Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Lasciar(si) andare (con Roth e James)

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Nelle prime pagine di “Lasciar andare”, Gabe presta “Ritratto di signora” a Paul. Qualche giorno dopo, incontra Libby, moglie di Paul, scoprendo che il libro lo sta leggendo lei e soprattutto che un conto è assorbire la storia di Isabel Archer narrata da James, altro trovarsi di fronte un marito, una moglie e disagi reali.

Alla stessa maniera, sento che leggere un romanzo di Roth con vista mare è cosa ben diversa dall’affrontare i miei demoni. So che al riguardo non possono trovare soluzioni definitive né Roth, né James, né chissà chi altro. Ed è un bene che sia così. So, però, che certe letture possono aiutare, momentaneamente, a “lasciar andare” i demoni per conto loro, a stabilire una tregua con me stesso.

Lo sanno anche questi due, uomo e donna (con bambino annesso), che stanno litigando a cinque metri dalla mia panchina, manco volessero dimostrarmi che davvero loro sono per me quello che Paul e Libby sono per Gabe, o ancora che Philip Roth è per me ciò che Henry James è per Gabe?

Il mare, placido e stronzo in lontananza, tace.

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“Il senso delle cose” (Richard P. Feynman)

Il senso delle cose

“Il sogno dell’umanità è trovare il canale giusto. Qual è il significato di tutto quanto? Cosa possiamo dire, oggi, intorno al mistero dell’esistenza? Se teniamo conto di tutto, non solo di quanto sapevano gli antichi, ma anche di quello che loro ignoravano e noi abbiamo scoperto, allora credo che l’unica risposta onesta sia: nulla. Ma credo anche che con questa ammissione abbiamo probabilmente fatto un passo nella direzione giusta.

Ammettere di non sapere, e mantenere sempre l’atteggiamento di chi non sa quale direzione è necessario prendere, ci dà modo di variare, di riflettere, di scoprire cose nuove e di avanzare nella conoscenza di noi stessi, per riuscire a fare quello che veramente vogliamo, anche quando non sappiamo cosa vogliamo.

Guardando indietro, si ha l’impressione che i periodi peggiori della nostra storia siano quelli in cui era più forte la presenza di persone che credevano in qualcosa con fede cieca e dogmatismo assoluto, prendendosi tanto sul serio da pretendere che il mondo intero la pensasse come loro. E poi facevano cose espressamente in contrasto con i loro stessi princìpi al fine di dimostrare la verità della propria dottrina.

Come ho già detto in precedenza, e qui lo ribadisco, l’unica speranza per un progresso dell’umanità in una direzione che non ci porti in un vicolo cieco (come già tante volte è successo in passato) risiede nell’ammissione dell’ignoranza e dell’incertezza. Io dico che non sappiamo quale sia il significato della vita e quali i giusti valori morali, e non abbiamo modo di sceglierli.”

(Richard P. Feynman, “Il senso delle cose”, ed. Adelphi)

“Il senso delle cose” è la trascrizione di un ciclo di tre conferenze tenute da Richard P. Feynman, già presente in questo blog con “Sei pezzi facili”, “Sei pezzi meno facili” e “QED, la strana teoria della luce e della materia”. A differenza dei citati titoli, che nonostante il loro intento divulgativo richiedono comunque un certo interesse per la materia (la fisica), “Il senso delle cose” risulta leggibile e gradevole Continua a leggere…

“Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento” (Giuseppe Di Giacomo)

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“Se gli eroi del romanzo ottocentesco lottano per far trionfare il senso, la totalità, sul non-senso del mondo (il mondo abbandonato da dio), Dostoevskij coglie il senso nel cuore stesso del non-senso. Per l’uomo di Dostoevskij tutto è nello stesso tempo senso e non-senso. Per questo in Dostoevskij c’è salvezza nell’abiezione estrema. Ogni tentativo di spiegare il personaggio, di ricondurlo a una logica coerenza, è vanificato: non c’è un ‘fuori’ dal quale il personaggio, e il lettore con lui, possa vedere e vedersi, distinguendo il senso dal non-senso, e superare così la sua fondamentale paradossalità; né si offre al personaggio alcuna possibilità di conoscersi, alcuna coscienza dei propri movimenti interni. Questi ultimi si producono infatti senza che nessuna spiegazione possa connetterli tra loro e perciò comprendere e giustificare: si danno ‘catastroficamente’. Di qui l’esclusione dall’opera di Dostoevskij di quei ‘momenti privilegiati’ che ricorrono in Proust, nei quali la vita della coscienza si rivela come totalità, verità ed essenza”.

(Giuseppe Di Giacomo, “Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”, Editori Laterza)

Nell’estate del 2012, se la memoria non m’inganna, ascoltai una conferenza del professor Giuseppe Di Giacomo, ospite di una rassegna cinematografica organizzata nel mio paese. Avevo già letto un suo libro su Wittgenstein, oltre ad ascoltare alcune registrazioni di sue lezioni universitarie. Sono giunto, quindi, abbastanza preparato all’appuntamento con “Estetica e Letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”. Sapevo che avrei trovato argomenti di mio interesse, ma adesso posso affermare che un libro del genere avrei potuto scriverlo io. Prima che il lettore m’insulti per una possibile espressione di vanità personale, Continua a leggere…

“Il posto” (Annie Ernaux)

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“Scrivo lentamente. Sforzandomi di far emergere la trama significativa di una vita da un insieme di fatti e di scelte, ho l’impressione di perdere, strada facendo, lo specifico profilo della figura di mio padre. L’ossatura tende a prendere il posto di tutto il resto, l’idea a correre da sola. Se al contrario lascio scivolare le immagini dal ricordo, lo rivedo com’era, la sua risata. E la sua andatura, mi conduce per mano alla fiera e le giostre mi terrorizzano, tutti i segni di una condizione condivisa con altri mi diventano indifferenti. Ogni volta, mi strappo via dalla trappola dell’individuale.

Naturalmente, nessuna gioia di scrivere, in questa impresa in cui mi attengo più che posso a parole e frasi sentite davvero, talvolta sottolineandole con dei corsivi. Non per indicare al lettore un doppio senso e offrirgli così il piacere di una complicità, che respingo invece in tutte le forme che può prendere, nostalgia, patetismo o derisione. Semplicemente perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch’io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un’altra.”

(Annie Ernaux, “Il posto”, ed. L’Orma editore)

Si può condensare l’esistenza di un uomo morto a quasi settant’anni in romanzo? Si può raccontare il proprio rapporto con quest’uomo e con il posto nel mondo che ha vissuto e che una figlia ha abbandonato per entrare in un altro posto? No, la risposta a queste domande retoriche è ovvia. Non si può, neanche se il romanzo fosse di mille, diecimila pagine. Eppure Annie Ernaux, con “Il posto”, scritto agli inizi degli anni Ottanta e pubblicato ora da L’orma, Continua a leggere…

Il biliardino

Gli oggetti scompaiono, gli uomini muoiono, e questa, ormai dovrebbe essere noto, è una differenza non da poco. A volte gli oggetti che resistono all’usura del tempo sembrano essere lì per ricordarci uomini che non ci sono più, ma sappiamo anche che non è così, che è solo un gioco crudele della nostra memoria. Sulla morte di un amico d’infanzia e adolescenza c’è poco da dire, quel che si potrebbe scrivere sarebbe comunque inadeguato a esprimere non tanto il dolore dello scrivente, che passerà travolto dagli eventi quotidiani, quanto piuttosto quello visto negli occhi di chi più gli è stato vicino negli ultimi decenni e specie nell’ultimo periodo. Allora preferisco parlare di un oggetto, del biliardo, quello che simula il gioco del calcio, con le stecche che sembrano imprigionare ventidue uomini, disposti su diverse linee e impossibilitati a toccarsi.

Da bambino io avevo un biliardo. Per la precisione, lo chiamavamo “biliardino”, perché non era uno di quei biliardi che si trovano al bar, era a dimensione bambini, ed io e M. eravamo bambini, quando ci sfidavamo tutti i pomeriggi in interminabili partite. Io sceglievo sempre i bianchi e M. accettava i rossi, forse perché i rossi gli piacevano, oppure perché, essendo più piccolo di me, più timido di me (e ce ne voleva), non osava contraddire il padrone del biliardino. M. era un avversario perfetto, innanzitutto perché era un amico, e poi perché era un bambino. Anch’io, per lui, ero un avversario perfetto, perché anch’io ero un suo amico, e anch’io ero un bambino. Giocavamo sempre uno contro l’altro, perché quel gioco era riservato a noi. Con gli altri del quartiere preferivano giocare noi in persona, a calcio, senza delegare la nostra fantasia agli omini del biliardino.

Gli anni del biliardino finirono, così come quelli del calcio nella piazzetta del quartiere. A proposito, il biliardino è un oggetto che non c’è più, o meglio, c’è ancora, ma ci sono altri bambini che lo utilizzano; è stato regalato e mi piace pensare che, da qualche parte, ci siano due bambini che si sfidano tutti i giorni. Una piccola agenda verde, invece, esiste ancora nella mia stanza. Lì ci sono impressi, oltre al mio, i nomi dei ragazzi che con me partecipavano ai tornei di quartiere, sfide “uno contro uno” sotto il sole cocente dell’estate o il freddo dell’inverno. Ci sono G., F., V., S., c’è la mia A., e ci sono anche P. e M., che adesso spiccano per la loro assenza. P. è morto nel 2008, M. nell’agosto del 2014, e un beffardo e irriverente caso li accomuna in una pagina di quell’agendina verde che usavo per tenere aggiornati i risultati del torneo estivo. Nella classifica dei cannonieri di quel torneo a squadre, entrambi hanno dodici reti.

Dicevo del biliardo e del potere degli oggetti di evocare gli uomini. Io e M. ci siamo poi persi di vista, ciascuno alle prese con la propria esistenza. Ogni volta che c’incontravamo per strada, però, bastava un cenno di saluto per capire che dentro di noi quegli anni lontani non erano passati. Forse non eravamo più amici nel senso più stretto della parola, ma due conoscenti che erano stati grandi amici, ma non lo so, questo non conta, non adesso. In un bar che frequento c’è un biliardo, di quelli veri, non un biliardino come quello che usavamo io e M. Io non gioco mai a biliardo, ho maturato una mia teoria al riguardo, un po’ astrusa, ha a che vedere con la fantasia imbrigliata degli omini del biliardo. Poi, fa caldo, specie d’estate quando si svolgono i tornei di biliardo. Inoltre non ho forza nella mano sinistra, nonostante io scriva con la mano sinistra, e allora giocando in coppia sarei un peso per il mio compagno.

Due anni fa, però, ho giocato, perché me lo chiese M. A lui non seppi dire di no, perché era raro vederlo nel mio paese. M. aveva già qualche problema, ma non immaginavo che sarebbe accaduto quello che poi è successo. Quella sera mi avvicinai al biliardo insieme a lui e facemmo coppia, sfidando altri due ragazzi. Perdemmo, mi pare, ma io avevo avvisato M. che non sapevo giocare. Lui mi disse che non era importante, che ci teneva a giocare con me quella partita. Adesso so che quella è stata la prima e ultima volta che io e M., di fronte a un biliardino, siamo stati compagni e non sfidanti. A un certo punto, siccome avevo indossato un jeans troppo stretto, nel chinarmi a terra per raccogliere una pallina caduta, il jeans si strappò, lasciandomi tra le gambe una voragine. Finita la partita, M. mi propose di accompagnarmi a casa per cambiarmi il jeans. In macchina aveva “Wish you we’re here” dei Pink Floyd. Il mio pensiero andò a P.. Poi andammo a berci una birra al pub e ci raccontammo diverse cose, ricordando anche P.

Il resto è doloro, di M., dei suoi familiari e di chi ha condiviso con lui più tempo, più fatica, più gioia e più malinconia rispetto a me. A me resta la memoria, quel jeans strappato con le palle esposte al pubblico e il rumore che facevano le palline del biliardino, non del biliardo, ma proprio il biliardino, quello che ci vedeva avversari ma complici, che ci faceva credere che non si potesse smettere mai di giocare.

“Le vite di Dubin” (Bernard Malamud)

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“- Quello che mi resta dentro, soprattutto delle biografie che scrivo – continuò Dubin, – a parte quanto si impara rispetto alla mappa delle esistenze umane, le svolte inaspettate e le pieghe drammatiche che prendono, i modi gioiosi con i quali si compiono e quelli tragici dai quali vengono funestate… – gli occhi del biografo si offuscarono per un momento e dovette liberarsi, tossendo, da una raucedine di gola – …quello che mi resta dentro soprattutto è il fatto che la vita fugge continuamente, e che i nostri destini vengono manipolati fino a spezzarci il cuore da eventi che non possiamo prevedere né dominare, per cui siamo sempre penosamente vulnerabili di fronte a ciò che accadrà. Perciò quello che dicono i poeti, di cogliere l’attimo, cara Fanny, è incredibilmente vero. Se non vive la sua vita nella pienezza o, per qualsiasi ragione, non l’ha vissuta, se ne pentirà – soprattutto invecchiando – per tutti i giorni a venire.

– Lei se né pentito? – gli domandò la ragazza serenamente.

Dubin la fissò con uno sguardo grave.

– Me ne pentirei in modo intollerabile se non fossi coinvolto nelle vite altrui.

– Nei suoi libri, vuol dire? Continua a leggere…

“Morire” (Arthur Schnitzler)

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“Un pomeriggio, quando per la prima volta dopo tanta pioggia il cielo sembrò schiarirsi, si sedettero nuovamente in terrazza e Felix disse d’un tratto, senza riallacciarsi a un discorso precedente: – La gente di questo mondo, si sa, è tutta condannata a morte.

Marie alzò gli occhi dal lavoro.

– Dunque, – proseguì, – immagina, per esempio, che qualcuno ti dica: Cara signorina, lei morirà il 1°maggio 1970. Passeresti il resto della tua vita nel terrore di quel 1°maggio, sebbene tu oggi non creda certo di arrivare a 100 anni.

Lei non rispose.

Felix continuò a parlare guardando intento il lago scintillante al riflesso dei raggi del sole che facevano capolino tra le nuvole.

– Altri invece se ne vanno in giro fieri e sani e un accidente qualunque se li porta via nel giro di poche settimane. Ma non pensano affatto di dover morire, non è così?”

(Arthur Schnitzler, “Morire”, ed. Letteratura Universale Marsilio)

Sigmund Freud, in occasione del sessantesimo compleanno di Schnitzler, quindi nel 1922, confessò allo stesso Schnitzler di aver evitato d’incontrarlo “per una sorta di paura del doppio…Il Suo determinismo, il Suo scetticismo – che la gente chiama pessimismo – il Suo essere dominato dalle verità dell’inconscio, dalla natura istintuale dell’uomo, il Suo demolire le certezze culturali tradizionali, l’aderire del Suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un’insolita e inquietante familiarità”.1 Già leggendo altre opere di Schnitzler, Continua a leggere…

“La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita” (Franz Kafka)

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“Di recente, e per la prima volta – come in quell’occasione dovetti confessarmi con sorpresa -, ho sfiorato l’argomento parlando con un buon amico, solo incidentalmente e con leggerezza, con due parole, tenendo anzi l’importanza dell’insieme ancora un poco sotto la verità, sebbene essa sia in fondo modesta per me se considerata in relazione con l’esterno. Strano che l’amico non ci sia passato sopra, anzi ne abbia accentuato di suo l’importanza, non si sia lasciato sviare e vi abbia insistito. Ancora più strano, a dire il vero, che egli abbia tuttavia sottovalutato la questione in un punto decisivo, consigliandomi seriamente di fare un breve viaggio. Nessun consiglio sarebbe potuto essere più irragionevole; le cose sono infatti semplici, chiunque può comprenderle se solo le guarda più da vicino, ma non sono semplici al punto che tutto, o almeno l’essenziale, tornerebbe al suo posto se io me ne andassi. Al contrario, debbo piuttosto guardarmi dal partire; se mai debbo seguire un piano, è in ogni caso quello di mantenere la questione nei suoi attuali confini, confini angusti che ancora non includono il mondo circostante, quindi di restare dove sono e non permettere che subentrino grandi, vistosi cambiamenti causati da quella vicenda; fra questi provvedimenti rientra anche il non farne parola con nessuno, ma non perché si tratti di un pericoloso segreto, bensì perché è una piccola questione puramente personale, di conseguenza facile da sopportare, e perché tale essa deve rimanere. A questo proposito le osservazioni del mio amico non sono state prive di utilità, perché, pur non insegnandomi nulla di nuovo, mi hanno rafforzato nella mia opinione di fondo. Continua a leggere…

“Decisioni” (Franz Kafka)

“Sollevarsi da uno stato di abbattimento dev’essere facile persino con energia intenzionale. Mi strappo dalla sedia, cammino intorno al tavolo, rilasso la testa e il collo, faccio avvampare gli occhi, ne tendo i muscoli all’intorno. Lotto contro i sentimenti, saluto A., ora che arriva, con trasporto, tollero gentilmente la presenza di B. nella mia stanza, a casa di C. assorbo in me a lunghe sorsate, nonostante il dolore e la fatica, tutto quanto vien detto.
Ma anche quando le cose vanno così, l’insieme – il leggero e il pesante – si arresterà a ogni errore, impossibile a evitarsi, e io dovrò aggirarmi in cerchio in senso opposto.
Per questo è pur sempre la scelta migliore accettare tutto, comportarsi come una massa morta anche se ci si sente spazzati via, non lasciarsi strappare un solo passo inutile, guardare l’altro con occhi d’animale, ignorare il rimorso, in breve, soffocare con le proprie mani tutto ciò che, come un fantasma, ancora resta della vita, accrescere l’ultima quiete di tomba e non lasciare che nulla sussiste all’infuori di essa.
Movimento caratteristico di un simile stato è il mignolo che passa sulle sopracciglia.”
(Franz Kafka, “Decisioni”, in “La metamorfosi e altri racconti”, ed. Universale Economica Feltrinelli)

“Bambini nel tempo” (Ian McEwan)

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“Restò così per ore, l’intera notte, assopendosi brevemente ogni tanto e senza muoversi o allontanare lo sguardo dalla grata, quando si svegliava. In quell’arco di tempo gli parve che qualcosa si stesse raccogliendo nel silenzio circostante, il sollevarsi lento di un’onda di consapevolezza, di una specie di marea strisciante che, senza esplodere o frangersi drammaticamente, lo portò, intorno alle prime ore del mattino, al primo autentico flusso di comprensione della vera natura della sua sofferenza. Tutto ciò che aveva preceduto quell’evento non era che finzione, una banale e frenetica imitazione del dolore. Albeggiava appena quando incominciò a piangere e fu questo momento nella semioscurità che avrebbe in seguito fatto coincidere con l’inizio del suo lutto”.

(Ian McEwan, “Bambini nel tempo”, ed. Einaudi)

“Bambini nel tempo” ha confermato le ottime impressioni che avevo avuto su Ian McEwan mentre leggevo “Espiazione” e “Primo amore, ultimi riti”, anzi se possibile le ha potenziate e mi ha fatto interrogare sul perché abbia scoperto quest’autore così tardi. McEwan scrive bene, detto in maniera molto semplice. Il romanzo si legge senza pause o momenti di noia, Continua a leggere…

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