Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Il mondo di ieri (ricordi di un europeo)

“Ho chiara coscienza delle circostanze sfavorevolissime e pure caratteristiche pel nostro tempo in cui tento di dar forma a questi miei ricordi. Li scrivo in piena guerra, in terra straniera e senza il minimo soccorso alla mia memoria. Nella camera d’albergo non ho a disposizione né un esemplare dei miei libri, né appunti, né lettere di amici. A nessuno posso chiedere una notizia, perché in tutto il mondo la posta da paese a paese è interrotta o ostacolata dalla censura. Viviamo separati come centinaia d’anni or sono, prima che fossero stati inventati vapori e ferrovie, posta e aeroplani. Di tutto il mio passato non ho quindi con me altro che quanto porto dietro la fronte. Il resto è in questo momento irraggiungibile o perduto. Ma la nostra generazione ha imparato a fondo l’arte preziosa di non rimpiangere il perduto, e forse la mancanza di documentazione e di particolari tornerà a vantaggio al mio libro. Considero infatti la nostra memoria quale un elemento che non conserva casualmente l’una cosa per perdere fortuitamente l’altra, bensì come un’energia ordinatrice e saggiamente eliminatrice. Tutto quanto si dimentica della propria esistenza era già da un pezzo condannato per istinto a essere dimenticato. Solo ciò che vuol conservarsi può aspirare a essere conservato per gli altri.

Parlate e scegliete dunque, o miei ricordi, al posto mio, e date almeno il riflesso della mia vita, prima che essa scenda nel buio!”

(Stefan Zweig, “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”)

“Il mondo di ieri (ricordi di un europeo)” è la dimostrazione palese di come un’autobiografia, genere letterario che non riscuote le mie simpatie, possa oltrepassare i confini dell’esistenza di un singolo individuo ed ergersi a monumento letterario di un’intera epoca, nello specifico quella vissuta da Stefan Zweig, nato a Vienna nel 1891, cosmopolita convinto, fautore per tutta la sua esistenza d’istanze pacifiste, fondate sulla speranza, poi tradita dai drammatici eventi cui dovette assistere, che la cultura, nella sua più ampia e più alta accezione, potesse unire i popoli europei, prevalendo sulla barbarie, sui nazionalismi insorgenti all’inizio del Novecento, che avrebbero poi portato alla prima e alla seconda guerra mondiale. Zweig, come egli stesso specifica nella stupenda prefazione al testo, non narra, quindi, solo le sue esperienze private, pure interessanti perché ci offrono un autoritratto d’autore di un grande intellettuale, ma attraverso questa sua cronologica esposizione, scritta in esilio e pubblicata solo nel 1944, cioè due anni dopo il suicidio dello scrittore, ci dà un punto di vista arguto, profondo, talvolta ironico, spesso drammaticamente lucido, su decenni caratterizzati da terribili avvenimenti ma anche da scoperte scientifiche e da un enorme fermento culturale.

Il suo, ovviamente, è solo un punto di vista, non ha pretese di oggettività assoluta e non è nemmeno un manuale di storia dal quale ricostruire nei dettagli le singole esperienze narrate, ma è pur sempre la testimonianza sentita di un uomo che, giunto al termine dei suoi giorni, ripercorre la dissoluzione di un mondo, quello dell’Europa precedente la prima guerra mondiale, con la sincerità spregiudicata di chi è libero perché, sradicato da ogni radice territoriale, ha vissuto molteplici esistenze nel corso dei suoi sessant’anni di vita e ha sperimentato la difficoltà di difendersi dalla stoltezza degli uomini quando questa diventa contagiosa, quando l’essere umano diventa schiavo delle ideologie, dei proclami belligeranti, in definitiva del peggio che c’è in ciascuno di noi. Nelle pagine di Zweig si avverte netta, altresì, oltre alla sensazione d’impotenza di fronte alle sciagure più grandi dell’individuo, la possibilità di salvare ciò che nell’uomo vi è di più meraviglioso, e ciò attraverso le numerose testimonianze degli artisti, ma anche, più in generale, degli uomini, che hanno contribuito non alla barbarie ma alla crescita culturale, emotiva, sociale di Zweig stesso.

Su questo libro, che da tempo avevo intenzione di leggere ma che solo adesso mi sono deciso ad affrontare, ho preso talmente tanti appunti, nel corso della lettura, che quest’articolo risulterà certamente ridondante, ma non importa, il grosso l’ho già espresso nella parte iniziale, quindi il malcapitato lettore si sarà già fatto un’idea sull’opportunità di conoscere Zweig. Di seguito approfondirò gli aspetti che più mi hanno colpito, senza timore di svelare troppo, considerato che non si tratta di un romanzo classico del quale va celata la trama. Il libro comincia con un quadro relativo all’Impero austro-ungarico alla fine dell’Ottocento, in un capitolo intitolato “Il mondo della sicurezza”, perché caratterizzato da quella che sembrava essere una situazione di contemporanea stabilità e libertà, con una sensazione, poi rivelatasi ingiustificata da lì a pochi anni, che ci si avviasse davvero verso il “migliore dei mondi possibili”, con la religione del progresso fomentata dalle innegabili scoperte tecnologiche e scientifiche, insomma un mondo dove la violenza sembrava bandita e le guerre un ricordo lontano. Tutto ciò, era, ovviamente, un castello di sogni, peraltro costruito dal giovane Zweig anche grazie alla condizione agiata della sua famiglia, che sebbene parsimoniosa e non amante degli eccessi, certo non gli fece mancare nulla. Nei suoi ricordi l’autore non omette di riflettere su come quel presupposto familiare gli facesse scorgere quel mondo in una certa maniera, così come sottolinea anche l’ebraismo della stessa, tema sul quale tornerà anche in altri momenti del libro, per porre l’accento sul contributo degli ebrei allo sviluppo della cultura a Vienna e non solo, ma anche la sua personale distanza dai movimenti sionisti, ai quali non aderì.

Soprattutto, però, al centro della prima parte del libro, non solo del primo capitolo, c’è la rappresentazione di Vienna come centro culturale di enorme influsso, non solo e non tanto per il passato glorioso in campo musicale e teatrale, ma per il presente, con una popolazione che, a prescindere dall’appartenenza a un ceto sociale piuttosto che a un altro, era tutta permeata di un’aspirazione alla cultura da rappresentare, per un giovane com’era Zweig, un luogo ideale. Molto meno gradevoli, invece, i ricordi di scuola, periodo di scoramento, noia, frustrazione, causa la rigidità, la schematicità e la freddezza di rapporti tra docenti e allievi che c’era nelle scuole dell’Impero. La formazione culturale di Zweig e dei suoi amici, infatti, avvenne per lo più all’esterno delle grigie mura scolastiche, attraverso lo stimolo reciproco dato dalla scoperta di poeti, scrittori, filosofi, artisti, sia fossero lontani quali ad esempio Strindberg, Nietzsche, Dostoevskij, sia fossero contemporanei e anche raggiungibili fisicamente, come poi avvenne a Zweig, come Von Hofmannstahl e Rilke, tutti esempi con i quali confrontarsi e ai quali ispirarsi per future e improbabili carriere. Significativo, circa il rapporto dello studente Zweig con l’istituzione scolastica, il rifiuto, opposto dallo scrittore quando era affermato, di tenere un discorso commemorativo in un’aula che aveva riconosciuto come la sua antica “prigione” da studente. La scuola, riflette Zweig a distanza di decenni, non era altro che lo strumento del potere per paralizzare in partenza gli eventuali istinti ribellistici dei giovani. In ambito più generale, l’autore segnala l’ascesa del socialismo, a seguito della presa di coscienza delle masse, e rileva come, sull’onda di leggende circolanti a Vienna, ci fu stupore allorché una manifestazione socialista non si risolse in violenze gratuite, ma si svolse tranquillamente; per altro verso Zweig segnala anche la nascita del partito nazionalista tedesco, che fu sottovalutato da tutti e nel quale già era possibile scorgere i barlumi dell’hitlerismo che più tardi si sarebbe palesato.

Un giovane, è notorio, ha anche determinati impulsi fisici da soddisfare e Zweig, in questa sua lunga escursione nella sua gioventù, dedica alcune pagine anche alla svolta che a suo avviso le teorie di Freud dettero anche alle vetuste concezioni della sessualità, troppo spesso intrise di una morale ipocrita che portava a negare in pubblico ciò che in privato si praticava. All’università optò per filosofia, per la semplice ragione che quella facoltà gli consentiva di avere molto tempo libero e potersi dedicare, nello stesso, al suo reale interesse, cioè la letteratura, sia nelle vesti di lettore che di acerbo compositore di poesie e novelle. Qui ha inizio il racconto delle peregrinazioni di Zweig, che in quel periodo, a differenza di quanto sarebbe drammaticamente avvenuto dopo, erano volontarie e non necessitate da eventi esterni. Si trasferisce, per studio, alcuni mesi a Berlino, dove non solo ha modo di conoscere realtà diverse da quella viennese, ma riesce anche a incontrare Rudolf Steiner, del quale ci fornisce una mirabile descrizione. L’esperienza a Berlino lo induce a riflettere sul “fascino dei vinti, dei perduti”, nonché ad accrescere il senso critico nei confronti delle sue stesse opere, che reputa improponibili, tanto da dedicarsi, per affinare la sua arte, alla traduzione di autori stranieri. A Berlino conosce anche il poeta belga Verhaeren, al quale resterà legato sempre da profonda amicizia, e il francese Romain Rolland, che sentirà sempre come un suo fratello, specie quando i due, ciascuno sulla sponda ala quale il destino collettivo voleva legarli, cercheranno di combattere la loro battaglia contro il tradimento della ragione perpetrato dai signori della guerra.

Dopo Berlino, Zweig va a Parigi, laddove, oltre a scoprire una città dove “l’alto e il basso convivono”, percepisce il senso di libertà che la capitale francese gli trasmetteva, conosce i maestri del passato visitando i luoghi opportuni e soprattutto incontra André Gide, Rodin e Rainer Maria Rilke, restando affascinato dal silenzio di quel poeta iper-sensibile. Londra, invece, gli appare meno accogliente, mentre i successivi viaggi in India e negli Stati Uniti gli aprono ancora altre prospettive.

Tutto questo pellegrinaggio, però, è anche un continuo e inconsapevole allenamento alla provvisorietà che interverrà drasticamente nella sua vita. Intanto, a ventisei anni, quindi nel 1907, riesce, in maniera insperata, a ottenere che una casa editrice tedesca, molto in voga, gli pubblichi alcuni scritti. In breve, il suo nome oltrepassa i confini nazionali e a Zweig, che ormai ha conosciuto ed è stato conosciuto da grandissimi esponenti della cultura dell’epoca, sembra davvero possibile credere che il dialogo, la comunicazione, l’arte possano allontanare gli spettri più terrificanti. Non è così. A distruggere tale illusione arriva, mentre Zweig era a Baden a godersi l’estate immerso nella lettura, la notizia del cosiddetto “assassinio di Sarajevo”, il 28 giugno 1914. Tutto cambia. All’inizio le cose sembrano potersi risolvere altrimenti, non c’è sentore immediato di guerra, tanto che Zweig si reca a Ostenda, in Belgio, tappa del percorso verso l’amico Verhaeren. Assiste lì, con crescente orrore, all’escalation guerrafondaia sulla stampa, poi, scorgendo movimenti di soldati belgi, capisce che la situazione sta degenerando e riesce, con l’ultimo treno partente dal Belgio, a tornare in patria. Nei capitoli dedicati alla prima guerra mondiale, Zweig evidenzia come, a suo avviso, una differenza sostanziale tra la prima e la seconda guerra, fosse la fiducia, che ancora c’era nella prima, circa il potere della parola degli intellettuali. Il punto è che quella parola fu, nella maggior parte dei casi, una parola tendente a fomentare l’ubriacatura e la cecità collettiva, quasi che la guerra fosse un’avventura romantica di breve durata e necessaria per riaffermare con forza l’identità di ciascuna nazione. Pacifista convinto, Zweig sente l’orrore di quanto accade, ma anche la solitaria e scomoda posizione di chi è tacciato di essere un disfattista o addirittura un collaboratore del nemico, solo perché urla l’assurdità della guerra. Sul piano pratico, Zweig riesce a ricucirsi un ruolo marginale, nelle vesti di archivista, ma non rinuncia a elevare la sua parola per richiamare anche chi non vuol sentire. Lui e Rolland, come accennato prima, scrivono, rispettivamente, “Agli amici in terra straniera” e “Al di sopra della mischia”, scritti che, con somma sorpresa dell’autore, vengono anche pubblicati dai giornali guerrafondai. L’effetto, però, non può esserci. Solo nel 1917, in Austria, comincia a serpeggiare la convinzione che non si possa continuare a seguire l’alleato tedesco fino agli estremi.

Zweig, intanto, grazie all’inatteso aiuto di un gendarme austriaco, riesce ad ottenere il visto per trasferirsi in Svizzera, oasi di pace dove può incontrarsi con l’amico francese (nemico secondo le concezioni guerrafondaie) Rolland. Zurigo si rileva essere stimolante perché rifugi di altre personalità interessanti, per esempio Joyce, che Zweig incontra, come ho riportato in un altro articolo. Ci sono, però, anche le spie degli opposti schieramenti bellici. In ogni caso, la guerra finisce e ci s’illude che non possa più ripetersi, in futuro, un orrore simile.

Dagli accordi successivi alla fine delle ostilità esce un’Europa ridisegnata nei suoi equilibri socio-politici e geografici. L’Austria, dissoltosi definitivamente l’Impero austro-ungarico e la dinastia degli Asburgo, diventa una repubblica, quasi per costrizione, e Zweig torna dall’estero, stabilendosi a Salisburgo, all’epoca una piccola cittadina. Da lì può osservare le miserie del dopoguerra, il caso, l’inflazione, le ruberie degli sciacalli, ma anche la maggior attenzione dedicata a cose che prima del conflitto poteva essere ritenute scontate e delle quali si apprezza, adesso, il valore. Tuttavia, la delusione e le difficoltà condurranno ben presto a forma di ribellioni solo distruttive, a un culto del giovanilismo grottesco e al qualunquismo, stretto parente delle forme d’irrazionalità che predominano anche in campo culturale.

Tornando alle abitudini anteguerra, dopo aver passato tre anni a Salisburgo, Zweig riprende a viaggiare e si reca in Italia, dove gli austriaci non erano proprio i benvenuti dopo la guerra, eppure sulle prima le sue impressioni sono entusiaste, salvo poi, a Venezia, imbattersi in quelli che poi scoprirà essere degli “squadristi”. Lì comprende che sotto l’apparente pace europea covano conflitti sociali interni ai singoli stati e che non c’è da abbassare la guardia, impressione confermata dal successivo viaggio in Germania, sempre agli inizi degli anni ’20, quando si rende conto che Berlino è diventata una Babele e che la libertà di cui godono i tedeschi, proprio perché estrema, è la condizione ideale perché sorga una nuova dittatura, quale sarà poi quella di Hitler.

Nel decennio tra il 1923 e il 1933, comunque, cioè prima che tutto degeneri, Zweig ottiene il suo successo letterario. In Germania le sue opere sono accolte dal pubblico con crescente entusiasmo, è tradotto anche in gran parte dell’Europa e nei suoi ricordi non mancano considerazioni sul suo rapporto con il successo, senza falsa modestia ma sempre sottolineando come egli fosse restio a celebrazioni pubbliche. I suoi viaggi, in quel periodo che chiama di “relativa calma”, non sono più quelli di un giovane in cerca di sé stesso, ma semmai di un autore ormai conosciuto, al quale sono dischiuse porte prima blindate, ma che, pure, non esita a cercarsi luoghi appartati per rivivere, nei limiti del possibile, la giovinezza. Visita anche la Russia, potendo così verificare di persona quanto ci sia di vero e di falso nelle entusiastiche adesioni o nelle preconcette preclusioni che altri intellettuali avevano mostrato verso il nuovo corso post- rivoluzione bolscevica, ma soprattutto reca omaggio alla tomba di Tolstoj.

Agli inizi degli anni ‘ 30 torna a Salisburgo, che non è più una piccola cittadina, ma è diventata una fiorente città piena d’iniziative culturali, dalla quale, però, Zweig può osservare la terribile ascesa di un personaggio che vive a non molti chilometri dal suo paese: Adolf Hitler. Qui, per ovvi motivi, la narrazione si fa più cupa, non c’è più tanto spazio per le vicende culturali, per stimoli mentali, tutto è sopraffatto dall’incombente tragedia, di cui Zweig ha una triste premonizione quando rivede, nella sua terra, scene che aveva già visto a Venezia e a Berlino, cioè gli assalti degli squadristi. Le dosi di nazismo sono inoculate nell’opinione pubblica in maniera subdola e continua, la generale sottovalutazione della grandezza del fenomeno fa il resto. Con la presa del potere di Hitler in Germania, anche i libri di Zweig sono dapprima banditi, poi messi al rogo, in quanto egli ebreo e non ariano. Dopo aver subito un’assurda perquisizione a casa sua, lo scrittore decide di abbandonare l’Austria e andare a vivere a Londra, dove poi resterà come esule e dove conduce un’esistenza appartata, disilluso su ciò che stava accadendo, sullo stesso iniziale atteggiamento degli inglesi, che non gli sembrano consci di ciò che sta per accadere in Europa. Si sposta solo per tenere conferenza all’estero, specie in America, e nel corso di un viaggio scopre che in Spagna sta per scoppiare la guerra civile, tragico anticipo di tutto il resto.

Fino al 1937, torna saltuariamente in Austria, dove percepisce sempre più che l’antico sogno di gioventù, quello di un’Europa unita dalla solidarietà e dalla cultura, è destinato ormai alla rovina. Molto toccanti le pagine in cui descrive la consapevolezza di essere per l’ultima volta tra le strade di Vienna, il disperato “mai più” di chi sa che non rivedrà la propria terra, che di lì a poco, all’inizio del 1938, sarà annessa dalla Germania hitleriana. Il finale del libro è davvero toccante. Zweig vive a Londra, dove in occasione della conferenza di Monaco ci s’illude che tutto sia stato risolto, che la guerra non deflagrerà. Non è così, come purtroppo sappiamo. Tutto crolla, l’umanità assiste a orrori indicibili, a nulla vale, per Zweig, l’incontro con l’ultraottantenne Freud, anch’egli esule a Londra e incapace di spiegare il “perché” profondo di tanta miseria morale. Il libro si chiude con l’autore che passeggia per Londra e cerca di leggere sui volti della gente la paura per la notizia, appena giunta, dell’entrata in guerra dell’Inghilterra contro la Germania. l’ombra della guerra lo seguirà da lì in poi.

Il 23 febbraio 1942 Stefan Zweig si toglie la vita assieme alla sua seconda moglie.

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