Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Irradiano “completezza”

Ci sono persone che irradiano “completezza”, che tu le vedi, fai il confronto e sul momento ne esci a pezzi, ma non perché invidi la loro donna, la loro posizione sociale, l’automobile, il denaro, no, non per questo, o forse sì, anche per questo (per quanto t’inorridisca ammetterlo), ma principalmente per quell’aria di “completezza”, che poi non è proprio “completezza” e non neanche “compiutezza”, forse è “sicurezza” oppure non è proprio una cosa che finisce con “ezza”, magari è qualcosa che finisce con “tà”, tipo “felicità” o almeno “serenità”, o neanche questo, è un qualcosa che non sai definire e non lo sai fare perché il più delle volte è solo una tua “fantasia”.
Il fatto è che sul momento questa gente ti appare aver compreso qualcosa sull’esistenza che tu non hai mai capito e mai capirai, e non è solo merito della barba e dei baffi ben curati, benché (o poiché) brizzolati. Il fatto è che loro irradiano e tu no. Tu sei incompleto, incompiuto, insicuro, non hai ben chiaro i concetti di “felicità” e “serenità” e tante altre cose. Il confronto è impietoso.
Però poi accade che tu cadi addormentato e tutto ciò non è più vero. Accade che ti risvegli al mattino e leggi sul giornale (stai mentendo, il giornale non lo leggi più da anni) o su qualche pagina virtuale, o dove vuoi e puoi, leggi che quel tipo non era proprio così compiuto, completo, sicuro, felice, sereno, leggi che ha comprato una pistola ad acqua perché voleva annaffiare amici e nemici, oppure che si è gettato nel water per suicidarsi ma è stato salvato dai gatti, o infine che ha scritto un romanzo, o peggio fondato un movimento politico perché voleva “dare un senso pubblico alla sofferenza privata”, e allora capisci che non è proprio come pensavi, capisci o hai conferma che non è vero che ti manca una donna, una macchina, il denaro o soprattutto quei baffi brizzolati e ben curati (sì, vabbè, qualcosa tra queste può mancarti, ma son dettagli), quello che ti manca davvero sono un letto e un cuscino sui quali poterti stendere ed estendere per ventiquattro ore al giorno.
Perché lì, tu lo sai da sempre, non temi nessuno. Neanche te stesso.

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La banda

“Essenzialmente (ma è proprio l’essenziale che sfugge) sarebbe così: fino a quel momento lo aveva colpito una serie di elementi anomali slegati: il falso programma, gli spettatori inappropriati, la banda illusoria in cui la maggioranza degli elementi era falsa, il direttore fuori posto, la finta sfilata, e lui stesso coinvolto in una cosa che non lo riguardava. Di colpo gli parve di capire in termini che eccedevano tutto infinitamente. Sentì come se gli fosse stato dato di vedere finalmente la realtà. Un momento della realtà che gli era sembrata falsa perché era quella vera, quella che ora non vedeva più. Ciò cui aveva appena presenziato era il vero, cioè il falso. Non sentì più lo scandalo di trovarsi attorniato da elementi che non si trovavano al loro posto perché, essendo conscio di un mondo altro, comprese che quella visione poteva essere ampliata alla strada, al Galéon, al suo abito azzurro, al suo programma per la serata, al suo ufficio di domani, al suo piano di economie, alle sue vacanze di marzo, alla sua amica, alla sua maturità, al giorno della sua morte. Per fortuna non continuava a vedere in questo modo, per fortuna era di nuovo Lucio Medina. Ma solo per fortuna.”
(Julio Cortázar, “La banda”, in “I racconti”, ed. Einaudi)

“Dall’altro lato dei miei occhi chiusi” (racconto “Il fiume” di Julio Cortázar)

“E sì, pare che sia così, pare che te ne sia andata dicendo non so cosa, che andavi a gettarti nella Senna, qualcosa di simile, una di quelle frasi da notte fonda, mescolate a lenzuola e a bocca impastata, quasi sempre nel buio o con qualcosa come mano o piede che sfiori il corpo di chi ascolta appena, perché è da tanto che ti ascolto appena quando dici cose così, non vengono che dall’altro lato dei miei occhi chiusi, dal sonno che di nuovo mi tira giù. E allora va bene, cosa m’importa se te ne sei andata, se ti sei affogata o ti aggiri ancora per le banchine guardando l’acqua, e poi non è vero perché sei qui addormentata e respiri a singulti, ma allora non te ne sei andata quando andasti via a un certo punto della notte prima che io mi perdessi nel sonno, perché te ne eri andata dicendo qualcosa, che andavi ad affogarti nella Senna, ossia hai avuto paura, hai rinunciato e di colpo sei qui e quasi mi tocchi, e ti muovi ondeggiando come se qualcosa lavorasse dolcemente nel tuo sonno, come se davvero sognassi che sei uscita e che dopo tutto sei arrivata alla banchina e ti sei gettata in acqua. Così una volta ancora, per dormire dopo con la faccia di stupido pianto, fino alle undici di mattino, l’ora in cui portano il giornale con le notizie di coloro che si sono affogati davvero.

Mi fai ridere, poverina. Le tue decisioni tragiche, quel tuo modo di sbattere le porte come un’attrice da tournée di provincia, uno si domanda se realmente credi nelle tue minacce, nei tuoi ripugnanti ricatti, nelle tue irresistibili scene patetiche con il crisma delle lacrime, degli aggettivi e delle recriminazioni. Meriteresti qualcuno più dotato di me che ti desse la battuta, allora si vedrebbe erigersi la coppia perfetta, con il fetore squisito dell’uomo e della donna che si distruggono guardandosi negli occhi per assicurarsi la proroga più precaria, per sopravvivere ancora e ricominciare a perseguire inesauribilmente la propria verità di sterpaglie e di fondo di casseruola. Ma lo vedi, scelgo il silenzio e accendo una sigaretta e ti ascolto parlare, ti ascolto mentre ti lamenti (a ragione, ma che ci posso fare), o meglio ancora, mi addormento a poco a poco, cullato quasi dalle tue imprecazioni prevedibili, con gli occhi socchiusi mescolo ancora per un momento le prime folate dei sogni con i tuoi gesti di camicia da notte ridicola alla luce del lampadario che ci regalarono quando ci sposammo, e credo che alla fine dormo e porto con me, te lo confesso quasi con amore, la parte più utilizzabile dei tuoi movimenti e delle tue accuse, il suono schioccante che ti deforma le labbra livide di collera. Per arricchire i miei sogni in cui mai a nessuno viene in testa di affogarsi, puoi crederci. Continua a leggere…

Un sogno

Persone sedute al tavolo di un pub. Un uomo percepisce di trovarsi in un sogno.

– So che questo è un sogno, – dice.

Gli altri lo guardano, basiti.

Lui sa che è un sogno, vuole che il sogno continui, ma vuole, ha bisogno che anche gli altri siano consapevoli che è solo un sogno.

– Adesso scrivo su un foglio che siamo in un sogno, voi lo firmate e al risveglio ve lo mostrerò.

L’uomo prende la penna e un foglio, ma si chiede come potrà trasportare quel foglio fuori dal sogno. Intanto prova a scrivere; non appena la penna tocca il foglio, l’uomo si sveglia, ritrovandosi nel suo letto, solo.

L’uomo, a differenza di un tempo, ora sa che la consapevolezza di essere in un sogno uccide il sogno stesso, e prende atto di questa metamorfosi.

Specchi innevati

“Sdraiati nel letto, in silenzio guardarono a lungo la neve fuori. Ka a volte vedeva la neve che scendeva anche negli occhi di Ipek”.
(Orhan Pamuk, “Neve”)

Non solo di pseudo-recensioni e soli articoli frammentari vivrà questo blog. Leggendo la frase nel romanzo di Pamuk, ho pensato alla canzone. Il post, caratterizzato da insolita e forse non sgradita brevità, finisce qua.

“Signorina cuorinfranti” (Nathanael West)

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“Forse riesco a spiegartelo. Cominciamo dall’inizio. Un tizio viene assunto col compito di dare consigli ai lettori di un giornale. La rubrica altro non è che una manovra per aumentare la tiratura, e l’intera redazione la considera una specie di scherzo. Ma al tizio quell’incarico va benissimo, perché prima o poi potrebbe passare a una rubrica più mondana, e in ogni caso è stufo di fare l’eterno galoppino. Si rende conto anche lui che quella rubrica è una cosa da ridere, ma dopo che ci lavora qualche mese comincia a non trovare più la cosa tanto buffa. Si accorge che la stragrande maggioranza delle lettere non sono altro che appelli profondamente umili per ottenere consigli di ordine spirituale e morale, che si tratta di espressioni inarticolate di una sofferenza autentica. Inoltre il tizio scopre che i suoi corrispondenti lo prendono sul serio. Per la prima volta è costretto a verificare i valori su cui è basata la sua vita. Questa verifica gli dimostra che è lui la vittima dello scherzo, non viceversa”.

(Nathanael West, “Signorina cuorinfranti”, ed. minimum fax)

“Signorina cuorinfranti” è la traduzione scelta dalla Bompiani nel 1948, data della prima pubblicazione in Italia del romanzo di Nathanael West, autore del quale avevo già letto, qualche mese fa, “Il giorno della locusta”. La “minimum fax”, presso la quale ho acquistato il romanzo alla fiera “Più libri più liberi”, conserva questo titolo; quello originario, “Miss Lonelyhearts”, letteralmente sarebbe Signorina Cuorisolitari, e fa riferimento al protagonista, un giornalista incaricato di ricevere lettere dai lettori e consigliarli sulle loro vicende sentimentali. Così detto, potrebbe sembrare, almeno a me, un romanzo rosa poco accattivante, e invece non è così, perché West, che nel corso della sua breve esistenza non ebbe molta fortuna, elabora una storia tragicomica che non si rivela essere solo una commedia nera, ma offre spunti di riflessione di diverso tipo.

In primo luogo, il protagonista, da noi conosciuto solo come Miss Lonelyhearts, vive l’ambiguità di chi, uomo, appare ai suoi lettori come una donna, ma questo sarebbe il meno. Il fatto è che Miss Lonelyhearts non sopporta più il peso delle lettere che riceve, perché ciò che all’inizio era una sorta di scherzo o comunque una trovata per aumentare il numero dei lettori, si rivela un qualcosa che scava nella mente del giornalista, Continua a leggere…

“Castelli in aria (abbattuti)” – oppure “Ei fu cortometraggio”

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Nella schiera dei miei progetti rivelatisi poi vuote velleità, c’è anche una sorta di sceneggiatura per un cortometraggio, che teoricamente io e alcuni amici avremmo dovuto realizzare qualche anno fa, ma che in pratica agonizza in un cassetto della mia stanza. L’umanità, è bene sottolinearlo, non ha sentito né sentirà la mancanza di quest’opera potenziale, che avrebbe potuto infestare i social network o addirittura qualche “Festival del Corto”. Oggi, spinto dal tedio provinciale, mi sono riletto l’elaborato, così da rilevarne, a distanza di tempo, difetti evidenti e pretenziosità. Il titolo che avevo scelto come definitivo, “Castelli in aria”, nel quale avrei voluto condensare l’aleatorietà dei pensieri del protagonista, rappresenta, probabilmente, la parte più riuscita dell’opera. Inoltre, sebbene il titolo stesso non spicchi per brio, si dovrà ammettere che resta preferibile all’originale “La finestra del castello”, da me abbandonato per evidente squallore dello stesso.

Influenzato da non so quali letture dell’epoca, presumo qualcosa che evidenziasse la relatività della conoscenza, mi convinsi di avere in mente un’idea brillante nel corso di una passeggiata lungo la via principale del mio paese, dalla quale è possibile scorgere, in lontananza, il castello medievale che domina dall’alto le strade sulle quali ero e sono solito passeggiare. La prima scena, intitolata “Il viale dell’eterna illusione”, si apre con due amici che camminano mogi e silenti, accompagnati da “Un giorno dopo l’altro” di Luigi Tenco come colonna sonora, scelta non certo rappresentante uno slancio nel mondo dell’ottimismo. L’indicazione per l’eventuale regista del corto è di piazzare la telecamera alle spalle dei due viandanti, in modo da “dare il senso della prospettiva” e inquadrare anche il castello. Continua a leggere…

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