al commissario Currò e con la presenza ingombrane di alcune lettere che Medardo ha lasciato per aiutare a risolvere il caso, avendo avuto premonizione della propria fine imminente, oppure per ingarbugliare il tutto, nel caso abbia fatto tutto da sé.

Sulla trama in senso stretto è bene fermarsi qui per non rovinare la lettura, ma si può aggiungere che Bufalino è abilissimo nel creare un gioco di specchi e soprattutto nella forma lessicale, elegante e a tratti aulica, con la quale ci narra le vicende di un mondo in cui non ci sono conclusioni certe, ma solo possibilità.

X e Y

Stai in una condizione X, non ci stai granché bene ma ti ci sei abituato. Tale condizione può essere considerata quasi una norma, una regola.

Succede qualcosa, arriva qualcuno, che ti sposta in una condizione Y, attuando la potenza di quel “quasi”. L’eccezione ti dimostra che la regola non esiste e inizi ad adattarti alla nuova condizione, che ti appare migliore rispetto alla precedente.

Succede, però, che presto questa nuova condizione Y si rivela essere solo una differente inquadratura della precedente, un mutamento di prospettiva temporaneo, per quanto potente. Credevi di aver saltato un abisso passando dalla X alla Y, ma la X non solo è insita nella Y, bensì ne è il presupposto fondante, nonché l’approdo al quale tornerai di nuovo quando sarà scomparso il fattore che ti aveva traghettato da X a Y.

Ti ritrovi così di nuovo in X, ma avendo scoperto che esistono tante potenziali situazioni Y che non hai finora raggiunto e chissà se mai raggiungerai.

Avverti una strana sensazione di nostalgia per ciò che hai vissuto e soprattutto per ciò che non hai ancora conosciuto. Ti prende alla bocca dello stomaco.

Forse, però, è solo voglia di patate al forno.

Causa ed effetto (della gastrite o di cosa?)

Rovistando in un cassetto in cerca di qualcosa, non so bene cosa e/o non è importante saperlo qui, m’imbatto in un taccuino giallo, sul quale trovo scritto, con la mia grafia, quanto segue: “Se la causa persiste, ma l’effetto non c’è più, significa che la relazione tra quella causa e quell’effetto non era necessaria, bensì solo una delle molteplici possibilità”.

Non so cosa avessi mangiato quel giorno e quale fosse l’argomento che mi aveva indotto a scrivere quelle parole (ero infatuato di qualcuna? avevo un attacco di gastrite?), ma so che, accanto alla riflessione, qualche tempo dopo aggiunsi: “Rileggere aforisma 112 della Gaia scienza”. E allora, visto che il caso mi ha condotto fin qua, ecco l’aforisma in questione.

 “112. Causa ed effetto. Lo chiamiamo <<spiegazione>>, ma è <<descrizione>>, quel che ci contraddistingue dai gradi più antichi della conoscenza e della scienza. Noi descriviamo meglio, ma spieghiamo tanto poco quanto tutti i nostri predecessori. Abbiamo scoperto una successione molteplice, laddove l’uomo ingenuo e il ricercatore delle civiltà più antiche vedevano soltanto due cose: <<causa>> ed <<effetto>>, come si diceva; abbiamo reso perfetta l’immagine del divenire, ma non siamo approdati oltre l’immagine, dietro l’immagine. La serie delle <<cause>> ci sta in ogni caso dinanzi molto più completa; ne deduciamo che questo e quello devono procedere perché segua quell’altro – ma con ciò non abbiamo compreso nulla. La qualità, per esempio, in ogni divenire chimico, continua ad apparire un <<miracolo>>; allo stesso modo ogni propulsione: nessuno ha <<spiegato>> l’urto. Come potremmo mai giungere a una spiegazione! Operiamo solo con cose che non esistono, con linee, superfici, corpi, atomi, tempi divisibili, spazi divisibili – come potrebbe anche soltanto essere possibile una spiegazione, se di tutto noi facciamo per prima cosa una immagine, la nostra immagine! È sufficiente considerare la scienza come la più fedele umanizzazione possibile delle cose; impariamo a descrivere sempre più esattamente noi stessi, descrivendo le cose e la loro successione. Causa ed effetto: probabilmente non è mai esistita una tale dualità – in verità davanti a noi c’è un continuum, di cui isoliamo un paio di frammenti; così come percepiamo un movimento sempre soltanto come una serie di punti isolati, quindi, propriamente, non vediamo, bensì deduciamo. La repentinità con cui si mettono in evidenza molti effetti ci induce in errore: ma è soltanto una repentinità per noi. In questa repentinità dello spazio d’un secondo c’è una infinita accozzaglia di processi che ci sfuggono. Un intelletto che vedesse causa ed effetto come un continuum, non, al modo nostro, come il risultato arbitrario di una divisione e di uno smembramento, che vedesse il flusso dell’accadere – rigetterebbe il concetto di causa ed effetto e ogni condizionamento.”

(Friedrich Nietzsche, “La gaia scienza”, ed. Adelphi)

 E quindi, cosa ne ho dedotto? Ho trovato una spiegazione? No, ma in questo mi conforta l’opinione del fisico John S. Bell, il quale, in un suo libro, scrisse che “il serpente non può ingoiare sé stesso dalla coda”. E se non può il serpente, perché dovrei potere io, che sono meno flessuoso?

“Dalle nove alle nove” (Leo Perutz)

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“Il dottor Rübsam era arrivato per primo. Non aveva dovuto attendere a lungo. Fuori pioveva a dirotto, e prima del solito comparvero anche gli altri per la partita a domino della sera. Nella saletta riservata del caffè Turf, alla quale si accedeva attraverso una porta accuratamente nascosta da una tenda e sorvegliata da un aiutocameriere, sedevano quel giorno undici persone.

Ecco di nuovo l’impiegato postale dai capelli rossi che il giorno prima aveva giurato che non si sarebbe mai più seduto al tavolo con quella banda di imbroglioni. Poi il viaggiatore di commercio che disponeva sempre di denaro, pur non avendo un lavoro da due anni. Il cameriere dell’osteria del Prater che veniva a giocarsi, nella serata libera, tutte le mance ricevute durante la settimana. La signora Suschitzky, un tempo sensale di matrimoni, nota ovunque nella zona tra il ponte dell’Augarten e il rondò del Prater, che ora si dedicava alla locazione di tranquilli pied-à-terre, senza peraltro avere nulla in contrario ad agevolare fuggevoli incontri. L’agente immobiliare, che veniva chiamato <<Altezza serenissima>> – senza ragione evidente per la verità, poiché pagava i debiti di gioco con un contegno non certo da principe. Il maresciallo contabile, che imprecava volgarmente in ceco, quando vinceva qualcun altro. Il <<signor redattore>> che, alla domanda per quale giornale lavorasse, rispondeva sempre con gesto sprezzante: <<Per tutti>>. L’impiegato della Cassa di Risparmio che arrivava col cane e la fidanzata, al cane faceva portare dall’aiutocameriere delle pelli di salame, alla fidanzata un paio di riviste consunte dall’uso, per poi dimenticarsene completamente di entrambi nel fervore del gioco; e infine Hübel, ozioso studente di medicina che dottore non lo era ancora, e il dottor Rübsam, che già da molto tempo non lo era più.”

(Leo Perutz, “Dalle nove alle nove”, ed. Adelphi)

Stanislaus Demba è uno studente di lettere che si guadagna la vita dando ripetizioni, ma soprattutto è un personaggio strambo che vaga per le strade di Vienna con un mantello addosso e assumendo atteggiamenti che lasciano perplessi i suoi interlocutori, spiazzati dai suoi repentini cambi di umore e da qualche misterioso segreto che l’uomo pare nascondere, che lo porta ad essere sfuggente e spesso irriverente. Lungo la sua giornata Demba incontra gente non meno ridicola di lui, Continua a leggere…

Irradiano “completezza”

Ci sono persone che irradiano “completezza”, che tu le vedi, fai il confronto e sul momento ne esci a pezzi, ma non perché invidi la loro donna, la loro posizione sociale, l’automobile, il denaro, no, non per questo, o forse sì, anche per questo (per quanto t’inorridisca ammetterlo), ma principalmente per quell’aria di “completezza”, che poi non è proprio “completezza” e non neanche “compiutezza”, forse è “sicurezza” oppure non è proprio una cosa che finisce con “ezza”, magari è qualcosa che finisce con “tà”, tipo “felicità” o almeno “serenità”, o neanche questo, è un qualcosa che non sai definire e non lo sai fare perché il più delle volte è solo una tua “fantasia”.
Il fatto è che sul momento questa gente ti appare aver compreso qualcosa sull’esistenza che tu non hai mai capito e mai capirai, e non è solo merito della barba e dei baffi ben curati, benché (o poiché) brizzolati. Il fatto è che loro irradiano e tu no. Tu sei incompleto, incompiuto, insicuro, non hai ben chiaro i concetti di “felicità” e “serenità” e tante altre cose. Il confronto è impietoso.
Però poi accade che tu cadi addormentato e tutto ciò non è più vero. Accade che ti risvegli al mattino e leggi sul giornale (stai mentendo, il giornale non lo leggi più da anni) o su qualche pagina virtuale, o dove vuoi e puoi, leggi che quel tipo non era proprio così compiuto, completo, sicuro, felice, sereno, leggi che ha comprato una pistola ad acqua perché voleva annaffiare amici e nemici, oppure che si è gettato nel water per suicidarsi ma è stato salvato dai gatti, o infine che ha scritto un romanzo, o peggio fondato un movimento politico perché voleva “dare un senso pubblico alla sofferenza privata”, e allora capisci che non è proprio come pensavi, capisci o hai conferma che non è vero che ti manca una donna, una macchina, il denaro o soprattutto quei baffi brizzolati e ben curati (sì, vabbè, qualcosa tra queste può mancarti, ma son dettagli), quello che ti manca davvero sono un letto e un cuscino sui quali poterti stendere ed estendere per ventiquattro ore al giorno.
Perché lì, tu lo sai da sempre, non temi nessuno. Neanche te stesso.

“Il senso delle cose” (Richard P. Feynman)

Il senso delle cose

“Il sogno dell’umanità è trovare il canale giusto. Qual è il significato di tutto quanto? Cosa possiamo dire, oggi, intorno al mistero dell’esistenza? Se teniamo conto di tutto, non solo di quanto sapevano gli antichi, ma anche di quello che loro ignoravano e noi abbiamo scoperto, allora credo che l’unica risposta onesta sia: nulla. Ma credo anche che con questa ammissione abbiamo probabilmente fatto un passo nella direzione giusta.

Ammettere di non sapere, e mantenere sempre l’atteggiamento di chi non sa quale direzione è necessario prendere, ci dà modo di variare, di riflettere, di scoprire cose nuove e di avanzare nella conoscenza di noi stessi, per riuscire a fare quello che veramente vogliamo, anche quando non sappiamo cosa vogliamo.

Guardando indietro, si ha l’impressione che i periodi peggiori della nostra storia siano quelli in cui era più forte la presenza di persone che credevano in qualcosa con fede cieca e dogmatismo assoluto, prendendosi tanto sul serio da pretendere che il mondo intero la pensasse come loro. E poi facevano cose espressamente in contrasto con i loro stessi princìpi al fine di dimostrare la verità della propria dottrina.

Come ho già detto in precedenza, e qui lo ribadisco, l’unica speranza per un progresso dell’umanità in una direzione che non ci porti in un vicolo cieco (come già tante volte è successo in passato) risiede nell’ammissione dell’ignoranza e dell’incertezza. Io dico che non sappiamo quale sia il significato della vita e quali i giusti valori morali, e non abbiamo modo di sceglierli.”

(Richard P. Feynman, “Il senso delle cose”, ed. Adelphi)

“Il senso delle cose” è la trascrizione di un ciclo di tre conferenze tenute da Richard P. Feynman, già presente in questo blog con “Sei pezzi facili”, “Sei pezzi meno facili” e “QED, la strana teoria della luce e della materia”. A differenza dei citati titoli, che nonostante il loro intento divulgativo richiedono comunque un certo interesse per la materia (la fisica), “Il senso delle cose” risulta leggibile e gradevole Continua a leggere…

Salvarsi

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“La vita o l’esistenza non sono altro che l’incessante e in effetti ininterrotto, disperato tentativo di salvarsi da tutto sotto tutti gli aspetti possibili, cercando scampo nel futuro che ogni volta altro non fa se non riaprire questo identico infinito, mortale processo. La massa rifiuta già il singolo pensiero, figuriamoci l’attività del pensare, perché altrimenti ne sarebbe annientata all’istante, e così abbiamo a che fare con una massa completamente spensierata che in fondo non si oppone a nulla, ma si oppone sempre all’attività del pensiero.”
(Thomas Bernhard)

L’opera che accompagna lo scritto è stata disegnata dal mi(se)rabile autore di quest’articolo, mentre con il cucchiaino degustava un più mirabile yogurt alla ciliegia (senza pezzi).

“…capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male…” (da Philip Roth)

“Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite…Beh, siete fortunati.”

(estratto da Philip Roth, “Pastorale americana”, ed. Einaudi)

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