Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Il frutto del fuoco

“Anche là dava nell’occhio, era la figura più esotica di quell’uditorio. Poiché sedeva sempre in prima fila, certamente Karl Kraus l’aveva notata. Mi sorpresi a domandare quale impressione ne avessi lui. Non applaudiva mai, neppure questo poteva essergli sfuggito. Ogni volta era là, allo stesso posto: un omaggio cui neppure Kraus poteva essere indifferente. Già in quel primo anno, durante il quale, nonostante il suo invito, non mi arrischiai a farle visita, provai una crescente irritazione per quel posto in prima fila. Ma poiché non comprendevo da che cosa derivasse quella mia irritazione, mi inventavo le ragioni più stravaganti. Laggiù la voce arrivava troppo forte, non si poteva resistere a quei crescendo improvvisi. Come non sprofondare sotto terra per il pudore e la vergogna davanti a certi personaggi degli Ultimi giorni dell’umanità? E come faceva quando non riusciva a frenare le lacrime, ascoltando I tessitori o Re Lear? Come poteva sopportare che Kraus la vedesse piangere? Ma forse voleva proprio questo! Che fosse fiera dell’effetto che su di lei avevano le parole di Kraus? Era un atto di adulazione mettersi a piangere davanti a tutti? Eppure, di questo ero sicuro, non era affatto una donna sfacciata, avevo anzi l’impressione che fosse estremamente pudica, più di chiunque altro; e invece, davanti a Karl Kraus, ostentava ogni suo sentimento, ogni reazione a quel che aveva appena udito. Al termine della lettura, Veza non si avvicinava al podio; mentre molti cercavano di farsi avanti, lei no, restava in piedi, e guardava, nient’altro. Anch’io, dopo le letture, ero sempre talmente scosso e turbato che rimanevo nella sala ancora per un bel po’ e applaudivo in piedi, finché mi dolevano le mani. In quello stato la perdevo di vista, senza i suoi capelli nerissimi, quasi blu, e quella nitida scriminatura non sarei riuscito a ritrovarla. Finita la lettura, Veza non faceva nulla in cui io potessi cogliere una mancanza di dignità. Non restava nella sala più a lungo di tanti altri, e quando Kraus veniva a fare l’inchino, Veza non era fra gli ultimissimi.”

(Elias Canetti, “Il frutto del fuoco, Storia di una vita 1921-1931)

Come “La lingua salvata”, del quale costituisce il seguito sotto il profilo temporale, anche “Il frutto del fuoco” ha vinto la mia ritrosia nei confronti delle (auto)biografie, e lo ha fatto anche perché, essendo un’autobiografia, non è solo tale, ma è molto di più, rappresentando l’opportunità di conoscere il pensiero di Canetti su argomenti che certo sono legati ai personaggi e alle vicende dell’epoca, ma che spesso travalicano quegli angusti confini per dare al lettore spunti sui più diversi argomenti, a cominciare, ovvio, dalla scrittura e dall’arte più in generale. Il libro diventa, così, un quadro di immagini e parole con le quali Canetti tenta di tenere insieme le forze centrifughe della mente e della realtà, che rendono impossibile individuare un centro unico e indissolubile. Il periodo in cui sono ambientate le pagine di questo volume è tra il 1921 e il 1931, dunque nel mezzo di due guerre mondiali, con tutto ciò che questo significa.

La grandezza di Canetti sta nel riuscire a non annoiare anche raccontando eventi banali della sua vita quotidiana, oltre che, ma qui il gioco è più facile, quando ci racconta incontri con personalità artistiche o ci narra le sue impressioni su libri, quadri che anche noi che leggiamo possiamo aver letto. Il libro è stato suddiviso dall’autore in cinque parti, in corrispondenza di spostamenti o eventi che hanno segnato la sua gioventù e che l’hanno poi portato a scrivere opere come “Auto da fé”, “Massa e potere” e tanto altro.

Nella prima parte, che riprende il finale di “La lingua salvata”, ma che si può leggere anche indipendentemente (però consiglio di seguire l’ordine), Canetti, sedicenne, si trova a Francoforte, dove è andato a seguito della decisione, presa dalla madre nonostante il parere contrario del figlio, di abbandonare l’amata Zurigo, ferita che non si rimarginerà. In una pensione condivisa con altri, il ragazzo ha modo di riflettere sull’ingiustizia della loro agiatezza, in un mondo attraversato da turbolenze politico-economiche, ma soprattutto conosce l’umanità variegata che condivide con lui lo stesso alloggio.

Nella seconda parte, tornato a Vienna, Canetti s’iscrive alla facoltà di chimica, non troppo convinto, visto che la sua passione è altra, cioè la letteratura. A Vienna avviene una delle prime svolte, la conoscenza, in veste di pubblico, di Karl Kraus. Le letture pubbliche di Kraus, che all’inizio lo lasciano perplesso per via di un certo fanatismo del pubblico che egli trova insopportabile, ben presto lo conquistano e lì conosce anche Veza, sua futura compagna. In una pagina bellissima del libro, Canetti racconta come fu proprio in quel periodo che cominciò a interessarsi al tema della massa, pur avendo ancora, all’epoca, idee piuttosto confuse e da corroborare con letture e studi successivi.

La terza parte è incentrata su Veza e sulla libertà di pensiero che la donna gli mostra, oltre che sulla crescente ostilità della madre verso Veza stessa, causa di una frattura con il figlio. L’episodio però che Canetti annovera come quello decisivo della sua intera esistenza è datato 15 luglio 1927 ed è l’incendio al Palazzo di Giustizia di Vienna, causato dall’assalto di una folla inferocita e che causò, poi, novanta morti tra gli operai a seguito di scontri con le forze dell’ordine. Da lì Canetti, oltre allo smarrimento derivante dall’essersi trovato in mezzo alla bolgia, trasse spunti per riflettere più compiutamente su quel concetto di massa che gli pareva non essere mai stato sufficientemente approfondito (e, tra parentesi, ammetto a malincuore che nel momento in cui scrivo, ancora non ho letto “Massa e potere”: rimedierò).

La quarta parte è invece ambientata a Berlino, dove Canetti visse per pochi mesi, ma quel tanto che gli bastò per restare colpito dalla diversità di Berlino rispetto a Vienna, che pure non era certo una cittadina provinciale. A Berlino, Canetti incontra Brecht, sul quale esprime delle riserve che lascio al lettore approfondire, conosce Isaac Babel’, autore che egli ammirava, ma più in generale avverte come le impressioni che egli ricava da quella città siano spesso inconciliabili tra loro. La mente di Canetti diventa così un pulviscolo di colori diversi, che egli fatica a dipanare inizialmente, anche nei tentativi giovanili di scrittura, ma che gli insegnano a non dare mai nulla per assoluto, a dubitare, a interrogarsi su se stesso e sul mondo. Tornato a Vienna, nel 1929, si laurea, e nella quinta parte del libro descrive come, finalmente, toltosi di mezzo quell’incombenza universitaria, egli possa dedicarsi alla vita necessaria, cioè alla letteratura. Un lavoro da traduttore ben pagato gli permette di farlo con maggiore libertà e una conoscenza particolare farà sì che il fuoco nella mente prenda una prima forma, e precisamente quella che, dopo una scrematura tra otto personaggi che si affastellavano nella sua mente, diventerà “Auto da fé”, grande romanzo che vi consiglio al pari di questa intensa e meravigliosa autobiografia, che mi accingo a continuare con la lettura del terzo libro, cioè “Il gioco degli occhi”.

“Sono passati cinquantatré anni, eppure sento ancora nelle ossa la febbre di quel giorno. È la cosa più vicina a una rivoluzione che io abbia mai vissuto sulla mia pelle. Da allora so con assoluta precisione quel che accadde durante l’assalto della Bastiglia, è un tema sul quale non avrei più bisogno di leggere una parola. Mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva. Mi meraviglio che in una simile disposizione d’animo fossi ancora in grado di percepire in tutti i particolari ogni singola scena che si svolgeva davanti ai miei occhi. Ne voglio raccontare una.

In una strada laterale non lontana dal Palazzo di Giustizia che stava bruciando, ma in posizione defilata e comunque ben distanziata rispetto alla massa, un uomo con le braccia alzate e le mani congiunte sopra la testa in un gesto di disperazione, gridava gemendo: <<Bruciano i fascicoli! Tutti i fascicoli!>>. <<Meglio i fascicoli che gli umani!>> gli dissi, ma a lui questo non importava affatto, aveva in testa soltanto i fascicoli, e a me venne in mente che forse in quel palazzo egli stesso aveva a che fare, magari come archivista, con dei fascicoli; l’uomo era inconsolabile, e a me, malgrado la situazione, fece un effetto comico. Al tempo stesso però mi indignava. <<Ma non vede che laggiù hanno sparato alla gente,>> dissi iroso <<e lei parla di fascicoli!>>. Lui mi guardò in faccia come se neanche esistessi e gemette di nuovo: <<Bruciano i fascicoli! Tutti i fascicoli!>>. Pur essendosi messo in disparte, non era possibile non udire il suo lamento, anch’io infatti l’avevo udito.”

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