
“Con cadenza pressoché regolare, almeno una volta a settimana, mi capita di leggere qualcosa sui bei tempi andati. Sono quegli articoli scritti da letterati puri che, per esempio, cercano di affrontare con la dovuta serietà la seguente questione: che fine hanno fatto i vecchi sapori di una volta? Di conseguenza, con cadenza pressoché regolare, vado a scoprire che le mele non sono più quelle di un tempo, l’uva nemmeno e via via, di settimana in settimana, tutta la produzione ortofrutticola italiana sembra irreversibilmente e orribilmente modificata. Ora, sarà quel tono copiato da Pasolini, falsamente risentito, sarà la palpabile presunzione dell’articolista che finge di sapere a menadito cose che non conosce, sarà che per otto anni della mia vita ho studiato agraria e perché lavoro nel settore agricolo, ma, in genere, questi articoli hanno il potere di rovinarmi la giornata”.
(Antonio Pascale, “Scienza e sentimento”, Giulio Einaudi editore)
Su un’insegna di un negozio lessi quello che doveva essere un antico motto popolare: “Si fa quel che si fa, ma si sa quel che si fa”. Come a dire, non ci spingiamo oltre i limiti delle nostre conoscenze, ma almeno potete fidarvi che di quel poco che facciamo ne abbiamo consapevolezza. Certo, se poi dovessimo applicare al tutto il celebre e ultra – citato “so di non sapere” socratico, allora la questione si complica. Mi capita spesso di sentirmi inadeguato nel parlare o nello scrivere di argomenti che non padroneggio e non sto parlando di chirurgia cardiovascolare, della quale non scrivo o parlo mai perché non ne so proprio nulla, bensì di temi sui quali magari mi sono anche documentato, ma non abbastanza da farmi sentire al riparo delle giuste critiche di chi, magari, su quelle materie sta gettando sudore da decenni. È chiaro se non è possibile neanche applicare con estremo rigore certe forme di autocensura, altrimenti, considerando che c’è sempre qualcuno che ne sa più di me, dovrei limitarmi a parlare di come respiro, di come mangio, bevo, dormo, defeco e urino, o forse neanche questo visto che tali attività basilari richiedono spiegazioni anch’esse scientifiche.
Noto, però, che non tutti si pongono le stesse domande di cui sopra e propongono le loro tesi, sui giornali, in tv, sul web, su qualunque argomenti capiti loro a tiro. Liberi di farlo, certo, ma liberi anche noi lettori di dubitare della fonte. Su queste pagine, nella sezione “Racconti ingabbiati”, c’è anche un mio delirante articolo che riguarda proprio questa tendenza a voler fornire un’Opinione sull’Argomento. Si tratta di uno scritto frutto di una serata un po’ acida, forse, ma quei pensieri li richiamo spesso, soprattutto per fungere da monito a me stesso, quando, per esempio, mi avventuro in pseudo – recensioni su libri di filosofia o di fisica, materie che ho affrontato e affronterò da lettore, appassionato e non da specialista.
Tutta queste logorroica premessa mi è servita per introdurvi a “Scienza e sentimento” di Antonio Pascale. In questo saggio l’autore affronta proprio il tema di come eccessi di semplificazione, retorica e impreparazione scientifica abbiano portato quelli che l’autore chiama “intellettuali puri” a discettare, con troppa faciloneria, su argomenti che richiedono conoscenze specifiche e studi tali da permettere di non cadere preda di avventurieri alla ricerca dell’applauso facile, di falsi miti e posizioni alla moda, magari atte a nascondere a sé stessi problemi di coscienza ben più sottili di quelli che la dicotomia bene/male è capace di mettere alla luce. Il tema specifico da cui parte l’autore è quello del settore agrario, con particolare riferimento alle rappresentazioni della realtà volte a definire come bene ciò che è naturale, e male ciò che è artificiale, chimico, senza tenere presente che il mondo è più complesso e articolato di tali dicotomie e che soprattutto, per poter parlare di agricoltura con un minimo di cognizione di causa, non basta leggersi due links su internet ma c’è bisogno di studi e di esperienza sul campo. Pascale, infatti, nel testo ricorda, spesso con tono divertito e divertente, aneddoti dei suoi passati studi di agraria, le sue esperienze sui campi alle prese con le coltivazioni, il suo giovanile e troppo assolutistico ambientalismo, proprio per confutare alcuni miti diffusisi anche grazie ad articoli d’intellettuali troppo inclini a fare l’occhiolino al cuore, a scapito del cervello, dimentichi che l’uno e l’altro sono indispensabili alla nostra esistenza.
Sulle questioni più settoriali toccate da Pascale, per esempio sulla questione degli Ogm, non oso mettere bocca, proprio perché non ho motivo, al momento, di prendere per oro colato né le sue tesi né quelle che egli avversa, per quanto condivida gran parte delle sue osservazioni. Ciò che mi ha interessato di più del saggio è l’impostazione complessiva, la proposizione di un manifesto laico della conoscenza, l’importanza della conoscenza nel suo significato più alto, che non dev’essere vista come qualcosa di freddo e asettico, ma come piena consapevolezza dei nostri limiti e degli sforzi che dobbiamo fare per comprendere di più il mondo che ci circonda, sforzandoci di non cedere a facili populismi di chi, non avendo argomenti da proporre, è solo capace di parlare “contro” qualcuno e non “per” qualcosa. La retorica dell’apocalisse e la demonizzazione della scienza e della tecnologia tout-court si fonda spesso sulla dimenticanza delle più elementari considerazioni, per esempio che è proprio grazie allo sviluppo della scienza, della medicina e della tecnologia che è possibile sopravvivere e magari scrivere articoli su un blog.
Non ho letto altri libri di Antonio Pascale, non so, al momento, di cosa trattano gli altri suoi scritti, ma dalle brevi note biografiche in coda al libro e dalle sue parole ho intuito che anche lui è un letterato (“impuro”, forse direbbe), che si occupa di svariati argomenti e non posso che apprezzare il suo approccio laico, darwinista e multidisciplinare, convinto come sono, anch’io, che scienza e sentimento non debbano essere visti come mondi disgiunti, ma che bisogna dubitare, domandare, indagare e non cedere alle facili soluzioni che la rabbia del momento o a pigrizia possono offrirci.
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