Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Il senso delle cose” (Richard P. Feynman)

Il senso delle cose

“Il sogno dell’umanità è trovare il canale giusto. Qual è il significato di tutto quanto? Cosa possiamo dire, oggi, intorno al mistero dell’esistenza? Se teniamo conto di tutto, non solo di quanto sapevano gli antichi, ma anche di quello che loro ignoravano e noi abbiamo scoperto, allora credo che l’unica risposta onesta sia: nulla. Ma credo anche che con questa ammissione abbiamo probabilmente fatto un passo nella direzione giusta.

Ammettere di non sapere, e mantenere sempre l’atteggiamento di chi non sa quale direzione è necessario prendere, ci dà modo di variare, di riflettere, di scoprire cose nuove e di avanzare nella conoscenza di noi stessi, per riuscire a fare quello che veramente vogliamo, anche quando non sappiamo cosa vogliamo.

Guardando indietro, si ha l’impressione che i periodi peggiori della nostra storia siano quelli in cui era più forte la presenza di persone che credevano in qualcosa con fede cieca e dogmatismo assoluto, prendendosi tanto sul serio da pretendere che il mondo intero la pensasse come loro. E poi facevano cose espressamente in contrasto con i loro stessi princìpi al fine di dimostrare la verità della propria dottrina.

Come ho già detto in precedenza, e qui lo ribadisco, l’unica speranza per un progresso dell’umanità in una direzione che non ci porti in un vicolo cieco (come già tante volte è successo in passato) risiede nell’ammissione dell’ignoranza e dell’incertezza. Io dico che non sappiamo quale sia il significato della vita e quali i giusti valori morali, e non abbiamo modo di sceglierli.”

(Richard P. Feynman, “Il senso delle cose”, ed. Adelphi)

“Il senso delle cose” è la trascrizione di un ciclo di tre conferenze tenute da Richard P. Feynman, già presente in questo blog con “Sei pezzi facili”, “Sei pezzi meno facili” e “QED, la strana teoria della luce e della materia”. A differenza dei citati titoli, che nonostante il loro intento divulgativo richiedono comunque un certo interesse per la materia (la fisica), “Il senso delle cose” risulta leggibile e gradevole Continua a leggere…

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“La strada che porta alla realtà” (Roger Penrose)

Penrose

“Nel ventesimo secolo ci sono state due rivoluzioni fondamentali nel pensiero scientifico e, a mio parere, la relatività generale è stata una rivoluzione impressionante quanto la meccanica quantistica (o la teoria quantistica dei campi). Tuttavia, questi due grandi schemi del mondo sono basati su principi che contrastano tra loro. La prospettiva usuale, riguardo al proposto matrimonio tra queste teorie, è che una di esse, e precisamente la relatività generale, debba sottomettersi al volere dell’altra. Sembra opinione comune che le regole della teoria quantistica dei campi siano immutabili e che sia la teoria di Einstein quella che deve piegarsi per adattarsi allo stampo quantistico standard. Pochi suggerirebbero di modificare le stesse regole quantistiche per assicurare un matrimonio armonioso. In verità, lo stesso nome “gravità quantistica”, normalmente assegnato a questa unione proposta, è un’implicita indicazione del fatto che si tratta di una teoria quantistica standard (di campo) quella che viene cercata. Io affermo però che esistono prove osservative in base alle quali il punto di vista della Natura su tale questione è molto diverso!”

(Roger Penrose, “La strada che porta alla realtà”, ed. Bur Rizzoli)

Alcuni mesi fa, alla ricerca di testi divulgativi che mi potessero introdurre ai concetti fondamentali della fisica, e in speciale modo della meccanica quantistica, m’imbattei in “La strada che porta alla realtà” di Roger Penrose. Ricordo che lo vidi su uno scaffale in libreria, lo presi in mano, lessi la presentazione, sfogliai un po’ il poderoso volume e decisi che potevo spendere quelle € 14,90 nella fondata speranza di ricavarne qualcosa di utile. Guardando l’indice e la mole (oltre 1200 pagine) mi ero reso conto di trovarmi di fronte a un progetto ambizioso, cioè, citando dal libro stesso, “rendere accessibili e intriganti i segreti dell’universo, permettendoci di contemplare in un quadro unitario gli elementi che regolano il delicatissimo equilibrio della nostra esistenza”. In altre parole, Penrose, in quest’opera monumentale, ci presenta tutte le principali tappe evolutive della fisica e della matematica. Fin qui le sensazioni iniziali.

Passato dalla contemplazione attiva dell’acquirente alla successiva fase di lettura, mi resi conto, dopo i primi sette – otto capitoli, che l’impresa, per me, era ardua. Riassumendo, posso dire che, giunto a pagina 700 su circa 1200, ne avevo intese al massimo un terzo, saltando spesso interi paragrafi o addirittura capitoli, quando mi accorgevo che non stavo comprendendo nulla. A un certo punto, Continua a leggere…

“La forma dello spazio profondo” (Shing-Tung Yau, Steve Nadis)

La forma dello spazio profondo

“È difficile dire perché idee fondamentalmente matematiche continuino a spuntare in natura. Richard Feynman trovava egualmente difficile spiegare perché “tutte le nostre leggi fisiche siano proposizioni essenzialmente matematiche”. La chiave risolutiva di questi rompicapo, egli riteneva, potrebbe trovarsi, da qualche parte, nel nesso consistente tra matematica, natura e bellezza. “È difficile trasmettere a coloro che non sappiano di matematica”, affermava Feynman, “una sensazione reale riguardo alla bellezza, alla più profonda bellezza della natura.”

Ovviamente, se in un modo o nell’altro il criterio guida dev’essere la bellezza, anche solo in via provvisoria, finché non ci si imbatte in indizi più tangibili, rimane il problema di stabilire che cosa sia la bellezza: un compito che però bisognerebbe lasciare ai poeti, direbbe qualcuno. È anche possibile che i matematici e i fisici abbiano della bellezza un concetto un po’ diverso: eppure, in entrambe le discipline, le idee che tendenzialmente definiamo “belle” sono quelle che possono essere stabilite chiaramente e concisamente e che nello stesso tempo si connotano come potenti e di ampia portata. Anche così, essendo la bellezza una nozione squisitamente soggettiva, il gusto personale finisce inevitabilmente per far pendere il piatto della bilancia”.

(Shing Tung Yau – Steve Nadis, “La forma dello spazio profondo”, ed. Il Saggiatore)

Potrei asserire di aver scelto la precedente citazione perché essa è l’unica frase del libro che mi è parsa avere un senso comprensibile alle mie attuali conoscenze, ma peccherei di falsa modestia e quindi preferisco scrivere che con la stessa ho voluto evidenziare un aspetto affascinante di questo libro, che ha reso possibile oltrepassare i numerosi passaggi più ostici. “La forma dello spazio profondo” è un testo scritto a quattro mani da Shing-Tung Yau, matematico di chiara fama internazionale, e dal giornalista scientifico Steve Nadis. Nonostante l’intento divulgativo, va detto che non si tratta di pagine accessibili a tutti, richiedendo una certa preparazione o quanto meno una potente curiosità per gli argomenti trattati, tale da vincere lo scoramento che può prendere il lettore quando, come è capitato a me, si dovesse rendere conto che non solo non ci si può improvvisare matematici e fisici, ma neanche ci si può improvvisare lettori di libri scritti da matematici e fisici. Continua a leggere…

“L’atomo e le particelle elementari” (Massimo Teodorani)

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Stavo leggendo le pagine finali di questo libro, quando ecco che la mia gatta Lara, che un giorno o l’altro mi rivolgerà la parola, lo so, si sdraia sul pavimento a godersi i raggi di sole. Rotolandosi sul dorso, mi guarda e sembra volermi ricordare che i suoi occhi, pur essendo anch’essi un ammasso di molecole, atomi, elettroni, protoni, neutroni, quark e via discorrendo, sono anche qualcosa in più. Le faccio l’occhiolino, lei fa un saltello poco quantico ma molto felino e mi dà il permesso di scrivere quest’articolo su “L’atomo e le particelle elementari” di Massimo Teodorani, astrofisico con Dottorato in Fisica Stellare.

Tra le diverse testi di carattere divulgativo che ho letto negli ultimi tempi su argomenti simili, questo mi è parso, da subito, uno tra i più limpidi esempi di come si possa scrivere di argomenti complessi senza banalizzarli ma al tempo stesso senza rendere incomprensibile la materia a chi non abbia una laurea come quella dell’autore. Il titolo dato al libro ci fa comprendere come Teodorani ci guida alla scoperta delle più recenti teorie sull’universo partendo dalle concezioni filosofiche atomistiche più antiche, per esempio quella di Democrito. Il primo capitolo Continua a leggere…

“Incontri con menti straordinarie” (Piergiorgio Odifreddi)

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– A proposito di libri, come mai il primo libro che ha scritto si chiama Elogio dell’imperfezione?

– Perché io considero l’imperfezione come la molla darwiniana della selezione naturale. Ad esempio, gli insetti di seicento milioni di anni fa sono identici a quelli di oggi: erano già perfetti e non c’era motivo che cambiassero. L’uomo invece era imperfetto, e questo ha dato la molla per il suo sviluppo e la sua evoluzione.

Non sembra essersi evoluto molto, se guardiamo a ciò che è successo nel Novecento.

Io parlavo delle qualità mentali, mentre lei parla delle qualità emotive: si tratta di due cose molto diverse, che derivano dai nostri due cervelli. Uno è il cervello cognitivo, neocorticale, che ci distingue dagli altri animali. L’altro è il cervello arcaico, paleocorticale, che è uguale a quello dei primati subumani o delle specie inferiori: dal punto di vista emozionale, l’uomo di oggi effettivamente non è diverso dall’uomo della giungla.

(dall’intervista a Rita Levi Montalcini, in “Incontri con menti straordinarie”, Piergiorgio Odifreddi, edizione Longanesi)

“Incontri con menti straordinarie” è una raccolta di brevi interviste che Piergiorgio Odifreddi, matematico, collaboratore di diverse testate e divulgatore scientifico, ha effettuato a economisti, medici, biologi, chimici, fisici e matematici che hanno caratterizzato, con le loro scoperte e teorie, il secolo scorso e l’inizio dell’attuale. La gran parte degli intervistati ha ottenuto anche il premio Nobel o la medaglia Fields. Continua a leggere…

“Scienza e sentimento” (Antonio Pascale)

scienza e sentimento

“Con cadenza pressoché regolare, almeno una volta a settimana, mi capita di leggere qualcosa sui bei tempi andati. Sono quegli articoli scritti da letterati puri che, per esempio, cercano di affrontare con la dovuta serietà la seguente questione: che fine hanno fatto i vecchi sapori di una volta? Di conseguenza, con cadenza pressoché regolare, vado a scoprire che le mele non sono più quelle di un tempo, l’uva nemmeno e via via, di settimana in settimana, tutta la produzione ortofrutticola italiana sembra irreversibilmente e orribilmente modificata. Ora, sarà quel tono copiato da Pasolini, falsamente risentito, sarà la palpabile presunzione dell’articolista che finge di sapere a menadito cose che non conosce, sarà che per otto anni della mia vita ho studiato agraria e perché lavoro nel settore agricolo, ma, in genere, questi articoli hanno il potere di rovinarmi la giornata”.

(Antonio Pascale, “Scienza e sentimento”, Giulio Einaudi editore)

Su un’insegna di un negozio lessi quello che doveva essere un antico motto popolare: “Si fa quel che si fa, ma si sa quel che si fa”. Come a dire, non ci spingiamo oltre i limiti delle nostre conoscenze, ma almeno potete fidarvi che di quel poco che facciamo ne abbiamo consapevolezza. Certo, se poi dovessimo applicare al tutto il celebre e ultra – citato “so di non sapere” socratico, allora la questione si complica. Mi capita spesso di sentirmi inadeguato nel parlare o nello scrivere di argomenti che non padroneggio e non sto parlando di chirurgia cardiovascolare, della quale non scrivo o parlo mai perché non ne so proprio nulla, bensì di temi sui quali magari mi sono anche documentato, ma non abbastanza da farmi sentire al riparo delle giuste critiche di chi, magari, su quelle materie sta gettando sudore da decenni. È chiaro se non è possibile neanche applicare con estremo rigore certe forme di autocensura, altrimenti, considerando che c’è sempre qualcuno che ne sa più di me, dovrei limitarmi a parlare di come respiro, di come mangio, bevo, dormo, defeco e urino, o forse neanche questo visto che tali attività basilari richiedono spiegazioni anch’esse scientifiche.

Noto, però, che non tutti si pongono le stesse domande di cui sopra e propongono le loro tesi, sui giornali, in tv, sul web, su qualunque argomenti capiti loro a tiro. Liberi di farlo, certo, ma liberi anche noi lettori di dubitare della fonte. Su queste pagine, nella sezione “Racconti ingabbiati”, c’è anche un mio delirante articolo che riguarda proprio questa tendenza a voler fornire un’Opinione sull’Argomento. Si tratta di uno scritto frutto di una serata un po’ acida, forse, ma quei pensieri li richiamo spesso, soprattutto per fungere da monito a me stesso, quando, per esempio, mi avventuro in pseudo – recensioni su libri di filosofia o di fisica, materie che ho affrontato e affronterò da lettore, appassionato e non da specialista.

Tutta queste logorroica premessa mi è servita per introdurvi a “Scienza e sentimento” di Antonio Pascale. In questo saggio l’autore affronta proprio il tema di come eccessi di semplificazione, retorica e impreparazione scientifica abbiano portato quelli che l’autore chiama “intellettuali puri” a discettare, con troppa faciloneria, su argomenti che richiedono conoscenze specifiche e studi tali da permettere di non cadere preda di avventurieri alla ricerca dell’applauso facile, di falsi miti e posizioni alla moda, magari atte a nascondere a sé stessi problemi di coscienza ben più sottili di quelli che la dicotomia bene/male è capace di mettere alla luce. Il tema specifico da cui parte l’autore è quello del settore agrario, con particolare riferimento alle rappresentazioni della realtà volte a definire come bene ciò che è naturale, e male ciò che è artificiale, chimico, senza tenere presente che il mondo è più complesso e articolato di tali dicotomie e che soprattutto, per poter parlare di agricoltura con un minimo di cognizione di causa, non basta leggersi due links su internet ma c’è bisogno di studi e di esperienza sul campo. Pascale, infatti, nel testo ricorda, spesso con tono divertito e divertente, aneddoti dei suoi passati studi di agraria, le sue esperienze sui campi alle prese con le coltivazioni, il suo giovanile e troppo assolutistico ambientalismo, proprio per confutare alcuni miti diffusisi anche grazie ad articoli d’intellettuali troppo inclini a fare l’occhiolino al cuore, a scapito del cervello, dimentichi che l’uno e l’altro sono indispensabili alla nostra esistenza.

Sulle questioni più settoriali toccate da Pascale, per esempio sulla questione degli Ogm, non oso mettere bocca, proprio perché non ho motivo, al momento, di prendere per oro colato né le sue tesi né quelle che egli avversa, per quanto condivida gran parte delle sue osservazioni. Ciò che mi ha interessato di più del saggio è l’impostazione complessiva, la proposizione di un manifesto laico della conoscenza, l’importanza della conoscenza nel suo significato più alto, che non dev’essere vista come qualcosa di freddo e asettico, ma come piena consapevolezza dei nostri limiti e degli sforzi che dobbiamo fare per comprendere di più il mondo che ci circonda, sforzandoci di non cedere a facili populismi di chi, non avendo argomenti da proporre, è solo capace di parlare “contro” qualcuno e non “per” qualcosa. La retorica dell’apocalisse e la demonizzazione della scienza e della tecnologia tout-court si fonda spesso sulla dimenticanza delle più elementari considerazioni, per esempio che è proprio grazie allo sviluppo della scienza, della medicina e della tecnologia che è possibile sopravvivere e magari scrivere articoli su un blog.

Non ho letto altri libri di Antonio Pascale, non so, al momento, di cosa trattano gli altri suoi scritti, ma dalle brevi note biografiche in coda al libro e dalle sue parole ho intuito che anche lui è un letterato (“impuro”, forse direbbe), che si occupa di svariati argomenti e non posso che apprezzare il suo approccio laico, darwinista e multidisciplinare, convinto come sono, anch’io, che scienza e sentimento non debbano essere visti come mondi disgiunti, ma che bisogna dubitare, domandare, indagare e non cedere alle facili soluzioni che la rabbia del momento o a pigrizia possono offrirci.

“Il caso e la necessità” (Jacques Monod)

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“La probabilità a priori che, fra tutti gli avvenimenti possibili dell’universo, se ne verifichi uno in particolare è quasi nulla. Eppure l’universo esiste; bisogna dunque che si producano in esso certi eventi la cui probabilità (prima dell’evento) era minima. Al momento attuale non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza era nulla. Quest’idea non solo non piace ai biologi in quanto uomini di scienza, ma urta anche contro la nostra tendenza a credere che ogni cosa reale nell’universo sia sempre stata necessaria, e da sempre. Dobbiamo tenerci sempre in guardia da questo senso così forte del destino. La scienza moderna ignora ogni immanenza. Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana, la sola specie nell’universo capace di realizzare un sistema logico di combinazione simbolica. Altro avvenimento unico, che dovrebbe, proprio per questo, trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Se esso è stato veramente unico, come forse lo è stata anche la comparsa della vita stessa, ciò dipende dal fatto che, prima di manifestarsi, le sue possibilità erano quasi nulle. L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?”

(Jacques Monod, “Il caso e la necessità”)

Spesso penso che la grande parte delle domande che mi pongo siano riducibili a una sola, fondamentale domanda, formulata magari in maniera differente. Siamo governati dal caso o dalla necessità? Causalità o casualità? È ovvio che a livello macroscopico e della vita quotidiana sono consapevole che se mi tiro una martellata sul naso e comincio a sanguinare non posso invocare il caso, ma è altrettanto evidente che il caso e la necessità su cui m’interrogo sono concetti da prendere nella loro accezione più profonda. Continua a leggere…

“Il bizzarro mondo dei quanti” (Silvia Arroyo Camejo)

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Devo confessare che, dopo aver letto qualche pagina di questo libro, mi è venuto il sospetto che l’autrice dello stesso non possa essere colei che risulta dalla prima di copertina, cioè Silvia Arroyo Camejo. Il dubbio era dovuto al fatto che la stessa non ha ancora compiuto trent’anni e all’inizio della stesura dell’opera ne aveva appena diciassette. Poi ho pensato ai tanti geni precoci in altri ambiti dello scibile umano e ho continuato a leggere questo saggio sulla fisica quantistica, che l’autrice scrisse sviluppando gli appunti che aveva preso nel corso degli anni, da quando si era appassionata alla fisica e in particolare alla meccanica quantistica. In un passaggio della prefazione la giovane fisica (ho appurato che negli anni seguenti ha conseguito una Laurea specialistica in Fisica) specifica che fu spinta a scrivere un saggio del genere anche in considerazione della “divaricazione tra la letteratura scientifica divulgativa che evita accuratamente ogni formula matematica ed è accessibile a tutti, e la letteratura specialistica, nella quale, quasi in ogni pagina, si incontrano svariati integrali ed equazioni differenziali”, cosa che anche per lei, all’inizio dei suoi studi, costituì un grosso problema.

“Il bizzarro mondo dei quanti” è un libro che consiglio a chi, come me, sta muovendo i primi passi nell’affascinante mondo delle particelle, perché la Camejo riesce a coniugare professionalità nell’esposizione e chiarezza, affrontando i principali argomenti che caratterizzano il mondo quantistico. Partendo dai concetti di luce e materia, l’autrice ci guida alle più recenti teorie che ricercano la gravità quantistica, passando per l’elettromagnetismo, il principio di indeterminazione, il dibattito tra Bohr e Einstein, l’equazione di Schrödinger e tanti altri argomenti che fino a qualche settimana fa per me costituivano un mondo parallelo al mio, nel quale sto lentamente gettandomi anche grazie a letture di questo genere. Certamente non si tratta di un testo per persone già ferrate o specializzate nella materia, che potrebbero trovarlo una mera esposizione di dottrine altrui; per chi, invece, vuole essere accompagnato con dolcezza in mezzo agli elettroni, ai protoni e ai neutroni, questa lettura può essere un grande aiuto, perché non è “pesante” e fornisce ottimi spunti da approfondire. Nel mio caso, mi ha aiutato a comprendere tanti aspetti del mondo quantistico che nelle precedenti letture fatte mi erano parsi più oscuri, vuoi perché ero ancora più a digiuno della materia di quanto non sia adesso, vuoi perché gli autori davano per presupposte determinate conoscenze che invece tali non sono.

“L’universo senza stringhe” (Lee Smolin)

Smolin

“Poiché la teoria delle stringhe è un’impresa ad alto rischio – non sostenuta da dati sperimentali, seppur ampiamente appoggiata dalla comunità accademica e scientifica – la storia può finire solo in due modi. Se la teoria si rivelerà corretta, gli stringhisti si dimostreranno i maggiori eroi della storia della scienza, per aver scoperto, partendo da una manciata di indizi – nessuno dei quali ha un’interpretazione univoca – che la realtà è molto più estesa di quanto ci si immaginasse. Colombo scoprì un nuovo continente sconosciuto al re e alla regina di Spagna (così come i reali di Spagna erano sconosciuti agli abitanti del Nuovo Mondo); Galileo scoprì nuove stelle e lune e in seguito altri astronomi scoprirono i pianeti. Questi successi sembrerebbero inezie al confronto della scoperta di nuove dimensioni. Inoltre, molti stringhisti sono convinti che la miriade di mondi descritti dalle innumerevoli teorie delle stringhe esista realmente – come altri universi per noi impossibili da osservare direttamente. Se hanno ragione, la fetta di realtà che vediamo è molto più piccola della porzione di pianeta che aveva modo di osservare un gruppo di cavernicoli. Nella storia dell’umanità nessuno ha mai formulato ipotesi corrette ampliando di tanto il mondo conosciuto.

D’altro canto, però, se gli stringhisti si sbagliano, non si possono sbagliare di poco. Se le nuove dimensioni e simmetrie non esistono, gli stringhisti entreranno nel novero degli scienziati che più hanno fallito, come chi continuò a lavorare sugli epicicli tolemaici mentre Keplero e Galileo procedevano a passo spedito. La loro storia insegnerà come non fare scienza, come non lasciare che una congettura teorica oltrepassi i limiti di ciò che è possibile sostenere in base ad argomenti razionali tanto da perdersi in fantasie”.

(Lee Smolin, “L’universo senza stringhe”, ed. Einaudi, 2006)

Dopo aver letto “La trama del cosmo” di Brian Greene, sul quale ho scritto un articolo alcuni giorni fa, ho voluto approfondire la questione e “dare la parola” a un altro fisico, Lee Smolin, che sostiene tesi divergenti da quelle di Greene circa la cosiddetta “teoria delle stringhe”, della quale quest’ultimo è uno dei fautori nonché maggiori divulgatori. Rispetto al libro di Greene, a prescindere dalle tesi sostenute, ho trovato questo testo di Smolin meno divulgativo, quindi richiedente, da parte del lettore non esperto di fisica, un maggior grado di conoscenza pregressa, come dimostra il fatto stesso che leggendolo ho avuto più difficoltà di apprendimento rispetto a quanto capitato con quello di Greene, che tra l’altro affrontavo in condizioni di impreparazione di base ancora più gravi di quanto non siano le attuali. Il mio consiglio agli eventuali curiosi è, quindi, di leggere prima quello di Greene e poi questo, o comunque di affrontare il libro di Smolin con una certa infarinatura dei concetti della materia. Detto ciò, va detto che anche questo testo ha intento divulgativo, non sono presenti formule matematiche o dimostrazioni particolarmente cervellotiche.

Il titolo originale del libro, “The Trouble with Physics. The Rise of String Theory, the Fall of a Science, and What Comes Next”, forse rende più l’idea circa il contenuto del volume. Smolin, infatti, inizia sostenendo che ci sono cinque grandi problemi insoluti della fisica, cioè: 1. il problema della “gravità quantistica”, cioè come combinare in un’unica teoria del tutto la teoria della relatività generale e le leggi della meccanica quantistica; 2. il problema fondazionale della quantistica; 3. determinare se le varie particelle costituiscano o meno la manifestazione di un’unica entità fondamentale; 4. spiegare come sono stai scelti i parametri del modello standard della quantistica; 5. spiegare la materia e l’energia oscura dell’universo, se esistono, o in caso contrario perché la gravità si modifica a grandi scale. Dopo aver riepilogato, nei primi capitoli, i più grandi sconvolgimenti della fisica, da Newton, a Einstein, alla quantistica, Smolin si sofferma sugli albori e la successiva ascesa dalla teoria delle stringhe come possibile risposta a questi interrogativi, spiegando perché, a suo dire, la predominanza assoluta di questa teoria costituisca, a prescindere dalla preparazione dei singoli studiosi della stessa, una sconfitta per la scienza. L’autore evidenzia a più riprese come egli stesso abbia, in passato, avuto molta fiducia nella teoria delle stringhe e abbia per anni dedicato la sua attività a svilupparla, salvo poi rendersi conto che la teoria delle stringhe non ha prodotto, in ormai decenni dalla sua prima formulazione, risultati che siano tali da giustificare l’attuale preminenza e gli investimenti volti a svilupparla. Ovviamente qui non mi è possibile (né sarei in gradi di farlo) sintetizzare le motivazioni e le sfumature del giudizio di Smolin, il quale non nega alla teoria un possibile sbocco, come testimonia l’estratto che ho riportato a inizio articolo, ma stigmatizza la messa al bando di altre teorie a suo parere altrettanto meritevoli d’interesse e, oltre alla teoria in sé, attacca l’atteggiamento a suo dire presuntuoso di molti appartenenti alla “comunità degli stringhisti”, spesso sprezzanti e troppo ottimisti circa teorie che a dire di Smolin mancano di controprove sperimentali. Gli ultimi capitoli del libro sono molto interessanti, di carattere più generale, sul ruolo della scienza nella società, sul funzionamento del sistema di reclutamento dei ricercatori nelle università e l’assegnazione dei fondi, a suo dire troppo sbilanciata verso le teorie di volta in volta dominanti. Non manca una sezione dedicata a spunti, idee e teorie alternative a quella delle stringhe, con un breve profilo di alcuni studiosi di tali teorie.

In conclusione, devo dire che da questa duplice lettura (Greene e Smolin, quindi “pro-stringhe” e “anti-stringhe”) sono uscito, al netto di qualche sbandamento del mio cervello dovuto a nozioni che non masticavo quotidianamente, con la curiosità di approfondire argomenti simili con letture ancora più aggiornate, video e quant’altro. Circa quanto potrò capirne, non so, ma per ora sono contento di sapere che “bosone” non è un insulto, poi si vedrà.

Qui sotto, un intervista a Smolin che ho trovato su youtube, circa questi argomenti. Purtroppo l’ho trovata solo in inglese e l’ho potuta comprendere (ammetto) solo perché ho letto il libro e attivato i sottotitoli.

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