Tra sottosuolo e sole

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Ingeborg Bachmann e i suoi luoghi a Roma

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Ingeborg Bachmann, poetessa, giornalista e scrittrice austriaca, morì a Roma nell’ottobre del 1973, qualche giorno dopo un incendio avvenuto nella sua casa di Via Giulia n. 66.
Dal 1966 al 1971 aveva vissuto e lavorato in Via Bocca di Leone 60 ed è in questa via che è apposta una targa ricordo.
Nello spostarmi tra questi due luoghi, sono passato sul Lungotevere, seguendo un suo consiglio (“Bisogna camminare lungo il Tevere e non guardarlo dai ponti”) e rileggendo le emozionanti parole che la Bachmann ha dedicato alla città di Roma, in particolare lo scritto “Quel che ho visto e udito a Roma”, ed. Quodlibet.

“Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere, S.P.Q.R. La si può leggere sullo stemma degli autobus che passano, sulla copertura dell’accesso a una fogna. Essa è la carta d’identità delle fontane e delle bevande gravate da imposta; il segno dell’unica maestà che ha governato senza interruzioni la città.
Alla stazione Termini ho visto che a Roma i commiati sono presi più alla leggera che altrove. Perché quelli che partono lasciano a quelli che restano lo scontrino della nostalgia.”

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“Nel vicolo Protocny” (Ilja Ehrenburg)

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“Il pubblico non ha cuore, e non ha neppure orecchie. Chi va a vedere quelle pellicole? vi domando io. Voi? No, al cinema vanno i Sacharov, i Pancratov, i Prachov. Essi guardano come sullo schermo un generoso cinese salva a rischio della propria vita una ragazza infelice e gridano: «Bravo!»; poi ritornano a casa e uccidono con la massima calma qualche ragazza. Allora a che scopo ha vissuto Beethoven? Voi conoscete il latino. Una lingua che deve probabilmente avere l’armonia di una meravigliosa musica. Ma perché avete insegnato loro questo latino? Se siete una persona tanto colta, spiegatemi dunque: perché tutta quella gente può in questo momento dormire tranquilla, mentre io ho male al cuore?”
(Ilja Ehrenburg, “Nel vicolo Protocny”, ed. dall’Oglio)

“Commento alla vita di Don Chisciotte” (Miguel de Unamuno)

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(Libro molto particolare e interessante per chi abbia amato il romanzo di Cervantes, al netto di qualche forzatura nel parallelismo tra il Cavaliere della Mancia e Sant’Ignazio di Loyola. Non è un romanzo, non è un saggio, non è una recensione, non è una biografia di un personaggio di fantasia, ma al tempo stesso è un po’ di tutto ciò.)

“Sei caduto, signor mio Don Chisciotte, per la fiducia riposta nella tua forza e nella forza di quel ronzino al cui istinto affidavi la scelta della via. La tua presunzione, quella di crederti figlio delle tue azioni, ti ha perduto. Sei caduto, mio povero idalgo, e le tue armi sulla terra ti sono di impaccio più che di aiuto. E tuttavia non importa, poiché il tuo trionfo fu sempre nell’osare, non nel successo. Quella che i mercanti chiamano vittoria sarebbe stata indegna di te: la tua grandezza era nel non riconoscerti vinto. Sapienza del cuore non scienza dell’intelletto è quella che ignora la sconfitta e sa servirsene. Oggi sconfitti sono i mercanti toledani e la gloria è tua, nobile Cavaliere, di te che caduto, pur tra gli sforzi per rialzarti li affrontavi chiamandoli ‘gente schiava e codarda’; mostrando loro in tal modo che non per tua colpa, bensì per colpa del tuo cavallo fossi in terra disteso. Anche noi, tuoi fedeli, non per nostra colpa, ma per colpa dei ronzini che ci guidano per i sentieri della vita siamo in terra distesi né possiamo rialzarci, tanto ci impaccia il peso dell’antica armatura. Chi ce la toglierà di dosso?”

(Miguel de Unamuno, “Commento alla vita di Don Chisciotte”, ed. Corbaccio)

“Menzogna e sortilegio” (Elsa Morante)

“In queste notti di veglia, al posto dell’antica menzogna ho una nuova compagna: la memoria. Trascorro l’intera notte a ricordare eventi passati. Non soltanto il mio passato, e in particolare l’infanzia, e l’ultimo anno vissuto coi miei parenti, che ritrovo intatto e vivido come fosse di ieri; ma anche il loro passato, quello di mio padre e di mia madre, e della mia famiglia defunta. Non posso usare altro verbo che ‘ricordare’: infatti tutto ciò che ignoravo di loro mi si spiega naturalmente, e io ripercorro fin dal principio le loro vite come se tutte fossero episodi della mia. Allo stesso modo di chi, ridestatosi da un sonno letargico, ritrovi ad una ad una, dopo una breve incertezza, le circostanze della propria vita da sveglio.”
(Elsa Morante, “Menzogna e sortilegio”, ed. Einaudi)

“La ciociara” (Alberto Moravia)

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(Pubblicato nel 1957, il romanzo è la trasfigurazione letteraria dell’esperienza vissuta da Moravia ed Elsa Morante sulle colline circostanti Fondi, nel periodo settembre 1943-maggio 1944.
Nel romanzo, la narrazione è affidata a Cesira, popolana, negoziante a Roma e costretta, assieme all’ingenua figlia Rosetta, a scappare dalla capitale per rifugiarsi, appunto, sulle colline di Fondi.
Il libro è malinconico, tragico, scorrevole, una potente riflessione sullo squallore e la miseria umana che la guerra enfatizza a livelli estremi.)
“Ci disse pure il caso di una famiglia di sfollati che aveva passato quasi un anno in montagna, come noi, e poi discesa abbasso al momento dell’arrivo degli alleati e si era messa in una casetta sulla strada, a poca distanza dalla nostra: una bomba aveva preso in pieno quella casetta ammazzando tutti quanti: marito, moglie e quattro figli. Io ascoltavo queste cose senza dir nulla e così Rosetta. In altri tempi avrei esclamato: “Ma come? E perché? Poveretti. Guarda un po’ che fatalità.” Ma adesso non me la sentivo di dir nulla. In realtà le nostre disgrazie ci rendevano indifferenti alle disgrazie degli altri. E in seguito ho pensato che questo è certamente uno dei peggiori effetti della guerra: di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà.”
(Alberto Moravia, “La ciociara”)

“Nozze di sangue” (Federico García Lorca)

garcia lorca

“SPOSA Non avvicinarti!
LEONARDO Tacere e bruciarsi è il castigo più grande che possiamo attirarci addosso. A che m’è servito, a me, l’orgoglio e il non guardarti e lasciarti vegliare per notti e notti? A nulla! M’è servito ad attirarmi il fuoco addosso! Perché credi, tu, che il tempo guarisca e che le pareti nascondano, e non è vero, non è vero. Quando le cose sono arrivate troppo dentro, non c’è chi possa sradicarle!
SPOSA (tremando) Non ti posso sentire. Non posso ascoltare la tua voce. È come se bevessi una bottiglia d’anice e mi addormentassi su un materasso di rose. E mi trascina, so che affogo, ma seguito ad andarci dietro.”
(Federico García Lorca, “Nozze di sangue”, ed. Einaudi)

“La tempesta” (William Shakespeare)

la tempesta

“Mi pare, figlio mio,
che tu sia agitato come da paura:
non temere. Il nostro gioco è finito.
Gli attori, come dissi, erano spiriti,
e scomparvero nell’aria leggera.
Come l’opera effimera del mio
miraggio, dilegueranno le torri
che salgono su alle nubi, gli splendidi
palazzi, i templi solenni, la terra
immensa e quello che contiene; e come
la labile finzione, lentamente
ora svanita, non lasceranno orma.
Noi siamo di natura uguale ai sogni,
la breve vita è nel giro d’un sonno
conchiusa.
Sono turbato, signore: perdono,
sono debole, la mia vecchia mente
vacilla. Non vi agitate per questa
mia sofferenza. Se volete, intanto,
andate nella grotta a riposare;
io farò qualche passo qui d’intorno
per calmare lo spirito sconvolto.”
(William Shakespeare, “La tempesta”, ed. Oscar Mondadori, traduzione di S. Quasimodo.)

“La corte del diavolo” (Ivo Andrič)

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“Qui arrivano e di qui passano tutti coloro che quotidianamente vengono fermati e arrestati in questa grande e popolosa città, per aver commesso un reato o per essere sospettati di averlo commesso, e in città di reati se ne commettono davvero tanti e di ogni genere, e il sospetto giunge lontano e si diffonde in lungo e largo. Questo perché la polizia di Costantinopoli si attiene al sacro principio che è più facile rilasciare un innocente dalla Corte del diavolo che non ricercare un colpevole nei meandri di Costantinopoli. Qui viene compiuta la grande e lenta selezione degli arrestati. Alcuni vengono interrogati in vista del processo, altri vi scontano la loro breve pena o, se si constata che non sono colpevoli, vengono rilasciati, altri infine sono mandati in esilio in province lontane. È anche un grande serbatoio da cui la polizia trae falsi testimoni, «esche» e provocatori per i propri scopi. In questo modo la Corte setaccia senza sosta la massa variopinta dei suoi abitanti, è sempre piena, si svuota e si riempie in continuazione.”
(Ivo Andrič, “La corte del diavolo”, ed. Adelphi)

“Vita di Henry Brulard” (Stendhal)

Stendhal

(Stendhal ebbe l’idea di scrivere questo libro il 16.10.1832, cinquantenne, mentre si trovava sul Gianicolo, a Roma. Nel ricostruire le sensazioni relative alla sua infanzia e giovinezza, ricorda, tra l’altro, la morte precoce della madre, il rapporto conflittuale con il padre, il bigotto abate che gli faceva da precettore e il nonno, al quale in questo passaggio sottrae libri, instillando in sé il germe della letteratura.)
“Un romanzo è come un archetto, la cassa del violino che «rende i suoni», è l’animo del lettore. Allora il mio animo era pazzo e dirò il perché.
Mentre il nonno, seduto sul seggiolone dirimpetto al piccolo busto di Voltaire, leggeva, io guardavo la biblioteca, aprivo i volumi in quarto di Plinio, traduzione con testo a fronte, vi cercavo soprattutto la storia naturale della «donna».
Il profumo eccellente era ambra o muschio (questi da sedici anni mi dànno malessere; è forse lo stesso odore ambra e muschio). Infine mi attrasse un mucchio di libri in brossura, buttati alla rinfusa, erano romanzacci non rilegati che lo zio aveva lasciato a Grenoble prima di andarsi a stabilire alle Echelles (Savoia, vicino al Pont-de-Beauvoisin). Fu una scoperta decisiva per il mio temperamento. Ne sfogliai qualcuno; erano romanzi insipidi del 1780, ma per me costituivano l’essenza della voluttà.
Il nonno mi proibì di toccarli, ma io spiavo il momento in cui egli era più intento a leggere sulla poltrona quelle novità di cui non so come avesse sempre tanta abbondanza, e rubavo un volume di quei romanzi. Certo egli si accorse dei miei ladrocinii, perché mi vedo sistemato nel gabinetto di storia naturale spiando se qualche malato venisse a cercarlo. In quei casi il nonno si lamentava di vedersi rapito ai suoi beneamati studi, e andava a ricevere il cliente in camera sua o nell’anticamera del grande appartamento. Tac! io m’infilavo nello studio, e rubavo un libro.
Non saprei rendere la foga con cui leggevo quei romanzi (…) Divenni completamente pazzo; il possesso di una vera amante, allora oggetto di tutti i miei desideri, non mi avrebbe immerso in un simile torrente di voluttà.
Da quel momento si decise la mia vocazione: vivere a Parigi e comporre commedie come Molière.
Divenne il mio chiodo ch’io nascosi con profonda dissimulazione; la tirannide di Séraphie mi aveva dato le abitudini di uno schiavo.
Non ho mai potuto parlare di ciò che adoravo; un simile discorso mi sarebbe parso blasfemo.
Provo questa sensazione con la stessa vivezza nel 1835 che nel 1794.”
(Stendhal, “Vita di Henry Brulard”, ed. Einaudi)

“Salammbô” (Gustave Flaubert)

Salammbo

(“Salammbô”, capolavoro di Flaubert, scritto tra il 1857 e il 1862, ben lontano dalle atmosfere di “Madame Bovary” e di “L’educazione sentimentale”, è ambientato a Cartagine nel III secolo a. C., subito dopo la prima guerra punica. Lo spunto storico, tratto dagli scritti di Polibio e seguito da una maniacale documentazione dell’autore, è la rivolta furente dei Mercenari contro Cartagine, a favore della quale avevano combattuto contro Roma e rea di non averli ricompensati a dovere.

Il titolo fa riferimento a un’immaginaria figlia di Amilcare Barca, della quale s’invaghisce Mâtho, uno dei comandanti dell’eterogeneo esercito dei Mercenari. L’ossessione d’amore inappagabile fa da sfondo a un romanzo nel quale Flaubert, con dovizia di particolari e mirabile sfoggio della sua capacità immaginifica, tratta di guerra, violenza, crudeltà umana, vendetta, superstizione e riti di un mondo che, sebbene apparentemente lontano nello spazio e nel tempo, è purtroppo specchio di pulsioni (auto)distruttive tutt’altro che aliene dal mondo contemporaneo. L’abilità narrativa di Flaubert è tale che, leggendo le descrizioni delle atrocità, mi è tornato alla mente il quadro “Il trionfo della morte”, di Bruegel.)

“Il bagliore dei grandi roghi faceva apparire ancora più pallide le figure esangui, riverse qua e là tra resti di armature; e le lacrime suscitavano le lacrime, i singhiozzi si facevano più acuti, i riconoscimenti e gli abbracci più frenetici. Le donne si stendevano sui cadaveri, bocca contro bocca, fronte contro fronte; bisognava batterle perché se ne staccassero quando si gettava la terra. C’era chi si anneriva le guance, chi si tagliava i capelli, chi si toglieva del sangue e lo gettava nelle fosse; chi si procurava ferite simili a quelle che sfiguravano i morti. Tra il rumore dei cimbali scoppiavano ruggiti. Qualcuno si strappava gli amuleti, ci sputava sopra. I moribondi si rotolavano nel fango insanguinato, mordendo rabbiosamente i pugni mutilati; e quarantatré Sanniti, un’intera primavera sacra, si sgozzarono tra loro come gladiatori. Presto mancò la legna per i roghi, le fiamme si spensero, le fosse erano piene; e, stanchi di aver gridato, esausti, vacillanti, si addormentarono accanto ai loro fratelli morti; pieni di inquietudini quelli che volevano vivere, e gli altri col desiderio di non svegliarsi più.”

(Gustave Flaubert, “Salammbô”, ed. Giunti)

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