Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “amore”

“Principianti” (Raymond Carver)

carver

“- In effetti che ne sappiamo noi dell’amore? – ha proseguito Herb. – E quel che dico, be’, lo dico davvero, se volete perdonarmi la franchezza. Ma, secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto d’amore. Diciamo di amarci e magari è vero, non ne dubito. Ci amiamo a vicenda e ci amiamo forte, tutti noi. Io amo Terri e Terri ama me e anche voi due vi amate. Sapete, no, di che tipo d‘amore parlo? Dell’amore fisico, quell’attrazione verso l’altro, verso il proprio compagno, e anche del semplice amore di tutti i giorni, l’amore per l’essere dell’altro, l’amare il tempo passato insieme, insomma tutte le piccole cose che costituiscono l’amore di tutti i giorni. L’amore carnale, dunque, e, be’, chiamiamolo pure l’amore sentimentale, la cura e l’affetto quotidiano per l’altra persona. Ma a volte ho grosse difficoltà a fare i conti con il fatto che devo aver amato anche la mia prima moglie. Però è vero, lo so che è vero. (…) C’è stato un momento in cui credevo di amare la mia prima moglie più della vita, abbiamo anche fatto dei figli assieme. Invece ora la detesto con tutto il cuore. Davvero. Voi come lo spiegate? Che cosa è successo a quell’amore? È stato semplicemente cancellato dalla grande lavagna, come se non fosse mai successo? Vorrei tanto saperlo, che fine ha fatto. Vorrei tanto che qualcuno me lo dicesse.”
(Raymond Carver, “Principianti”, ed. Einaudi)

Pubblicità

A scuola da Molière

Moliere

“CRISTALDO
Dunque, siete venuto qui per sposarvi?
ARNOLFO
Sì, voglio concludere la cosa per domani.
CRISALDO
Siamo qui soli, e mi pare che possiamo parlarne senza paura d’essere ascoltati. Volete che in tutta amicizia vi apra il mio cuore? Questo vostro progetto mi fa tremare di paura: perché, in qualsiasi modo mettiate le cose, prender moglie nel caso vostro è una faccenda piuttosto temeraria.
ARNOLFO
Forse la verità, amico mio, è che pensando alla vostra famiglia trovate motivo di preoccuparvi per la mia; ed è la vostra fronte, credo, che vi fa pensare che le corna siano l’immancabile corollario del matrimonio.”
(Molière, “La scuola delle mogli”, ed. Bur)

“Le straordinarie avventure di Julio Jurenito” (Il’ja Erenburg)

sdr

“In seguito si innamorò di Njura, una ragazza dagli occhi celesti, figlia di un impiegato delle poste, i cui tratti caratteristici erano quattro boccoli a forma di salsicciotti, un medaglione con l’immagine di un gattino e una passione sfegatata per la cioccolata al pistacchio. L’innamorato vagava senza meta, sospirando. Finalmente, dopo lunghi discorsi sulla propria solitudine e progressivi avvicinamenti alla ragazza sull’angusto divano, ne ottenne un bacio significativo. Lo assalirono quindi i primi dubbi. Per quanto sublime e seducente apparisse l’amore nelle opere dei migliori scrittori, per quanto dolci fossero le labbra tumide di Njura, molti aspetti lo lasciavano perplesso. Njura non era né Stëša né Marunja: aveva un padre e compagnia bella. In altre parole, bisognava sposarsi. Ma Njura non era nemmeno Beatrice, assetata di divino e di sacra ribellione: bisognava trovarle un impiego, altroché, e poi fasce e pannolini. I bambini, soprattutto. Ma si può forse leggere Nietzsche o Schopenhauer, con un marmocchio che ti frigna addosso?”

(Il’ja Erenburg, “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, ed. Meridiano Zero)

Non avevo mai letto alcun libro di Il’ja Erenburg e devo la sua conoscenza a Pablo Neruda, che me lo ha “presentato” nella sua autobiografia “Confesso che ho vissuto”, citandolo a più riprese. Grazie al poeta cileno ho così potuto scoprire la bellezza di un romanzo quale “Le straordinarie avventure di Julio Jurenito”, un concentrato di satira, ironia, sarcasmo, un testo che è difficile definire un classico romanzo, perché è piuttosto una serie di quadri nei quali i protagonisti disquisiscono, con un certo beffardo cinismo ma non senza empatia per la debolezza umana, di argomenti quali la religione, i totalitarismi, l’amore, la religione, il sesso, insomma di tutto e di più.

Julio Jurenito è fautore di una non-filosofia di vita, un nichilismo volto a sovvertire l’ordine, un anarchico del pensiero che appare, quasi in veste da diavolo, a Erenburg stesso, in un caffè parigino. Capitolo dopo capitolo, il gruppo si espande, perché il Maestro, cioè Jurenito, assolda strada facendo una serie di personaggi strambi, quali Mister Cool, che vuole mettere su una società per azioni dedita alle missioni religiose, l’ingenuo senegalese Aisca, il mistico nichilista russo Tisin che cerca l’Uomo, il nullafacente romano Ercole Bambucci, e ancora Monsier Delhaie, che vuole costruisce una necropoli universale, per finire con Schmidt, studente tedesco dall’aberrante razionalità.

Assieme a codesti strampalati compagni di viaggio, il Maestro Julio attraversa il periodo che va dal 1913 al 1921 (anno in cui Erenburg scrisse il romanzo), ovvero un’epoca contrassegnata dalla violenza di una guerra mondiale e della Rivoluzione russa. Il libro, dunque, non è solo una carrellata di assurde e umane debolezze, ha un substrato ben più drammatico, ma la penna di Erenburg è comunque dissacrante, così che, in sostanza, si sorride, anzi si ride spesso, sia pure con la consapevolezza che, probabilmente, si sta ridendo per non piangere.

“Dell’amore” (Anton Cechov)

Dell'amore (Cechov)

“Presero a parlare d’amore.
– Come nasca l’amore – disse Alëkin, – perché Pelageja non si sia innamorata di qualcun altro più confacente a lei e alle sue qualità spirituali e fisiche, ma si sia incapricciata proprio di Nikanor, di quel brutto ceffo (qui da noi lo chiamano tutti così), visto che in amore sono importanti i problemi di felicità personale, tutto questo non ci è dato saperlo e di queste cose possiamo discutere a piacimento. Fino a questo punto a proposito dell’amore è stata detta una sola indiscutibile verità, nella fattispecie che questo segreto è grande; tutto il resto che è stato scritto o detto sull’amore non è stato una soluzione ma soltanto un’impostazione dei problemi che però sono rimasti irrisolti. La spiegazione che pareva adattarsi a un caso non vale più per gli altri dieci e la cosa migliore da farsi, a mio parere, è esporre ogni caso singolarmente, senza cercare di generalizzare. Bisogna, come dicono i dottori, isolare ogni singolo caso.”
(Anton P. Cechov, “Dell’amore”)

“Non abitiamo più qui” (Andre Dubus)

25299556_10212371887586973_436044910783747443_n

“In un matrimonio esistono diversi tipi di bugie la cui malignità uccide pian piano ogni cosa: quel giorno io stavo sperimentando l’intera gamma, che andava dalla bugia bell’e buona dell’adulterio, fino all’accurata selezione d’informazioni che avviene quando tra due persone iniziano ad esserci argomenti di cui non si può più parlare. È dura dire quale delle due cose uccida prima, ma direi questa selezione degli argomenti di conversazione, perché è una resa: eviti di toccare le ferite e di conseguenza eviti di toccare le profondità del cuore. (…)
Così cercavo di sedare il nostro male con un palliativo, e facevo giri di parole per evitare di parlare direttamente di noi, di quello che eravamo, e in ogni momento sapevo, con una punta di disperazione, che ormai avevo assunto per sempre quella posa facile e bugiarda. Col passare degli anni ci ero scivolato dentro, gradualmente, come in una morte lenta, e ora, passati quegli anni e in vista di tutti gli anni a venire, avevo smarrito ogni proposito di onestà fra noi. E tuttavia alle volte, quando ero solo e lontano da casa – sempre, perché succedesse, dovevo essere lontano da casa, magari a guidare in un giorno di sole, fra alberi verdi e prati rigogliosi – mi capitava di sentire come una specie di canzone che proveniva da un altro tempo lontano e allora mi veniva da piangere (anche se poi non piangevo) pensando a quando l’amavo ogni giorno e, al pomeriggio, risalivo la strada di casa felice di vederla, giorni in cui non dovevo mai pensare prima di parlare.”
(Andre Dubus, “Non abitiamo più qui”, ed. Mattioli 1885)

“Molti matrimoni” (Sherwood Anderson)

sdr

“Chi cerca l’amore e va verso di esso impulsivamente, senza tenere conto della complessità della vita moderna è, se non un pazzo, almeno un temerario.

Non avete mai vissuto un momento nel quale fare ciò che in altri momenti risulta il più semplice e naturale degli atti, diventa improvvisamente un’impresa titanica?

Siete nella stanza d’ingresso di una casa. Di fronte a voi c’è una porta chiusa e, dietro la porta, seduto o seduta in una poltrona vicino alla finestra, c’è un uomo o forse una donna.

È il tardo pomeriggio d’un giorno d’estate, e avete deciso di avvicinarvi alla porta, di aprirla e dire:

– Non intendo più continuare a vivere in questa casa. Il mio baule è pronto e fra un’ora un uomo, al quale già ho dato l’ordine, verrà a prenderlo. Sono qui soltanto per dirti che non posso più continuare a vivere con te.

Siete dunque nell’ingresso, e tutto ciò che dovete fare è entrare nella stanza e dire queste poche parole. La casa è silenziosa e voi rimanete a lungo nell’anticamera, timoroso, esitante, senza aprire bocca. Lentamente vi rendete conto che siete giunti fino a lì in punta di piedi.

Per voi e per la persona che si trova dietro la porta è assolutamente consigliabile non continuare a vivere nella stessa casa. Questo dovreste dichiarare, ma probabilmente avete perso il buon senso. Perché non siete in grado di parlare giudiziosamente?

Perché vi riesce così difficile fare quei tre passi verso la porta? Le vostre gambe sono ancora in uno stato eccellente. Perché i vostri piedi sono tanto pesanti?

Siete un uomo giovane. Perché le vostre mani tremano come quelle di un vecchio?

Siete sempre stato convinto di essere un uomo coraggioso. Perché improvvisamente vi siete trasformato in una creatura debole e vile?

È divertente o è tragico sapere che non osate andare verso la porta, aprirla, ed entrando dire quelle poche parole senza che la vostra voce cominci a tremare?

Siete ancora in grado di controllarvi o siete praticamente come un pazzo? Perché quella ridda di pensieri circola senza tregua nel vostro cervello? Una ridda di pensieri che, mentre siete lì esitante, vi trascina già verso un abisso senza fine?

(Sherwood Anderson, “Molti matrimoni”, Robin edizioni) 

“Una nuova vita” (Bernard Malamud)

dav

“Dentro, gli si accelerava la fuga. Non stava fuggendo eppure fuggiva, incapace di individuare da chi scappava, se da se stesso o da lei. Attribuiva quella fuga, che paradossalmente era inseguire il sentimento, al fatto che erano accadute troppe cose in un tempo troppo breve. Non riusciva a farcele stare tutte, l’esperienza traboccava, confondendo ogni giudizio. Aveva, dal giorno della loro separazione, nutrito la segreta speranza che attraverso l’amore si fossero vicendevolmente destinati a un futuro; non aveva previsto che il futuro gli esplodesse in faccia, mandando in frantumi tutto quello che doveva pensare, decidere, fare. Era una tremenda responsabilità: rubare la moglie a un altro, lo squallido subbuglio di un divorzio, il doversi adattare a lei, a tutte le sue abitudini e impedimenti, accordare al suo schiamazzo la propria vita silenziosa di scapolo, i bisogni, le aspirazioni, i progetti, che, se anche distrutti e sostituiti più di una volta, restavano sostanzialmente quelli che erano stati, solo che la loro realizzazione si andava allontanando dal suo naso a ogni passo che muoveva. Era come dilaniato dall’intensa pressione degli eventi, dalle troppe possibilità nuove: dove le avrebbe messe tutte? Temeva che il suo destino fosse stato deciso a sua insaputa, dal caso, da lei, non da lui. Lei annunciava i tempi della corsa e lui si trovava a regolarci sopra il suo ritmo di gara. Aveva seri dubbi, se avesse riattaccato con lei, di poter restare il vero padrone del proprio destino; aveva già perso – cosa terribile – la libertà di sentirsi libero.”

(Bernard Malamud, “Una nuova vita”, ed. minimum fax)

Seymour Levin, professore trentenne, ex alcolizzato per via anche di tragedie familiari mai superate, sprovveduto, idealista, ma soprattutto stanco di New York, viene chiamato da un college del Nord-Est statunitense, laddove spera di ricostruirsi una nuova vita. La chiamata arriva insperata, ma per Levin lo spostamento dalla metropoli alla cittadina di 10.000 abitanti sembra, inizialmente, essere davvero la tanto agognata svolta.

Inesorabilmente, però, Levin si trova invischiato in rivalità più o meno subdole tra colleghi, in lotta per le elezioni del Dipartimento, ma soprattutto si rende conto di aver frainteso la cattedra per la quale è stato chiamato, non potendo estrinsecare la sua passione per i romanzi e sentendosi ingabbiato nelle lezioni di grammatica che gli sono richieste. A complicargli l’esistenza, però, è principalmente il desiderio di una donna, che infine trova incarnazione in Pauline, moglie del professor Gilley, cioè colui al quale Levin deve la chiamata al college.

La passione per Pauline getta Levin in un caos totale, in quella che è davvero una “nuova vita”, ma fatta di bugie, ricatti morali, sensi di colpa, clandestinità. Levin, indeciso su quali strade intraprendere di volta in volta, si scontra anche con un ambiente, universitario e non solo, tutt’altro che di larghe vedute, anzi piuttosto gretto, passando da una sconfitta all’altra eppure sentendo, in fondo, che solo nel contrastato amore per Pauline potrà trovare un certo senso alla sua esistenza fino ad allora inconcludente.

 

“Di contrabbando” (D. H. Lawrence)

IMG_20171122_150037.jpg

“Sigmund non rispose: spesso ella lasciava cadere così il discorso abbandonandolo al suo senso di tragedia. Non aveva nessuna idea di quanto la vita di lui fosse sradicata; e quando egli aveva tentato di farglielo intendere, ella aveva deviato, lasciandolo così, nel suo intimo, assolutamente solo.

– Non c’è settimana prossima – affermò la donna con grande calore – non c’è che il presente.

Nello stesso tempo si alzò e gli guizzò vicina. Cingendogli il collo con le braccia, gli chiuse forte il capo contro il suo cuore, immergendogli le mani nei capelli: sentiva egli, stretta contro il seno di lei, le narici e la bocca. Aspirava l’odore delle sue vesti di seta, e il morbido, inebriante aroma del suo corpo; a occhi chiusi si ripeteva, serio, tra sé che ella era cieca sul suo conto. Ma un altro se stesso esultava felice, senza preoccuparsi che ella fosse o no cieca, ora che così gli premeva la faccia contro il suo seno. Gli lisciò e gli accarezzò i capelli; fremendo si serrò ancora il capo di lui contro il petto, come se non avesse voluto più sciogliersi da lui, e si chinò a baciargli la fronte. Egli la prese per le braccia e così rimasero per un po’, immobili.”

(David Herbert Lawrence, “Di contrabbando”, ed. dall’Oglio)

Pur non raggiungendo le vette di “L’amante di Lady Chatterley” e “Figli e amanti”, due libri che mi piacquero tanto e che con l’occasione consiglio, “Di contrabbando” mi ha confermato ancora l’abilità di D. H. Lawrence nel mostrarci la nascita, lo sviluppo, la decadenza di passioni amorose.

Il romanzo è, infatti, la storia del rapporto tra la violinista Elena, neanche trentenne, e il quasi quarantenne Sigmund, suo maestro di musica e amante. Sposato a Beatrice, con figli, Sigmund trascorre con Elena una settimana lontano dalla routine del quotidiano, all’insegna delle molteplici sensazioni che un’avventura clandestina del genere può offrire. Alla gioia del poter condividere con l’amato spazi di libertà altrimenti impossibili, all’ardore che può scoccare sotto il sole cocente di spiagge selvagge, si uniscono emozioni di verso opposto, quali l’angoscia del sapere che tutto è una parentesi e che presto, inesorabile, il Tempo arriverà a dividere nuovamente gli amanti. Il ritorno ai doveri coniugali e paterni, inoltre, sarà per Sigmund fonte di una drammatica resa dei conti con la realtà e con sé stesso.

Lawrence, con la sua prosa lirica e sensuale, ci mostra quindi il desiderio crescente tra la sognatrice Elena e l’apparentemente più rude Sigmund, la paura di un eccessivo coinvolgimento emotivo, il terrore puro del distacco ormai prossimo, ma anche le distanze, sottili ma non meno subdole, che i due, a contatto per più giorni, cominciano a cogliere.

Un libro, insomma, sull’estasi inquieta che una passione “di contrabbando” può donare e sulle conseguenze (non sempre piacevoli, a volte tragiche) dell’amore o dei suoi surrogati.

“- Sembra che ci sia ancora un’eternità prima del treno delle tre e quarantacinque, no? – ella insistette.
– Vorrei che non avessimo da tornare a casa mai più.
Elena sospirò.
– Sarebbe pretendere troppo dalla vita. Qualche cosa noi lo abbiamo avuto, Sigmund – disse.
Egli chinò il capo senza rispondere.
– Sì, caro, qualche cosa era – ripeté Elena.
Egli si levò e se la strinse tra le braccia.
– Tutto, era – disse con la testa affondata nella sua spalla nuda, profumata d’uno squisito e fresco odore di mare. – Tutto.”

“Il diavolo in corpo” (Raymond Radiguet)

radiguet

“Il sonno ci aveva sorpresi nudi. Risvegliandomi, nel vederla scoperta, temetti che avesse preso freddo. Toccai il suo corpo. Bruciava. Vederla dormire mi procurava una voluttà senza pari. Dopo dieci minuti questa voluttà diventò insopportabile. La baciai sulla spalla. Non si svegliò. Un secondo bacio, meno casto, agì con la violenza di una sveglia. Sussultò e battendo gli occhi mi coprì di baci come se io fossi qualcuno che si ama e che si ritrova nel proprio letto dopo aver sognato che è morto. Lei, invece, aveva creduto di sognare ciò che era la realtà e mi ritrovava al risveglio.”

(Raymond Radiguet, “Il diavolo in corpo”, ed. Einaudi)

Da molti anni osservavo nello scaffale della biblioteca del mio paese “Il diavolo in corpo”, autore Raymond Radiguet, nella traduzione di Francesca Sanvitale, collana “Scrittori tradotti da scrittori” della Einaudi. Devo ammettere che a tenermi lontano da questo romanzo breve era sempre stato una sorta di pregiudizio verso la giovane età dell’autore, che morì, purtroppo, a soli vent’anni, nel 1923.

L’altro giorno, non so perché, mi sono deciso ad affrontare questa storia di una passione giovanile, a tratti ingenua, certo audace, furente, incosciente, tra il protagonista-narratore sedicenne e Marthe, più grande di lui e già sposata con il militare Jacques. Approfittando dello scoppio della guerra, il giovane e Marthe danno vita a un adulterio che agli occhi dei concittadini è del tutto amorale e che loro vivono in un crescendo di scoperte, gelosie, furbizie, gioie e malinconie. Radiguet, pur facendo prevalere l’aspetto trasgressivo e passionale, non manca di innestare, nella storia, alcune riflessioni più raziocinanti che quasi sorprendono vista la sua giovane. Resta, per l’appunto, il rammarico per la precoce morte dell’autore, nonché la sorpresa nell’essere stato smentito nel mio pregiudizio.

“Quando dormiva così, con la testa appoggiata al mio braccio, mi chinavo su di lei per vedere il sui viso circondato dalle fiamme. Giocavo con il fuoco. Un giorno che mi avvicinai troppo senza che il mio viso toccasse il suo, diventai l’ago che passa di un millimetro la zona interdetta e appartiene alla calamita. Colpa della calamita o dell’ago? Sentii le mie labbra contro le sue. Lei teneva ancora gli occhi chiusi, ma si vedeva che era il modo di chi non dorme. La baciai, stordito dalla mia audacia mentre, in realtà, era stata lei ad attirare la mia testa contro la sua bocca quando mi ero avvicinato. Le sue mani si chiusero intorno al mio collo; non si sarebbero aggrappate con più furia in un naufragio. E non capivo se voleva che io la salvassi o che annegassi insieme a lei.”

 

“La solitudine” (Alberto Moravia)

Moravia

“Era chiaro che Mostallino con quella sua conversazione voleva fare intendere a Perrone che, nonostante la presenza della donna, nulla tra di loro era cambiato. E così anche Perrone avrebbe voluto che fosse. Invece, per quanto si sforzasse di mettere in quei discorsi la consueta foga, egli si accorgeva con dispetto che i suoi pensieri erano altrove. Non soltanto non sapeva quasi rispondere a tono alle domande dell’amico e ogni tanto inciampava e si incantava come colpito da amnesia, ma neppure riusciva ad evitare che i suoi sguardi si appuntassero con troppa frequenza su Monica ritta tra loro, le spalle al camino. Erano sguardi indocili che andavano a Monica anche quando avrebbe voluto rivolgerli all’amico; e per quanto cercasse di renderli almeno leggeri e casuali, si abbattevano invece su quelle belle membra come mani pesanti che vogliono palpare e ghermire. Quasi quasi si meravigliava Perrone che sotto quelle occhiate furtive e indiscrete, Monica non cacciasse ogni tanto un grido o trasalisse e si contorcesse come chi si senta ad un tratto brancicare da dita violente. Ma Monica, e questo accresceva il suo turbamento,nonché rinchiudersi pareva, al contrario, sotto o suoi sguardi, aprirsi e respirare meglio come un fiore carnoso sotto un’acqua che lo ristori. Ella rispondeva, è vero, ogni tanto agli sguardi di Perrone con sguardi furtivamente supplichevoli che parevano significare: non mi guardi in questo modo, si moderi, perché mi guarda così?; ma era chiaro che anche queste mute implorazioni facevano parte di una sua provinciale e rustica civetteria. Insomma, pareva già complice, già d’accordo con lui per tradire Mostallino alla prima occasione. Questo pensiero riempiva Perrone di ripugnanza; e pur non potendo fare a meno di cedere troppo spesso all’attrazione che esercitava su di lui la vista di Monica, si riprometteva con rabbiosa fermezza di non oltrepassare mai questa prima muta fase del suo involontario tradimento.”
(Alberto Moravia, “La solitudine”, in “Racconti”, ed. Garzanti)

Navigazione articolo

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: