“In quel momento ebbi l’impressione che tutta la mia vita mi fosse davanti e pensai: <<È una sporca menzogna>>. Essa non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze: non avrei mosso neppure il dito mignolo se soltanto avessi potuto immaginare che sarei morto così. La mia vita era davanti a me, chiusa, sigillata come una borsa, eppure tutto ciò che vi era dentro era incompiuto. Un istante cercai di giudicarla. Avrei voluto potermi dire: è una bella vita. Ma non si poteva formulare un giudizio su di essa, era un abbozzo; avevo passato il mio tempo a rilasciar cambiali per l’eternità, non avevo capito niente. Non rimpiangevo nulla: vi erano un mucchio di cose che avrei potuto rimpiangere, il sapore dei manzanilla o i bagni che facevo in estate in una piccola conca vicino a Cadice; ma la morte aveva privato ogni cosa del suo incanto.”
“Un viaggio in treno può essere una cosa terribile, angosciosa o comica; può essere un volo di prova; può essere la prefigurazione di un altro viaggio, come un giorno passato con un amico può essere lungo, dal senso di fretta che si prova al mattino fino alla scoperta che entrambi si ha fame e al pranzo mangiato insieme. Poi viene il pomeriggio, la giornata sbiadisce e muore ma si ravviva nuovamente verso la fine. Dick era addolorato nel vedere la magra gioia di Nicole; pure per lei questo ritorno all’unica casa che conoscesse era un sollievo. Non fecero gli innamorati quel giorno, ma quando la lasciò fuori dalla triste porta sullo Zürichsce e lei si voltò a guardarlo, Dick capì che il problema di Nicole era un problema ormai comune a entrambi”.
Il treno mi ha sempre affascinato e quindi le parole di Fitzgerald hanno attivato i miei neuroni, almeno quei pochi rimasti a combattere la battaglia, scatenando ricordi di vario genere. Prima di pensare a una forma estrema di masochismo, cosa che sareste giustificati a fare se volessi qui tessere l’elogio della bolgia dantesca che è possibile riscontrare su molti treni regionali, voglio subito precisare che il fascino consiste soprattutto nel suo valore metaforico, ma anche, al netto delle condizioni di disagio del pendolare, che ho vissuto sulla mia pelle e che rivivrò (questa è quasi una speranza, perché vorrebbe dire aver ritrovato un lavoro, n.d.r.), nelle possibilità di conoscenza che si hanno all’interno dei vagoni.
Dovevano ammirarlo anche tutti quegli scrittori che hanno ambientato episodi o interi romanzi su un treno. In quest’articolo riporterò alcuni brani tratti da diversi romanzi, scritti da personaggi che, a differenza mia, i neuroni sapevano utilizzarli al meglio. Prima di iniziare la rassegna, qualche breve considerazione sul mio rapporto con il treno, che potete tranquillamente saltare, non costituendo lo scopo principale dell’articolo, sempre che ne esita uno (di scopo). Innanzitutto, Continua a leggere…
“Ci sono giorni nei quali ogni persona che incontro e, ancor di più, le persone abituali della mia convivenza obbligata e quotidiana, assumono aspetti di simboli e, isolati o fra loro connessi, formano un alfabeto profetico od occulto che descrive in ombre la mia vita. L’ufficio diventa per me una pagina con parole fatte di gente; la strada è un libro; le parole scambiate con i conoscenti o gli sconosciuti che incontro sono espressioni per le quali viene meno il dizionario ma non completamente la comprensione. Parlano, si esprimono; eppure non parlano di se stesse e non esprimono se stesse; sono parole, ho detto, e non indicano, lasciano solo intendere. Ma, nella mia visione crepuscolare, distinguo solo vagamente quanto queste vetrate, che si rivelano sulla superficie delle cose, lasciano trasparire dalla loro interiorità che custodiscono e rivelano. Intendo senza arrivare alla coscienza, come un cieco al quale si parli di colori.
A volte, passando per la strada, colgo brani di conversazioni intime, e si tratta quasi sempre di conversazioni sull’altra donna, sull’altro uomo, sul ragazzo di uno o sull’amante dell’altro…
Per il solo fatto di sentire queste ombre di discorso umano, che poi in fondo è tutto ciò di cui si occupa la maggioranza delle vite coscienti, porto dentro di me un tedio disgustato, l’angoscia di un esilio tra ragni e l’immediata consapevolezza della mia umiliazione fra gente reale; la condanna, nei confronti del proprietario e del luogo, di essere simile agli altri inquilini dell’agglomerato; di stare a spiare con disgusto, fra le sbarre del retrobottega, l’immondizia altrui che si ammucchia sotto la pioggia in quel cortile interno che è la mia vita”
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine).
Dopo aver reso parziale giustizia a Joyce, assente di lusso da queste mie pagine, stavolta mi dedico a Fernando Pessoa e al suo “Il libro dell’inquietudine”, capolavoro che lessi tanti anni fa in uno stato d’animo fin troppo predisposto ad assorbire le parole del grande scrittore portoghese. La rilettura che ho appena terminato mi ha permesso di apprezzare ancora di più il libro, proprio perché meno schiavo di certi pensieri mesti che mi avevano avvinghiato al testo di Pessoa.
Nella prefazione al libro, il compianto Antonio Tabucchi, traduttore nonché tra i principali divulgatori dell’opera di Pessoa, spiega il titolo originale dell’opera, “Livro do desassossego por Bernardo Soares” come indicativo della mancanza di sossego, cioè tranquillità o quiete. Lo stesso Tabucchi evidenzia come “Il libro dell’inquietudine”, in qualsiasi versione lo abbiate nelle vostre mani, debba essere considerato un libro potenziale, ipotetico, un’opera aperta, ricostruita secondo determinati criteri dagli esegeti di Pessoa, Continua a leggere…
“Tutto è gratuito, questo giardino, questa città e io stesso. Quando capita di accorgersene, viene il voltastomaco e tutto comincia ad oscillare; ecco la Nausea”.
(Jean-Paul Sartre, “La nausea”)
Stavo sistemando, “dietro le quinte”, alcuni dettagli del mio blog e mi sono accorto che mancano, nella lista degli articoli o delle pagine statiche, testi di autori che per me hanno significato molto in passato. Il motivo è molto semplice. Quando li lessi non avevo ancora preso il brutto vizio di scrivere le mie impressioni sui libri stessi, oppure lo facevo ma senza poi redigere articoli per un blog. Non che la cosa sia così grave, chi capita su queste pagine può vivere senza le mie parole ed io stesso posso sopravvivere senza dover per forza scrivere qualcosa, ad esempio su “L’uomo senza qualità” di Robert Musil oppure su “Ulisse” di Joyce. Detto tra noi, l’idea di rileggere questi capolavori al momento non mi sfiora neanche il cervello, sono libri “enormi” sotto tutti i profili, che però richiederebbero un dispendio di tempo e di energie mentali che ora preferisco dedicare a letture che ancora non ho affrontato.
Posso, però, ovviare a questa mancanza, che (ripeto) è più una pignoleria che altro, riportando, di tanto in tanto, brani tratti da libri che in qualche modo mi colpirono. Ho deciso di iniziare con “La nausea” di Jean Paul Sarte, Continua a leggere…
Sono immerso nella lettura della “Critica della ragione pura” di Kant e quindi ho meno tempo a disposizione per leggere altro o scrivere articoli. Ho pensato, così, di “barare”, ripubblicando un mio vecchio articolo, scritto e pubblicato marzo. All’epoca il mio blog era molto meno seguito, ma a qualcuno piacque questa mia lista semiseria. La propongo anche a chi mi “segue” da meno tempo. Spero che voi abbiate altrettanti e maggiori motivi di amare la Letteratura. 🙂
perché quando sono in fila alla posta, dal dottore o altrove posso attendere il mio turno senza morire di noia
perché l’ultima pagina de “La nausea” di Sartre mi fece piangere
perché ogni anno, il 19 marzo, quando nel mio paese accendono i fuochi per la festa di S. Giuseppe, penso al finale de “La luna e i falò” di Pavese
perché leggendo non ho scoperto il senso della vita, ma ho scoperto che anche se non c’è alcun senso “bisogna immaginare Sisifo felice”
perché quando mi chiedi un consiglio di lettura, anche se vorrei baciarti romanticamente in riva al mare o fare sesso selvaggio con te nel bagno di un pub, io ti consiglio qualcosa e non capisco mai se ho fatto bene a tacere tutto il resto
perché la villetta comunale del mio paese certe volte mi è sembrata davvero Pietroburgo
perché posso fare un elenco come questo
perché un giorno un bibliotecario mi disse che ero una delle persone più interessanti che aveva visto, che stavo seguendo un certo percorso che mi avrebbe portato…e non finì la frase, al che sospettai che alludesse alla pazzia
perché in fondo adoro il pensionato rompiballe che mi ripete da decenni che leggo troppo
perché se passeggio senza un libro in mano, mi sento come se non portassi le mutande
perché mi rendo conto di quanto sia ridicolo passeggiare sempre con un libro in mano
perché quando vedo su un treno una ragazza che legge un libro, penso sempre che potrei innamorarmi
perché mio nonno ha vissuto benissimo senza leggere tanti libri, probabilmente era una persona “migliore” di me, e mi diceva sempre di mettermi al sole per leggere
Mi è stato fatto notare che su questo blog, invece di scrivere Sartre, avevo scritto sempre “Sarte”. Subito, sono andato a controllare l’ultimo articolo e ho trovato, per l’appunto, un bel po’ di “Sarte”, persino nel titolo. Allarmato, sono andato a rivedere (grazie ai tags: che bella invenzione questi tags, come si potrebbe vivere senza?) tutte le pagine che avrebbero dovuto contenere la parola “Sartre”, scoprendo che circa nel 97,98 % dei casi (fonte: Istituto di Ricerca del Perdigiorno) c’era scritto “Sarte” invece di “Sartre”. Ora, avrei potuto trarmi dall’imbarazzo adducendo motivazioni degne dei più moderni tele – show su “Misteri Che Vi Aiuteremo A Risolvere Anche Se Non Vi Cambierà Alcunché Averli Risolti”, oppure, visto che va di moda, fare “outing” (non avevo mai scritto in vita mia la parola “outing” e non potevo morire prima di farlo, siate comprensivi) e dichiarare al mondo intero che non so chi è questo misterioso “Jean Paul Sartre” e che facevo solo finta di avere letto quel libro con il nome così triste, “La nausea” (o era “Lo schifo”, o “L’abominio”, oddio, non lo so), o ancora che sto lavorando in maniera subdola per un’industria tessile che sovvenziona il blog e che mi regala un pacchetto di caramelle ai frutti di bosco al raggiungimento di un certo numero di visite. Nulla di tutto ciò. La spiegazione è molto più banale. Il nemico si chiama “Controlla ortografia durante la digitazione”. Continua a leggere…
Come anticipato in conclusione del precedente articolo, oggi lascio spazio a opinioni ben più illustri della mia sull’argomento “Baudelaire”. È evidente che nel presentarvi le interpretazioni che danno i quattro autori da me prescelti non c’è alcuna pretesa di esaustività, innanzitutto perché nessuno ha la Verità in tasca, e poi perché, per quanto ‘grande’ possa essere un interprete, mai potrà ‘scavare’ a fondo nell’animo di un altro uomo. Premesse queste banalità, vi suggerisco comunque, qualora vogliate approfondire la conoscenza di Baudelaire, di leggervi i libri dai quali ho tratto le citazioni. Non sto qui a specificare ‘quale’ aspetto di Baudelaire ciascuno dei quattro autori ha prevalentemente analizzato, questo spetta alla vostra eventuale curiosità. Come sempre quando si estrae un brano da un testo più corposo, è bene rimandare alla completa lettura del testo stesso, per meglio comprendere di ‘cosa’ sta parlando l’autore in quel passaggio e contestualizzare le parole, che altrimenti potrebbero essere fraintese (per esempio, Camus si occupa di Baudelaire ‘solo’ nella sua analisi sui vari tipi di ‘rivolta’, per poche pagine, mentre Sartre dedica un intero saggio al poeta). Le citazioni, insomma, vogliono essere un invito alla lettura dei testi completi, non un assurdo tentativo di condensare gli stessi in poche parole.
Premesso tutto ciò, la parola a chi ne sa più di me.
“L’atteggiamento costituzionale di Baudelaire è quello d’un uomo curvo. Curvo su se stesso, come Narciso. Non v’è in lui coscienza immediata che uno sguardo acuto non la trapassi. A noialtri basta vedere l’albero o la casa; tutti assorti nel contemplarli, dimentichiamo noi stessi. Baudelaire è l’uomo che non si dimentica mai. Si guarda vedere; guarda per vedersi guardare; Continua a leggere…
(“Punti di tangenza”) La canzone che vi propongo oggi per la rubrica sulle affinità tra musica e letteratura è “Sympathy for the Devil” dei Rolling Stones. Lasciando da parte la letteratura di settore, il “diavolo”, nelle sue diverse accezioni, è sempre stato uno spunto per gli scrittori di ogni epoca. Basti pensare alla figura del diavolo tentatore Mefistofele nel “Faust” di Goethe (“Dunque tu chi sei?” “Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”), al dramma teatrale “Il diavolo e il buon Dio” di Sartre, nel quale l’autore cerca di dimostrare l’impossibilità di realizzare il Male Assoluto e il Bene Assoluto, alla bottiglietta contenente “Gli elisir del diavolo” di E.T.A. Hoffmann, allo spiritello evocato ne “Il diavolo innamorato” di Jacques Cazotte, o ancora ad alcune poesie contenute ne i “Fiori del male” di Baudelaire. L’elenco potrebbe continuare ma lascio a voi la scelta del vostro diavoletto di fiducia.
Per tornare alla rubrica, c’è da dire che nel testo della canzone non vi sono riferimenti precisi ed espliciti a un romanzo particolare, e tuttavia nell’ascoltarla il mio pensiero non può che andare a due capolavori della letteratura russa, cioè “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov e “I demoni” di Dostoevskij.
“And I was ‘round when Jesus Christ
Had his moment of doubt and pain
Made damn sure that Pilate
Washed his hands and sealed his fate”
I versi sopra riportati evocano, nella mia mente, le meravigliose pagine del “romanzo nel romanzo” che Bulgakov dedica all’incontro tra Gesù Cristo e Ponzio Pilato, ovviamente senza dimenticare la figura del diavolo Woland, tra i protagonisti principali del libro. Colgo anche l’occasione per segnalare agli appassionati di questo romanzo che ancora non lo sapessero che c’è una serie tv russa tratta dal “Maestro e Margherita”. È sottotitolata in italiano e a me piace molto. La trovate su youtube, suddivisa in dieci puntate, ciascuna a sua volta in cinque parti.
“I stuck around St. Petersburg
When I saw it was a time for a change
Killed the czar and his ministers
Anastasia screamed in vain”
Questi altri versi, invece, mi rimandano al “profetico” romanzo di Dostoevskij, del quale vi riporto un estratto.
“Nei periodi torbidi d’oscillazione o di transizione, sempre e dovunque compare molta gentaglia. Io non parlo dei così detti ‘antesignani’, i quali hanno sempre hanno sempre fretta di passare avanti a tutti (è la loro preoccupazione principale) con uno scopo, sebbene assai spesso stupidissimo, tuttavia più o meno definito. No, io parlo solo della canaglia. In ogni periodo di transizione si solleva la canaglia che c’è in ogni società e si solleva non solo senza nessuno scopo, ma senza nemmeno avere l’ombra di un’idea, esprimendo soltanto, con tutte le forze, la propria inquietudine e la propria impazienza. Intanto questa canaglia, senza nemmeno saperlo, quasi sempre vien a trovarsi sotto comando di quel piccolo crocchio di ‘antesignani’ che agiscono con uno scopo definito e quello indirizza tutta questa immondizia dove più gli piace, a meno che lo stesso crocchio non sia composti di perfetti idioti, cosa che, del resto, talvolta succede”.
Ho pensato ad alcune situazioni della mia esistenza, accomunate tutte dal fatto che avevo un libro tra le mani e che lo stavo leggendo. Non dico che fossero situazioni “strane”, perché i concetti di “stranezza” e di “normalità” sono abbastanza discutibili, tuttavia si trattava certamente di situazioni per me insolite.
Via con l’elenco, stilato facendo ricorso alla mia labile e istintiva memoria. A ciascuna situazione ho cercato di abbinare un libro, che non è quello che stavo leggendo in quel momento (mi preoccuperei se ricordassi anche questo). Non escludo di aggiornare in seguito la lista. E voi, dove l’avete letto? In che posizione del vostro “Kamasutra” da lettore vi siete esibiti?
Quando lavoravo a Trastevere, prendevo ogni mattina il bus “H”, da Termini. Il quarto d’ora che passavo lassù lo spendevo ascoltando musica o leggendo un libro, oltre che per guardare Via Nazionale e le altre meraviglie di Roma. Un giorno ero appoggiato a un finestrino e stavo leggendo. C’era la solita calca, ma riuscivo a estraniarmi dal contesto e leggevo. Notai, accanto a me, un signore in abito elegante, giacca e cravatta. Mi attirò perché credevo che mi avesse rivolto la parola. Ben presto mi accorsi che parlava da solo. Più precisamente, recitava la parte di due personaggi, uno pessimista, disfattista, l’altro propositivo. Il “dibattito” dell’uomo con se stesso, che si svolgeva abbastanza ad alta voce, proseguì per tutta Via Nazionale, fino a Piazza Venezia. Poi l’uomo scese, gesticolando. In mano aveva una valigetta. Mi chiesi dove fosse diretto, magari in qualche ufficio, laddove avrebbe indossato una terza personalità. Ripresi a leggere.
L’estate scorsa decisi di rileggermi tutto Kafka, ma proprio tutto, dai romanzi ai racconti di una pagina. Il fatto è che l’estate scorsa è stata anche quella che più mi ha visto sulle spiagge. Leggersi “Il castello” al mare è stata un’esperienza particolare. Non tanto perché avevo a disposizione cinque centimetri quadrati per posizionarmi; nemmeno perché fossi distratto dalle chiacchiere dei vicini d’ombrellone; e neanche, infine, perché fanciulle più o meno scolpite nella roccia e abbronzate come Briatore potessero mettere in difficoltà i miei ormoni. L’ostacolo più grave da superare era di altra natura. Leggere Kafka al mare è possibile, leggere Kafka al mare quando ci sono 40 gradi comincia a essere più arduo. Più o meno alla fine di ogni due pagine, circa un litro di sudore andava disperso nella sabbia. Ben presto mi accorsi che la passione per la letteratura doveva lasciare spazio alla passione per la vita. In altre parole, capii che non potevo rischiare la disidratazione, pur con tutto l’affetto per Franz. Chiusi le pagine e mi gettai tra le braccia di Poseidone. Continua a leggere…
perché quando sono in fila alla posta, dal dottore o altrove posso attendere il mio turno senza morire di noia
perché l’ultima pagina de “La nausea” di Sartre mi fece piangere
perché ogni anno, il 19 marzo, quando nel mio paese accendono i fuochi per la festa di S. Giuseppe, penso al finale de “La luna e i falò” di Pavese
perché leggendo non ho scoperto il senso della vita, ma ho scoperto che anche se non c’è alcun senso “bisogna immaginare Sisifo felice”
perché quando mi chiedi un consiglio di lettura, anche se vorrei baciarti romanticamente in riva al mare o fare sesso selvaggio con te nel bagno di un pub, io ti consiglio qualcosa e non capisco mai se ho fatto bene a tacere tutto il resto
perché la villetta comunale del mio paese certe volte mi è sembrata davvero Pietroburgo
perché posso fare un elenco come questo
perché un giorno un bibliotecario mi disse che ero una delle persone più interessanti che aveva visto, che stavo seguendo un certo percorso che mi avrebbe portato…e non finì la frase, al che sospettai che alludesse alla pazzia
perché in fondo adoro il pensionato rompiballe che mi ripete da decenni che leggo troppo
perché se passeggio senza un libro in mano, mi sento come se non portassi le mutande
perché mi rendo conto di quanto sia ridicolo passeggiare sempre con un libro in mano
perché quando vedo su un treno una ragazza che legge un libro, penso sempre che potrei innamorarmi
perché mio nonno ha vissuto benissimo senza leggere tanti libri, probabilmente era una persona “migliore” di me, e mi diceva sempre di mettermi al sole per leggere