Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Il fantasma di Boboli” (Firenze 17-21 luglio 2018)

In questo articolo sono ammassati i frammenti sparsi che il viaggio compiuto a Firenze mi ha ispirato. Non vi è una coerenza precisa, se non la Bellezza devastante di questa città.

Ho visto tramonti peggiori.

 

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(Uscendo dall’appartamento che mi ospita, a pochi metri ho notato questa targa, che ricorda Carlo Levi nel periodo in cui visse proprio qui, a Piazza de’ Pitti.)

“Qui abitò tra il dicembre 1943 e l’agosto 1945 Carlo Levi.
Qui scrisse ‘Cristo si è fermato a Eboli’ e dipinse quadri fra i suoi più belli e umani, nella casa di Annamaria Ichino, per lui e altri sicuro rifugio dal nazifascismo e dalle persecuzioni antisemite.”

 

(Il fantasma di Boboli)
Al giardino di Boboli dovevo andarci l’anno scorso, ma quel giorno era chiuso, il treno del ritorno incombeva e quindi lasciai il fantasma di me stesso là, fuori dall’ingresso di Porta Romana, in compagnia di un altro bel fantasma, ma un po’ deluso da quella porta serrata.
Stamattina sono entrato da Palazzo Pitti, ingresso principale. Ho passeggiato nel verde, ho ammirato il panorama di Firenze, le vasche d’acqua, le grotte, il Museo della porcellana, ho percorso il viale dei cipressi e, a un certo punto, ho visto un cancello, l’ho riconosciuto. Era proprio quello di Porta Romana, stavolta aperto.
Ho compreso di trovarmi dall’altra parte e poi, che ci crediate o meno, ho visto lui, il mio fantasma, ancora là fuori, che chiacchierava con un altro fantasma, a dirla tutta molto più elegante del mio.
Mi sono avvicinato al cancello, quasi con la paura di rovinare la loro conversazione, ma curioso, incredulo nel constatare come lui, il mio fantasma, fosse ancora lì dopo otto mesi.
Anche lui si è accorto di me e mi ha indicato all’altro fantasma, che ha sorriso.
E infine, non so neanch’io come, arrivato a un paio di metri da loro, ho detto: “Potete entrare, che aspettate, non vedete che è aperto?”. Loro, all’unisono, mi hanno risposto, con una voce che non dimenticherò mai: “Aspettavamo che fossi tu ad aprirla.”
Poi, una volta entrati, abbiamo cominciato a ricordare tante cose, ma questa, in fondo, è un’altra storia.

 

bty

“In questi pressi, fra il 1868 e il 1869, Fedor Mihailovic Dostoevskij compì il romanzo L’idiota”.

Ce l’avevo davanti agli occhi da due giorni ma, pur attento osservatore di ogni minima targa commemorativa, non l’avevo ancora vista.
Chi mi conosce può immaginare cosa significhi scoprire che 150 anni fa il mio scrittore preferito, Dostoevskij, scrivesse quel grandioso romanzo a tre metri da dove alloggio per questa trasferta fiorentina.
Il tutto mentre io, che avevo portato cinque fogli bianchi per scrivere qualcosa, sono riuscito ad appuntare solo gli orari dei treni e il nome di qualche locale. La targa si trova a Piazza de’ Pitti.

 

Quasi ormai sulla via del ritorno in provincia, ho rotto gli indugi, ho giocato d’anticipo, svegliandomi all’alba e alle 8.19 esatte sono entrato agli Uffizi, abbeverandomi alla fonte della Bellezza, novello Bacco caravaggesco.

 

“Ero già in una sorta di estasi all’idea di trovarmi a Firenze (…) Assorbito nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, la toccavo per così dire. Ero giunto a quel livello di emozione, dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un tuffo al cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.
(Stendhal, “Roma, Napoli, Firenze”)

Nel 1817 il grande Stendhal, autore tra l’altro di romanzi come “Il rosso e il nero” e “La Certosa di Parma”, visitò la Basilica di S. Croce, a Firenze.
Nel libro “Roma, Napoli, Firenze”, racconta della vertigine che lo colse all’interno della Basilica e che, in seguito, sarà appunto nominata come “sindrome di Stendhal”.

 

Ciao Firenze, ciao Ponte Vecchio, è tempo di tornare al mio paese, ma questo non è un addio, anche se non si sa mai, un addio è sempre in agguato.
Tornerò, forse da turista o forse addirittura da Re, quando sarò straricco, quando il Ponte potrò acquistarlo e trasformarlo in una gigantesca biblioteca vista fiume.
Ah, Firenze, hai visto che sono riuscito a passare su quel Ponte decine di volte in questi giorni, senza mai canticchiare quella canzone che Ivan ti dedicò?
Volevo fare una foto perfetta per salutarti, ma come vedi un furgoncino e una coppia di turisti si sono inseriti nell’inquadratura. Ma è giusto che anche loro passino da una sponda all’altra, costruendo ricordi, frugando nel passato, vivendo il presente, sospettando il futuro.
Beh, adesso vado davvero, anche perché mi si sta annebbiando la vista, sembra quasi che mi si stiano inumidendo gli occhi e il treno non avrebbe tempo di aspettare che io capisca se sono lacrime di gioia, di malinconia o un groviglio inestricabile di queste e altre cose.

“Ricordo i suoi occhi, strano tipo di donna che era
quando gettò i suoi disegni con rabbia giù da Ponte Vecchio.
– Io sono nata da una conchiglia, – diceva –  “La mia casa è il mare e con un fiume no, non la posso cambiare”.

 

 

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“Vita di Henry Brulard” (Stendhal)

Stendhal

(Stendhal ebbe l’idea di scrivere questo libro il 16.10.1832, cinquantenne, mentre si trovava sul Gianicolo, a Roma. Nel ricostruire le sensazioni relative alla sua infanzia e giovinezza, ricorda, tra l’altro, la morte precoce della madre, il rapporto conflittuale con il padre, il bigotto abate che gli faceva da precettore e il nonno, al quale in questo passaggio sottrae libri, instillando in sé il germe della letteratura.)
“Un romanzo è come un archetto, la cassa del violino che «rende i suoni», è l’animo del lettore. Allora il mio animo era pazzo e dirò il perché.
Mentre il nonno, seduto sul seggiolone dirimpetto al piccolo busto di Voltaire, leggeva, io guardavo la biblioteca, aprivo i volumi in quarto di Plinio, traduzione con testo a fronte, vi cercavo soprattutto la storia naturale della «donna».
Il profumo eccellente era ambra o muschio (questi da sedici anni mi dànno malessere; è forse lo stesso odore ambra e muschio). Infine mi attrasse un mucchio di libri in brossura, buttati alla rinfusa, erano romanzacci non rilegati che lo zio aveva lasciato a Grenoble prima di andarsi a stabilire alle Echelles (Savoia, vicino al Pont-de-Beauvoisin). Fu una scoperta decisiva per il mio temperamento. Ne sfogliai qualcuno; erano romanzi insipidi del 1780, ma per me costituivano l’essenza della voluttà.
Il nonno mi proibì di toccarli, ma io spiavo il momento in cui egli era più intento a leggere sulla poltrona quelle novità di cui non so come avesse sempre tanta abbondanza, e rubavo un volume di quei romanzi. Certo egli si accorse dei miei ladrocinii, perché mi vedo sistemato nel gabinetto di storia naturale spiando se qualche malato venisse a cercarlo. In quei casi il nonno si lamentava di vedersi rapito ai suoi beneamati studi, e andava a ricevere il cliente in camera sua o nell’anticamera del grande appartamento. Tac! io m’infilavo nello studio, e rubavo un libro.
Non saprei rendere la foga con cui leggevo quei romanzi (…) Divenni completamente pazzo; il possesso di una vera amante, allora oggetto di tutti i miei desideri, non mi avrebbe immerso in un simile torrente di voluttà.
Da quel momento si decise la mia vocazione: vivere a Parigi e comporre commedie come Molière.
Divenne il mio chiodo ch’io nascosi con profonda dissimulazione; la tirannide di Séraphie mi aveva dato le abitudini di uno schiavo.
Non ho mai potuto parlare di ciò che adoravo; un simile discorso mi sarebbe parso blasfemo.
Provo questa sensazione con la stessa vivezza nel 1835 che nel 1794.”
(Stendhal, “Vita di Henry Brulard”, ed. Einaudi)

“Avevi un bel nome. Romanzesco”

In un vecchio e dimenticabile articolo, riflettevo (eufemismo) sul problema dell’identificazione tra il lettore e i personaggi di un romanzo. In questo breve ma altrettanto dimenticabile scritto, aggiungo qualche riflessione sui nomi dei personaggi romanzeschi e sull’influenza nefasta che gli stessi possono avere sull’esistenza di un individuo lettore e soprattutto su quella di chi, incolpevole, si trova nel suo raggio visivo ed emotivo. Proprio perché affascinanti ed evocanti avventure mirabilmente narrate, certi nomi possono imporsi alla mente del lettore patologico come rappresentativi di chissà quale valore morale, etico, sentimentale, sessuale, sociologico, in un moderno e ingiustificato delirio da “nomen omen”.

In concreto, quali sono i sintomi del delirio da nome romanzesco? Il lettore conceda allo scrivente, cioè a me, di tirare in ballo situazioni personali, che non interessano a nessuno, è evidente, ma che potranno meglio chiarire il discorso anche a un livello più generale. “Avevi un bel nome, dopo tutto. Romanzesco”, questa la mia mesta considerazione allorquando, Continua a leggere…

“Il tempo di attesa stimato è”

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“Il tempo di attesa stimato è superiore ai quattro minuti. Tutti gli operatori sono al momento occupati. La invitiamo ad attendere”.

Quattro minuti possono essere tanti, ma mi conviene attendere, se riaggancio e riprovo più tardi non è detto che possa andarmi meglio. Sì, ma intanto a cosa penso? Il micio si arrampica al mio polpaccio, vorrebbe salire tra le mie braccia, ma adesso non si può, devi attendere anche tu, caro felino, almeno quattro minuti, poi potremo avvinghiarci quanto vuoi, ma ora le mani mi servono, vedi, una per reggere la cornetta, l’altra per prendere appunti, se e quando sarò messo in contatto con un operatore.

“Il tempo di attesa stimato è superiore ai quattro minuti. Tutti gli operatori sono al momento occupati. La invitiamo ad attendere”.

L’attesa. Passiamo molto del nostro tempo ad attendere qualcosa. Certe volte si tratta della fila alla posta o dal medico, che da queste parti significa anche poter socializzare con qualcuno, solo a volerlo. L’attesa può essere snervante, ma il poeta c’insegna che il più delle volte nel villaggio il sabato è meglio della domenica proprio perché si è ancora immersi nell’attesa, Continua a leggere…

“I briganti in Italia” (Stendhal).

stendhal

“Nel corso della sua vita avventurosa, due cose, da cui non si separa mai, rassicurano il brigante italiano: il suo fucile, in cui confida per salvarsi la vita, e la Vergine Maria, a cui si affida per salvare la sua anima. Nulla di più spaventoso di questo miscuglio di ferocia e superstizione! Un uomo del genere finisce col convincersi che la morte sul patibolo, preceduta dall’assoluzione datagli da un prete, gli assicurerà un posto in paradiso. Un simile convinzione spesso spinge un disgraziato a commettere un delitto che gli varrà la pena capitale allo scopo di meglio procacciarsi una felicità resa certa dal sacrificio della sua vita! Insomma, quella è gente che vi assassina come si deve, con la corona del rosario in mano e accompagnando le sue stilettate con un per amor di Dio”.

(Stendhal, “I briganti in Italia”, ed. Il Melangolo)

“I briganti in Italia” è un breve scritto di Stendhal (Marie – Henri Beyle) che in origine doveva essere pubblicato nel volume “Roma, Napoli, Firenze”, ma poi fu inserito in un libro di un cugino di Stendhal. Si tratta di circa trenta pagine nelle quali l’autore affronta, in maniera molto sintetica e senza pretesa di esaustività, il tema del brigantaggio in Italia, con cenni storici relativi alle origini di quel fenomeno e alcuni ritratti di briganti. Stendhal sottolinea le diverse motivazioni che spingevano personaggi molto eterogenei tra loro a dedicarsi a quel genere di esistenza, rilevano come alcuni fossero spinti dalla miseria o da uno spirito poco incline ad asservirsi a “poteri”, laici o clericali che fossero, mentre altri erano più semplicemente degli assassini avidi di sangue e denaro. Continua a leggere…

Sulla tomba di Petrarca e sul “pellegrinaggio”.

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Sto leggendo “La civiltà del Rinascimento” di Jacob Burckhardt, libro molto interessante, al quale tra qualche giorno potrei dedicare un articolo. Adesso, però, segnalo solo un passaggio riguardante Petrarca, tirato in ballo (assieme a Dante) come precursore di una certa “categoria” d’individui dei quali Burckhardt scrive. In particolare, però, questo testo su Petrarca è tratto da un capitolo sulla “gloria in senso moderno” e su culto delle abitazioni o dei luoghi di morte di scrittori, pittori, scultori e via discorrendo.

Scrive Burckhardt: “Anche Petrarca assaporò a larghi sorsi questa nuova glorificazione destinata dapprima soltanto agli eroi e ai santi, benché negli ultimi anni confessi egli stesso che gli riesce inutile e perfino molesta. La sua Lettera alla posterità è un conto che un uomo celebre, divenuto vecchio, si rende in dovere di rendere intorno a se stesso, per appagare la pubblica curiosità, e da essa si rileva che egli ambiva assai la gloria postuma e volentieri avrebbe rinunciato a quella che godeva tra i suoi contemporanei…E quanto non dovette sentirsi commosso quando in occasione di una sua gita ad Arezzo, sua patria, gli amici lo condussero nella casa dove era nato, e gli annunciarono che la città aveva decretato che in essa non si doveva permettere alcun mutamento!”. Prosegue Burckhardt, qualche riga dopo: “Al culto delle abitazioni si collega anche quello delle tombe d’illustri personaggi; anzi, quanto a Petrarca è oggetto di venerazione anche il luogo dove morì, e Arquà, appunto per la memoria che vi si conserva di lui, diviene un soggiorno assai ricercato dai Padovani, che vi innalzano eleganti edifici in un tempo in cui nei paesi settentrionali non si narra d’altro che di pellegrinaggi devoti a qualche immagine o reliquia miracolosa”.

(Jacob Burckhardt, “La civiltà del Rinascimento in Italia”, Newton Compton Editori))

“Pellegrinaggi”, scrive lo storico (ma non solo tale) svizzero. Tali parole hanno subito stimolato una zona del mio cervello, laddove è parcheggiata una lettura che feci qualche tempo fa, cioè “Se non la realtà” di Tommaso Landolfi. Nel brano intitolato “La gattina del Petrarca”, Continua a leggere…

Roma “a volo di Scrittore” (Goethe, Stendhal e altri passeggiatori “capitolini”)

Qualche anno fa stavo leggendo “La Parigi degli esistenzialisti, manuale di Saint Germain des Prés” di Boris Vian, personaggio poliedrico che pensò bene di raccontare ‘dall’interno’ vicende cui aveva assistito, il tutto con una certa ironia di fondo. A un certo punto del volume c’è una foto del 1944. All’interno di una casa ci sono dodici persone, tra le quali Jean Paul Sartre, Albert Camus, Simone de Beauvoir e Pablo Picasso.

(intervallo: potete anche saltare le prossime trenta – quaranta righe e andare direttamente laddove c’è scritto Thomas Bernhard)

È vero che in quel periodo ero particolarmente preso da quegli autori (soprattutto Sartre e Camus), e quindi il mio giudizio era di parte, ma non ho paura di dire un’eresia se affermo che in quella stanza c’erano neuroni eccellenti. In verità, però, la sto prendendo troppo alla larga, del resto a Parigi non ci sono nemmeno stato, se non attraverso gli autori di cui prima, nonché Stendhal, Balzac, Hugo e via discorrendo.

A Roma, però, ci sono passato, e in occasione di una mia gita in modalità “Giro A Caso Senza Una Meta Precisa Con Un Taccuino In Mano Sperando Di Appuntare Qualcosa Che Un Giorno Mi Sarà Utile” appuntai sul taccuino, tra le altre cose, le seguenti frasi: “Ore 13.30. I gatti di Largo di torre Argentina. Il gatto, animale antico e rispettabile, collega il mio cortile a questo luogo. Ore 14.25. Nell’edificio dove Percy B. Shelley scrisse il “Prometeo liberato” oggi c’è il Credito Italiano. Tempi bui.”

Quindi? Non è un articolo sui gatti, e nemmeno su Shelley, che non ho mai letto, e benché meno sui “tempi bui”. Quello spunto, unitamente al ricordo su Parigi di cui sopra, mi ha fatto pensare che anche a Roma sono passati fior di scrittori e pensatori. Che bella scoperta, direte voi! Lo so, non è originale scoprire che Roma rappresenta ‘qualcosa’ nel mondo, che non è ‘solo’ la capitale d’Italia.

Andando al sodo, ho pensato di raccogliere qui alcune impressioni, più o meno fugaci, che alcuni autori di mia “conoscenza” hanno lasciato su Roma. Mi sono limitato agli autori “stranieri”. Perché? Boh, forse perché sono pigro, e la lista è già lunga di per sé che inserire anche gli italiani avrebbe reso quest’articolo più illeggibile di quanto già non sia.

Per quanto riguarda gli italiani e romanzi ambientati (in modo esplicito o implicito, a seconda dei casi) a Roma, basta ricordare “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana) di Gadda, “La strada per Roma” di Paolo Volponi, i libri di Moravia, di Pasolini, “Il compagno” di Pavese, “Roma senza Papa” di Guido Morselli (che non ho ancora letto), “Notizie dagli scavi” di Franco Lucentini etc, etc, etc.

Finita la premessa, lascio la parola ad alcuni tra i vari “passanti eccellenti” che hanno solcato le strade di Roma, riportandone, com’è ovvio che sia, opinioni discordanti (anche se nel complesso prevale l’ammirazione, tra quelli che ho ‘incontrato’). So che resteranno fuori dall’articolo in tanti (per esempio Thomas Mann e il suo soggiorno in occasione dell’inizio della stesura de “I Buddenbrok”), ma tant’è.

Il primo visitatore è Thomas Bernhard, che parla di Roma nel suo romanzo “Estinzione, uno sfacelo” (1986), a mio avviso un capolavoro.

“A Parigi, a Lisbona non ho trovato ciò che ho cercato per così tanti anni, un nuovo punto d’appoggio, un nuovo inizio, nulla. A Roma sì. Eppure da Roma non mi aspettavo nulla, avevo sempre soltanto pensato, andrà bene per una settimana di svago, non di più…e allora era evidente che la mia decisione di andare a Roma aveva portato il rinnovamento della mia esistenza, per così dire la svolta spirituale. D’improvviso ho respirato. Continua a leggere…

Il problema dell’Identificazione lettore – personaggio. Da Anna K. a Zeno Cosini, alcuni utili consigli per salvarvi.

Un male atavico affligge molti lettori, cioè la nefasta tendenza a identificarsi con un personaggio romanzesco, con tutte le conseguenze del caso. È il momento di fornire a voi amabili visitatori del blog uno strumento che potrà aiutarvi a uscire dal “tunnel dell’Identificazione”. Chi di voi abbia provato un’esperienza del genere (sia pure nella più o meno lontana gioventù), potrà trovare dei sintetici consigli che lo aiuteranno a estirpare i residui del personaggio con cui si era immedesimato. Chi ancora non ha letto i romanzi che hanno come protagonisti i soggetti sotto elencati potrà, invece, costituire attorno a sé una barriera per preservarsi dal processo d’identificazione e della sua inevitabili patologie. A chi, invece, ritiene che sia da stolti identificarsi con un personaggio, dico che ha ragione, ma che non è bello da parte sua ricordarmelo.

Ho pensato di suddividere i personaggi in ordine alfabetico, facilitando così la vostra eventuale ricerca. Accanto a ciascuno ho messo un suggerimento lapidario. Non è farina del mio sacco, tutto ciò mi è stato recapitato nottetempo da un messaggero oscuro ma benevolo. P.s.: la lista è da completare. Il messaggero mi visiterà ancora, ne sono certo.

A)

  • AMLETO (“Amleto”, William Shakespeare). Per dirimere i vostri dubbi, affidatevi all’oroscopo, anche se non ci credete.
  • ANNA KARENINA (“Anna Karenina”, Lev Tolstoj). Occhio ai treni.
  • ALESA KARAMAZOV (“I fratelli Karamazov”, Fëdor Dostoevskij). L’abito monacale non vi dona.
  • ANTONIO ROQUENTIN (“La nausea”, Jean Paul Sartre). Sorridete al fotografo. Lo so che non vi va, ma ogni tanto “fate buon viso a cattivo gioco”; e sorridete anche a questa frase fatta. Ma lo dico per voi, eh.

B)

  • BERNARD RIEUX (“La peste”, Albert Camus). Il lavoro non vi mancherà. Rimboccatevi il camice.
  • BARTLEBY (“Bartleby lo scrivano”, Hermann Melville). Attenti a dire sempre “preferirei di no”, il posto fisso è passato di moda, orde di precari aspettano di prendere il vostro posto.
  • BEHEMOTH (“Il Maestro e Margherita”, Michail Bulgakov). Siate felini ma con giudizio. Non funziona come nei libri. Camminare a quattro zampe con atteggiamento sornione potrebbe anche portarvi direttamente al primo centro d’igiene mentale.

C)

  • CYRANO (“Cyrano de Bergerac”). Il romanticismo è stato bello, scrivere le lettere d’amore anche, ma non è il tempo di essere più pratici? No, la butto là, poi pensateci voi.
  • CANDIDO (“Candido”, Voltaire). I precettori non hanno sempre ragione.

D)

  • DORIAN GRAY (“Il ritratto di Dorian Gray”, Oscar Wilde). La bellezza (?) vi ucciderà. Siate pronti all’appuntamento.
  • DMITRI K. (“I fratelli Karamazov”, Fëdor Dostoevskij). Non è saggio andare nei pub per ubriacarvi e raccontare i fatti vostri.
  • DON CHISCHIOTTE (“Don Chisciotte”, Miguel de Cervantes Saavedra). I mulini non sono quello che sembrano.

E)

  • EUGENE DE RASTIGNAC (“Papà Goriot”). Prima di affacciarvi da una collina e gridare, in tono di sfida “Parigi, ora a noi due”, accertatevi di essere davvero a Parigi e non ancorati in una provincia qualsiasi. Continua a leggere…

Che cos’è la Bellezza? (alcune non-risposte)

Se uno mi prendesse per il bavero e mi dicesse “ora dammi la tua definizione di ‘bellezza’ o ti mollo un cazzotto in faccia” credo che blatererei qualcosa per mettermi al riparo da ricoveri al reparto di chirurgia maxillo – facciale, senza mettermi a questionare a quale bellezza, se a quella della natura, dell’uomo, della donna, dell’universo, della cellula, a quella esteriore o interiore (che significa poi questa distinzione? No, questa è un’altra puntata), a quella con la B maiuscola o minuscola e via discorrendo. Senza la minaccia, però, invocherei il diritto al silenzio e all’ignoranza della materia.

Qui sotto, minacce a parte, riporto alcune riflessioni sulla ‘bellezza’ che ho trovato nei libri che ho letto. Si tratta di stralci presi da opere molto differenti tra loro, in alcuni casi frasi brevi, in altre più lunghe. Ovviamente non sostengo che per ciascuno degli autori citati la bellezza fosse quello che sostengono in queste frasi. Spero risulti altrettanto evidente, spero, da alcune delle frasi scelte, che bellezza non è da intendersi come migliore di bruttezza, per lo meno nel senso che… no, vabbé, non mi stanno mica minacciando, e se anche lo facessero potrei appellarmi a una di queste, che sia pure per ragioni diverse mi hanno, in un qualche modo, convinto.

  • “HAMM Ho conosciuto un pazzo che credeva che la fine del mondo ci fosse già stata. Dipingeva. Gli volevo bene. Andavo a trovarlo, al manicomio. Lo prendevo per mano e lo tiravo davanti alla finestra. Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là! Guarda! Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza! (pausa). Lui liberava la mano e tornava nel suo angolo. Spaventato. Aveva visto solo ceneri. (pausa) Lui solo era sopravvissuto. (pausa) Dimenticato. (pausa) Sembra che questi casi non siano… non fossero così… rari.”
    (Samuel Beckett, “Finale di partita”)
  • “Decisiva, per chi veramente ama, non è la bellezza dell’amato. Anche se fu quella ad attirarli dapprima l’un verso l’altro, essi torneranno continuamente a dimenticarla in nome di altre e maggiori meraviglie, anche se per ritrovarla continuamente, e fino alla fine, interiorizzata nella memoria. Diversamente la passione. Anche la più labile eclissi della bellezza la getta nella disperazione. Poiché solo per l’amore “la bella” è il bene più caro: per la passione lo è sempre “la più bella”. Passionale è quindi anche la disapprovazione con cui gli amici si distolgono dalla novella. Inammissibile è, per loro, questo far getto della bellezza.”
    (W. Benjamin, “Saggio sulle affinità elettive”).
  • “La bellezza! Io non posso sopportare che un uomo, magari di cuore nobilissimo e di mente elevata, cominci con l’ideale della Madonna e finisca con l’ideale di Sodoma. Ancora più terribile è quando uno ha già nel cuore l’ideale di Sodoma e tuttavia non rinnega nemmeno l’ideale della Madonna Continua a leggere…

Stendhal (23 marzo 1842, un ricordo di Moravia)

“Che io stesso sia invidioso di Stendhal? Mi ha portato via la più bella battuta da ateo, che avrei potuto dire proprio io: – Dio ha la scusa di non esistere.”

(Friedrich Nietzsche)

Il 23 marzo 1842 moriva Stendhal. “Il rosso e il nero” è l’opera che più mi lega a lui, ma la sua produzione letteraria, sempre raffinata, divertente e ironica, è tutta di altissimo livello. Stendhal aveva un grande rapporto con l’Italia e alcuni suoi libri ne sono testimonianza.
Qui sotto, cliccando sul link in rosso e sottolineato, troverete, tratta dal portale Rai Letteratura, un’intervista ad Alberto Moravia, nella quale lo scrittore italiano racconta il suo rapporto con Stendhal.

Moravia su Stendhal

“Ti consiglio di andare a farti frate – disse a Giulio – le virtù richieste non ti mancano, a cominciare dalla povertà, come la cassetta ben dimostra; che tu abbia l’umiltà, lo dice il fatto che ti sei lasciato insultare sulla pubblica via da un riccone di Albano; ti resta solo da praticare un po’ di ipocrisia e d’ingordigia.”

(da “La badessa di Castro”)

“E’ un grosso errore parlare di ciò che si ama: che ci si guadagna? Il piacere di essere commossi per un istante dal riflesso dell’emozione altrui. Ma un imbecille, irritato soltanto perché parlate voi, può uscirsene in una battuta spiritosa che insozza i vostri ricordi. Di qui forse quel pudore della vera passione, che le anime comuni dimenticano d’imitare quando fingono d’essere innamorate.”

(da “Passeggiate romane”)

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