Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Turgenev e un appassionato di arte

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(Nel racconto “Tatiana Borìssovna e suo nipote”, Turgenev ritrae con crudele ironia un appassionato d’arte che, in verità, di arte non capisce granché. Il quadro di Magritte, “La riproduzione vietata”, l’ho scelto proprio perché neanche io capisco molto, di arte e di me stesso.)

“… inoltre era infiammato di passione disinteressata per l’arte, e disinteressata sul serio, perché appunto d’arte il signor Benevolenski, a dire il vero, non capiva proprio nulla. Fa persin meraviglia: di dove, in virtù di quali misteriose, incomprensibili leggi, gli era venuta questa passione? Era, a quel che sembra, un uomo positivo, addirittura comune… del resto da noi in Russia di gente così ce n’è parecchia.

L’amore per l’arte e gli artisti dà a questa gente una sdolcinatezza indefinibile; praticarli, discorrere con loro è una pena: veri bastoni spalmati di miele. Essi, per esempio, Raffaello non lo chiamano mai Raffaello, né Correggio il Correggio: «il divino Sanzio, l’inimitabile de Allegris», dicono essi, e accentuano senza meno la lettera  o. Ad ogni talento paesano, pieno d’amor proprio, smaliziato e mediocre, danno del genio o, più esattamente, del “gegnio”; l’azzurro cielo d’Italia, il limone del mezzogiorno, i fragranti vapori delle Rive del Brenta sono sempre sulle loro labbra. «Eh, Vania, Vania», oppure: «Eh, Sascia, Sascia», si dicono l’un l’altro con sentimento: «Al sud noi dovremmo andare, al sud… io e tu siamo greci nell’anima, greci antichi!». Li si può osservare nelle esposizioni, davanti a talune opere di pittori russi. (Si deve notare che, in massima parte, tutti questi signori sono terribili patrioti). Ora indietreggiano un paio di passi e rovesciano il capo, ora si accostano di nuovo al quadro; i loro occhietti si coprono di un umore oleoso… «Uh, Dio mio», dicono infine con voce rotta dall’emozione, «quant’anima, quant’anima! e di cuore, poi, di cuore! ce ne ha messo dell’anima! un subisso di anima!… E concepito, poi! magistralmente concepito!». E che sorta di quadri nei loro salotti! Che razza di artisti vanno a trovarli la sera, bevono da loro il tè, ascoltano i loro discorsi! Quali vedute in prospettiva delle loro stanze non presentano loro, con la spazzola sul piano di destra, uno strato di sudiciume sul pavimento lucidato, un samovar giallo sulla tavola accanto alla finestra, e lo stesso padron di casa in veste da camera e papalina, con un vivo tocco di luce sulla guancia!”.

(Ivan Sergeevič Turgenev, “Memorie di un cacciatore”, ed. Bur)

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“Austerlitz” (W. G. Sebald)

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“Perché non mi dici, ella domandò, disse Austerlitz, la ragione della tua inavvicinabilità? Perché, disse, da quando siamo arrivati qui sei come uno stagno gelato? Perché vedo le tue labbra schiudersi, quasi tu volessi dire, o magari persino gridare qualcosa, e poi non sento nulla? Perché arrivando non hai disfatto i tuoi bagagli e vivi, per così dire, soltanto dello zaino? Eravamo a qualche passo l’uno dall’altra, simili a due attori sulla scena. Con l’affievolirsi della luce gli occhi di Marie mutavano colore. E io cercai di nuovo di spiegare a lei e a me stesso quali incomprensibili sentimenti avessero continuato a opprimermi negli ultimi giorni: come un folle non vedevo altro intorno a me se non misteri e segni; mi sembrava che persino le mute facce delle case sapessero su di me qualcosa di negativo, e se da sempre ero stato convinto che il mio destino fosse una vita solitaria, adesso, nonostante il mio desiderio di lei, lo ero più che mai. Non è vero, disse Marie, che abbiamo bisogno dell’isolamento e della solitudine. Non è vero. Sei solo tu ad aver paura, non so di che cosa. Sempre ti sei tenuto un po’ a distanza, me ne ero ben accorta, ma adesso è come se ti trovassi su una soglia che non hai il coraggio di varcare. Non ero in grado allora di ammettere che Marie aveva ragione in tutto, ma oggi so, disse Austerlitz, perché dovevo prendere le distanze se qualcuno mi veniva troppo vicino, e ricordo che in quel prendere le distanze mi credevo in salvo e al tempo stesso mi sentivo un essere intoccabile, brutto da incutere spavento.”

(W. G. Sebald, “Austerlitz”, ed. Adelphi)

“Austerlitz” di W. G. Sebald è un romanzo toccante, avvincente, scritto (tradotto) meravigliosamente, un libro che mi ha avvinto alla lettura dalla prima all’ultima riga.

Jaques Austerlitz è un professore di storia dell’architettura che il narratore incontra alla stazione di Anversa nel 1967, in modo del tutto casuale e che sulle prime parla quasi esclusivamente di strutture architettoniche, senza troppi riferimenti a un vissuto personale che pare immerso in un oblio definitivo. Austerlitz è un solitario e le ragioni della sua difficoltà ad avere rapporti umani affondano in un passato oscuro che egli avrà la forza di affrontare solo negli anni Novanta, una volta andato in pensione, quando prenderà piena consapevolezza del dramma che si cela dietro il suo arrivo (1939) in Inghilterra.

A cinque anni, infatti, Austerlitz, che scoprirà di chiamarsi così solo un decennio dopo, si era ritrovato, senza sapere perché, adottato da due coniugi gallesi, dalla mentalità piuttosto retrograda. Da Praga era stato inviato, in un convoglio trasportante altri bambini, nell’immediata vigilia della seconda guerra mondiale, per preservarlo da orrori che i suoi reali genitori sconteranno sulla loro pelle, nei campi di concentramento e sterminio.

Il romanzo di Sebald, con i suoi andirivieni spaziotemporali, è una struggente riflessione sui temi della memoria individuale e collettiva, sull’oblio, su luoghi che segnano, sull’abbandono, sul tempo, sull’identità perduta/ritrovata, sulla solitudine e la paura di affrontare incubi che Austerlitz (e tante altre persone con storie simili alle sue) si portano dentro, ed è corredato da fotografie che aggiungono valore alle già potenti immagini lessicali che l’autore ci offre.

“Dette queste parole, Austerlitz tacque e rimase per qualche tempo – almeno mi pare – con lo sguardo perso nel vuoto. Sin dall’infanzia e dalla giovinezza, così infine riprese il discorso tornando a guardarmi, non ho mai saputo chi in realtà io sia. Dal mio attuale punto di vista mi rendo ben conto che già solo il mio nome e il fatto che, di questo nome, io sia rimasto defraudato fino ai quindici anni avrebbero dovuto mettermi sulle tracce della mia origine; eppure, negli ultimi tempi, ho anche capito per quale motivo un’istanza anteposta o preposta alla mia capacità di pensare, e con ogni evidenza dominante in modo assai avveduto da qualche parte del mio cervello, mi abbia sempre protetto dal mio segreto e sistematicamente distolto dal trarre le conclusioni più ovvie e dall’intraprendere ricerche coerenti con tali conclusioni. Non è stato facile liberarmi dal disagio che provavo nei confronti di me stesso, né sarà facile presentare ora le cose in una successione più o meno ordinata.”

“L’Inconoscibile”

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INCONOSCIBILE Sforzi del soggetto amoroso per capire e definire l’essere amato <<in sé>>, come tipo caratteriale, psicologico o nevrotico, indipendentemente dalle peculiari cognizioni del rapporto amoroso.

  1. Io sono prigioniero di questa contraddizione: da una parte, credo di conoscere l’altro meglio di chiunque e glielo dichiaro trionfalmente (<<Io sì che ti conosco! Solo io ti conosco veramente!>>); e, dall’altra parte, sono spesso colpito da quest’evidenza: l’altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai.

 

(Fra tutti quelli che avevo conosciuto, X… era sicuramente il più impenetrabile. Ciò era dovuto al fatto che non si sapeva niente del suo desiderio: in fondo, conoscere qualcuno non significa forse conoscere il suo desiderio? Io sapevo tutto, subito, dei desideri di Y…: egli mi sembrava perciò <<radiografato>> ed io ero incline ad amarlo non più con terrore, ma con indulgenza, come una madre ama il suo bambino.)

Rovesciamento: <<Non riesco a capirti>> vuol dire: <<Non saprò mai che cosa pensi veramente di me>>. Non posso decifrare te perché non so come tu decifri me.

 

  1. Prodigarsi, adoperarsi per un soggetto impenetrabile, è religione pura. Fare dell’altro un enigma irresolvibile da cui dipende la mia vita, significa consacrarlo come dio; io non riuscirò mai a risolvere l’enigma che egli mi pone: l’innamorato non è Edipo. Quindi, non mi resta altro che volgere la mia ignoranza in verità. Non è vero che quanto più si ama, tanto più si capisce; ciò che l’azione amorosa ottiene da me è soltanto questa cognizione: nell’altro non c’è nulla da scoprire: la sua opacità non nasconde affatto un segreto, ma semmai una sorta di evidenza, nella quale si annulla il gioco dell’apparenza e dell’essere. E quindi cresce in me lo stimolo ad amare qualcuno che sia sconosciuto e che tale deve restare per sempre: impulso mistico: io accedo alla cognizione dell’inconoscibilità.

 

  1. E ancora: anziché voler definire l’altro (<<Cos’è mai costui?>>), io volgo l’attenzione su me stesso: <<Cos’è che voglio, io che desidero conoscerti?>> Cosa si verificherebbe se decidessi di definirti non già come una persona, ma bensì come una forza? E nel caso che mi ponessi come una forza contrapposta alla tua forza? Tutto ciò avrebbe come risultato questo: il mio altro si definirebbe solamente attraverso la sofferenza o il piacere che egli mi dà.

GIDE: parlando di sua moglie: <<E dato che per capire ciò che si differenzia da voi c’è sempre bisogno d’amore…>> (et nunc manet in te, 1151)

 

(Roland Barthes, “Frammenti di un discorso amoroso”, ed. Einaudi)

Strindberg e la torta mimosa

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(Come antidoto all’acidità del romanzo di Strindberg, utilizzerò a breve la torta mimosa immortalata nella foto, perché è interessante interrogarsi sugli ingredienti dell’esistenza, ma talvolta, o forse sempre, è bene anche mangiarne un pezzo, o due, o tre…)

“- Uno strano tipo quel Falk, che ha finito per entrare in conflitto con sé stesso… – obiettò Isak.

– No, non trovo, – interruppe il dottore. – Sperimentava con i punti di vista e, quale scrupoloso tecnico di laboratorio, eseguiva esperimenti di verifica, ponendosi per prova dalla parte dell’avversario, rileggendo a due le bozze, esaminando a ritroso il discorso; e quando il controesperimento dava esito negativo tornava al punto di partenza confermato dalla verifica. È una cosa che non capite. Eppure Falk avrebbe fatto luce su di sé se avesse usato il metodo di Kierkegaard, il quale inventava personalità di scrittori dandosi ogni volta uno pseudonimo nuovo. Victor Eremita è altro da Johannes Climacus; Constantin Constantinius non è Johannes da Silentio, ma tutti insieme sono Søren Kierkegaard. Falk praticava la vivisezione sperimentando sulla propria anima, camminando sempre con ferite aperte, fino a quando ha dato la vita per la conoscenza, non voglio adoperare l’abusato termine verità. E se un giorno la raccolta dei suoi scritti fosse pubblicata, non si dovrebbe cambiare nemmeno una parola, bensì tutte le contraddizioni andrebbero risolte nel comune titolo kierkegaardiano: Stadi sul cammino della vita.”

(August Strindberg, “Le Sale Gotiche – Destini familiari sul finire del secolo”, ed. Utet)

[Autrice della torta: mia madre.]

“Dramma” in libreria.

Per una bizzarra legge fisica ancora oggetto di studi, all’improvviso mi ritrovo in libreria, invece che nel negozio di abbigliamento dove mi ero recato. Mi sento pervaso da un’emozione solita ma sempre gradita, finché accade il dramma. Una ragazza, a pochi metri da me, che nel frattempo seduco Conrad, chiede al commesso un compendio di “Diritto commerciale”.

Perché, perché, perché lo fai? Memore dei miei trascorsi universitari, ricordando quell’esame sostenuto il 28 dicembre di secoli fa, in preda al disgusto più totale per quella materia e a interrogativi sul “perché” mi fossi imbattuto in quell’abominio, avverto il dovere di salvarla, eppure non lo faccio, sto zitto, esco dalla libreria soddisfatto dei miei acquisti, quasi sorridente.

Solo dopo, alla fermata dell’autobus, ripenso a lei, alla sua sorte, alla bruttezza di un mondo che contempla l’esistenza di un Diritto commerciale.

P.s.: per una parziale spiegazione di quest’increscioso episodio, recarsi nella sezione “Chi (non) sono”.

“L’uomo duplicato” (José Saramago)

Saramago

“Non è proprio così. C’era un tempo in cui le parole erano talmente poche che non ne avevamo neppure per esprimere qualcosa di tanto semplice come Questa bocca è mia, o Codesta bocca è tua, e tanto meno per domandare perché abbiamo le bocche unite. Gli uomini di oggi non immaginano neppure il lavoro che hanno dato questi vocaboli per essere creati, in primo luogo, e chissà che non sia stato, nel complesso, il più difficile, fu necessario capire che ce n’era bisogno, poi si dovette arrivare a un consenso sul significato dei loro effetti immediati e, infine, compito che non sarebbe mai giunto a concludersi completamente, immaginare le conseguenze che sarebbero potute derivare, a medio e a lungo termine, dai suddetti effetti e dai suddetti vocaboli. A paragone di ciò, e al contrario di quanto ha affermato tanto perentoriamente il senso comune ieri sera, l’invenzione della ruota fu un mero colpo di fortuna, come lo sarebbe stata la scoperta della legge di gravità universale solo perché una mela pensò bene di andare a cadere sulla testa di Newton. La ruota s’inventò e lì è rimasta inventata per sempre, mentre le parole, quelle e tutte le altre, loro sì, sono venute al mondo con un destino nebuloso, vago, quello di essere organizzazioni fonetiche e morfologiche di carattere eminentemente provvisorio, ancorché grazie, per puro caso, all’aureola ereditata dalla loro creazione aurorale, si ostinino a voler passare, non tanto per sé stesse, ma per quello che in modo variabile continuano a significare e a rappresentare, come immortali, imperiture, o eterne, secondo i gusti del classificatore. Questa tendenza congenita, cui non sapremmo né potremmo resistere, si è trasformata, con il trascorrere del tempo, in un gravissimo e forse insolubile problema di comunicazione, sia la collettiva di tutti, sia la privata del tu per tu, per cui hanno finito per confondersi i fischi e i fiaschi, le lucciole e le lanterne, e le parole hanno usurpato il posto di quello che prima, meglio o peggio, pretendevano di esprimere, dal che ne è derivata, infine, io ti conosco mascherina, questa assordante baraonda di scatolette vuote, questo corteo carnascialesco di lattine etichettate ma senza niente dentro, o appena, ormai in via di stemperarsi, l’odore evocativo dei nutrimenti per il corpo e per lo spirito che un tempo contenevano e serbavano.” Continua a leggere…

Slavoj Žižek su “Strade perdute” di Lynch

“Tramite questo confronto diretto tra la realtà del desiderio e il fantasma, Lynch scompone l’ordinario ‘senso della realtà’ sostenuto dal fantasma in due parti: da un lato, la realtà pura e asettica, dall’altro il fantasma; le due componenti non si relazionano più verticalmente (il fantasma sostiene la realtà), ma orizzontalmente, una accanto all’altra. La notevole differenza esistente tra le due parti del film è la prova cruciale del fatto che il fantasma sostiene il nostro ‘senso della realtà’: la prima (realtà senza fantasma) è ‘superficiale’, oscura, quasi surreale, stranamente astratta, incolore, senza sostanza, enigmatica come un dipinto di Magritte, con gli attori che recitano come in una commedia di Beckett o di Ionescu, come automi alienati. Paradossalmente, è nella seconda parte (quella del fantasma) che ritroviamo un ‘senso di realtà’ molto più intenso e pieno, il senso di pienezza dei suoni e degli odori, di persone che si muovono nel ‘mondo reale’…”

(Slavoj Žižek, “Lynch: il ridicolo sublime”, ed. Mimesis)

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Lo Sconosciuto

Lo Sconosciuto mi sorprese mentre stavo leggendo, seduto su una panchina. Mi colpì con una pacca su una spalla e pronunciò il mio nome, con tono squillante e, come appurai voltandomi, mostrando un ampio sorriso. Lo salutai, ma mi resi conto subito che quell’entusiasmo con cui mi aveva salutato non corrispondeva, nella mia mente, a un’immagine di lui come mio amico intimo o almeno conoscente. Non sapevo chi fosse e sospettai che avesse sbagliato persona. L’ipotesi fu subito smontata dal suo atteggiamento, che contraddisse l’idea che potesse essere un estraneo in preda a confusione sulla mia identità. Si sedette accanto a me e mi domandò, ripetendo il mio nome, cosa stessi leggendo. Gli mostrai il libro e cercai di capire, dal suo sguardo, se fosse qualcuno che avevo conosciuto in una biblioteca, o comunque mi conoscesse per quella mia passione. Lui, dopo aver preso in mano il libro e averlo osservato quasi fosse un oggetto proveniente da un altro pianeta, me lo restituì, dicendomi che lui non aveva un grande rapporto con i libri, anzi, che dopo la fine del periodo scolastico non ne aveva aperto più alcuno.

Lo guardai meglio in volto per capire chi fosse, ma non mi ricordava alcuna faccia già vista. Continua a leggere…

“Pastis” (n. 21, da “Frammenti da un camino”)

– Prendetela! – urlò qualcuno.

Nadia, all’improvviso, si afflosciò sulle sue esili gambe, ora inerti e che poco prima roteavano impazzite. Francesca fu la più lesta e riuscì ad evitare che l’occhialuta sbronza sbattesse con il volto a terra.

– Cazzo, sta male, portiamola fuori dal pub! – gridò Gianluca, mentre anche Marco e gli altri amici, accortisi di quanto stava succedendo, avevano smesso di ballare o si erano alzati dal tavolo.

L’accaduto non era imprevedibile, perché Nadia aveva ingurgitato numerosi pastis, a un ritmo insostenibile per il suo flebile corpo. Eppure quella sera si stava divertendo e non poco; brillante, dalla battuta pronta, aveva persino azzardato, cosa incredibile per una schiva come lei, degli sgangherati passi di danza, peraltro sulle note di canzoni che avrebbe rifuggito anche da sobria. Inoltre, pochi minuti prima del crollo si esprimeva a suon di facezie che mai gli amici avrebbero pensato potesse esternare, chiusa, quasi asociale, com’era.

Nadia aveva già affrontato le conseguenze di una sbornia, quella fase iper-malinconica che era solita seguire la lieve euforia che mai, però, come quella sera, aveva avuto, nelle sue sinusoidali emozioni, dei picchi così contrastanti tra felicità e tristezza.

– Michela, amica mia, sto ballando al ritmo di una musica che mi fa schifo! – urlò all’amica che entrava in quel momento nel pub, abbracciata a Lorenzo.

– Pazza, ti trovo in gran forma! – le sorrise Michela.

– Sì, lo sono, sono in forma! – ribadì Nadia quasi spavalda, ignara d’essere già vicina al crollo.

Si lanciò di nuovo all’assalto del bancone, ordinò un altro pastis e lo ingurgitò in un sorso, Continua a leggere…

“Maschere” (l’ennesimo articolo sconclusionato e mascherato)

“Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio…un tale uomo riservato, che istintivamente si serve delle parole per tacere e per celarle ed è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una maschera; e anche ammesso che egli non voglia tutto questo, un bel giorno gli si spalancheranno gli occhi sul fatto che a onta di ciò v’è laggiù una sua maschera – e che è bene che le cose stiano a questo modo. ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera; e più ancora, intorno  a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà”.

(F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”, Lo spirito libero, af. 40, ed. Adelphi)

Indosso la maschera da blogger e inizio a scrivere quest’articolo, stimolato da un paragone che una mia conoscenza “virtuale” mi ha suggerito, e che nobiliterà questo scritto privo di ambizioni. Il tema mi affascina da sempre, ma non è semplice scriverne, perché è stato già affrontato da grandi pensatori e quindi non c’è molto da aggiungere. Si tratta della maschera sociale che indossiamo quotidianamente nelle più diverse situazioni e delle collegate nozioni di persona e personaggio. La maschera, Continua a leggere…

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