Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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L’errore

starobinski

“Ora è accertato che i grandi malinconici, pur se possono seguire lo sviluppo del ragionamento consolatorio, non se ne sentono interessati: la logica non raggiunge la zona in cui si radica l’idea delirante. L’errore è qui di credere che l’idea sia il centro o il nucleo fondamentale della malattia, mentre essa non è che la verbalizzazione occasionale, l’espressione contingente. Il disturbo si situa a un livello affettivo preverbale, prelogico, inaccessibile a ogni approccio raziocinante.”
(Jean Starobinski, “L’inchiostro della malinconia”, ed. Einaudi)

inchiostro

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“Del sesso” (Jean-Luc Nancy)

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“In questo sguardo, quello dell’altro e il mio, il mio visto in quello dell’altro e viceversa, vi è qualcosa di animale che guarda. Ossia qualcosa che non appartiene alla scena sociale, o meglio che le appartiene in modo diverso, o meglio ancora che appartiene a un’altra scena, la scena della comunicazione dei viventi. L’intimità vi si rivela più intima ancora dell’intimità stessa, poiché non può essere circoscritta come una sfera di estrema riservatezza, dove regnerebbe il diritto di un soggetto indipendente, una potenza sottratta a tutte le altre. Questa intimità non può essere descritta come quel tipo di potenza perché non cessa di ribaltarsi fuori di sé, è nell’imminenza sempre rinnovata di un’apertura sull’assenza di fondo.

Il corpo nudo non è l’ultimo grado di un processo di denudamento che alla fine raggiunge una verità spogliata di ogni artificio. Al contrario, esso è l’esposizione di ciò che non si lascia cogliere né identificare come verità, o almeno non come verità di adeguazione o di significazione. Il corpo nudo non offre la corrispondenza fra una forma e un contenuto, né fra una forma e se stessa. Al contrario, apre la verità che, svelandosi, vela la propria identità: non per dissimularla, ma per attestarne la fuga infinita.

L’intimità del corpo nudo è più intima dell’intimo, come l”interior intimo meo”, invocato da Sant’Agostino.”

(Jean-Luc Nancy, “Del sesso”, ed. Cronopio)

“Nikolaj Gogol'” (Vladimir Nabokov)

Nabokov

“Se le linee parallele non si incontrano non è perché non possono incontrarsi, ma perché hanno altro da fare. L’arte di Gogol’, così come si dischiude nel Cappotto, suggerisce che linee parallele non solo possano incontrarsi, ma possano anche avanzare con movimento serpeggiante e aggrovigliarsi nei modi più bizzarri, proprio come due colonne riflesse nell’acqua indulgono alle più tremolanti contorsioni se è presente la necessaria increspatura. Il genio di Gogol’ è esattamente quell’increspatura d’acqua – due più due fanno cinque, se non la radice quadrata di cinque, e tutto ciò accade con grande naturalezza nel mondo di Gogol’, in cui non si può seriamente dire esistano né la razionale matematica né, davvero, alcuno dei nostri pseudofisici accordi con noi stessi.”

(Vladimir Nabokov, “Nikolaj Gogol'”, ed. Adelphi)

“Nikolaj Gogol’” non è una biografia o un pedante saggio di critica letteraria, ma un atto creativo che un grande scrittore come Nabokov dedica a un altro grande della letteratura russa e mondiale, in un’esposizione che non ambisce a farci una cronaca temporale dell’esistenza di Gogol’ o un’analisi minuziosa di ogni singola opera, ma piuttosto a sottolineare determinati aspetti, dettagli, personaggi secondari delle opere stesse. Il filo conduttore dell’intero saggio è la volontà di Nabokov nel rilevare l’onirica, delirante, meravigliosa fantasia e creatività di Gogol’, a discapito degli aspetti realistici o della presunta “denuncia sociale” che altri interpreti dell’opera gogoliana hanno messo primariamente in evidenza. Ciò che non significa che Nabokov riduce Gogol’ a un misero buffoncello, tutt’altro. Per Nabokov il lettore di Gogol’ dev’essere egli stesso creativo, non limitarsi a un’austera lettura in chiave sociale e nemmeno ad una che riduca tutto in farsa. Sotto questo aspetto, è molto interessante anche ciò che Nabokov rileva circa il lungo, travagliato e infine fallimentare tentativo di dare un seguito alla prima parte di “Anime morte”. Gogol’, vittima di una visione quasi messianica di sé stesso, cercò di scrivere la seconda parte in modo che fosse “significativa” e non più “solo bizzarra”, in ciò dando seguito anche alle lettere che scriveva agli amici, dal tenore sempre più da aspirante profeta.

Il saggio di Nabokov, scritto (tradotto) con uno stile che i lettori dell’autore di “Lolita”, “Ada (o Ardore)”, “La vera vita di Sebastian Knight”, “Un mondo sinistro” e tanti altri capolavori riconosceranno “al volo”, inizia con la descrizione della morte di Gogol’, ridotto in condizioni misere da acciacchi di diversa natura e vittima di una sorta di accanimento terapeutico. Poi, andando a ritroso, Nabokov, servendosi anche di numerose citazioni tratte dai romanzi, analizza diversi aspetti dell’opera di Gogol’, non tralasciando d’inserire anche considerazioni sul “falsamente bello, falsamente intelligente e falsamente seducente” di un certo tipo di letteratura (non quella gogoliana, per essere più chiaro). Il Gogol’ che piace a Nabokov non è quello degli esordi, ma quello la cui fantasia riluce in opere come “Il revisore”, “Il naso”, “Il cappotto” e chiaramente “Le anime morte”. Nabokov poi, oltre a pungere sarcasticamente i traduttori inglesi delle opere di Gogol’, a suo avviso del tutto incapaci di renderne la grandezze letteraria, evidenzia una particolare abilità di Gogol’, cioè quella di far apparire sulla scena personaggi secondari che, a differenza di quanto potremmo aspettarci, poi non torneranno più sulla scena, e che pure, per le loro caratteristiche, non sono superflui, ma fungono da estemporaneo bagliore per la scena che noi stiamo “osservando”.

Il saggio, per com’è strutturato, può essere goduto sia da chi ha già letto Gogol’, che potrà quindi confrontare la propria interpretazione con quella di un grande come Nabokov, sia da chi, invece, voglia incuriosirsi su entrambi questi autori, così diversi tra loro e così grandi.

“Gogol’ era una creatura strana, ma il genio è sempre strano; solo il vostro sano scrittore di second’ordine appare al grato lettore un saggio amico di vecchia data che in bell’ordine sviluppa le nozioni sulla vita del lettore stesso. La grande letteratura corre lungo il filo dell’irrazione. Amleto è il sogno folle di un nevrotico erudito. Il cappotto di Gogol’ è un incubo grottesco e cupo che apre buchi neri nell’incerto disegno della vita. Il lettore superficiale di quella storia vi vedrà semplicemente la greve burla di uno stravagante buffone; il lettore austero darà per scontato che intenzione primaria di Gogol’ fosse di denunciare gli orrori della burocrazia russa. Ma né chi vuole farsi una bella risata, né chi brama i libri “che fanno pensare” capirà di cosa tratta Il cappotto. Datemi il lettore creativo: questo è il racconto per lui.

L’equilibrato Puškin, il concreto Tolstoj, il misurato Čechov hanno tutti avuto i loro momenti di intuizione irrazionale che nello sfocare la frase dischiudeva un senso segreto, degno dell’improvvisa virata focale. Ma in Gogol’ questa virata è la base stessa della creazione artistica, al punto che egli perdeva ogni traccia di talento ogni qualvolta cercava di scrivere nella rotonda calligrafia della tradizione letteraria e di trattare le idee razionali in modo logico. Quando, come nel suo immortale Cappotto, si lasciava andare davvero, bighellonando felicemente sull’orlo del suo abisso privato, diventava il più grande artista mai prodotto dalla Russia.

L’improvvisa inclinazione del piano razionale della vita può realizzarsi in molti modi, com’è naturale, o ogni grande scrittore ha il suo metodo peculiare. Con Gogol’ si dava attraverso una combinazione di due movimenti: un balzo e una scivolata. Immaginare una botola che si apre sotto i vostri piedi in modo assurdamente improvviso, e una folata lirica che vi trascina in alto per poi lasciarvi cadere con un tonfo nella botola successiva. L’assurdo era la musa preferita di Gogol’ – ma quando dico “l’assurdo” non intendo il bizzarro o il comico. L’assurdo ha tante tonalità e gradazioni quante ne ha il tragico e, per di più, nel caso di Gogol’ sconfina in quest’ultimo. Sarebbe sbagliato affermare che Gogol’ poneva i suoi personaggi in situazioni assurde. Non si può mettere un uomo in una situazione assurda se l’intero mondo in cui vive è assurdo; non lo si può fare se con “assurdo” si intende qualcosa che provoca una risatina o una scrollata di spalle. Ma se si intende il patetico, la condizione umana, se si intendono quelle cose che in mondi meno inquietanti sono legate alle più alte aspirazioni, alle più profonde sofferenze, alle più forti passioni – allora, la breccia necessaria è lì, e un patetico essere umano perduto nel mezzo dell’irresponsabile mondo da incubo di Gogol’ diventa “assurdo” per una sorta di contrasto secondario.”

Il mare e le gocce (da “Massa e potere” di Elias Canetti)

“Il mare è molteplice, è in movimento, ha una sua profonda coesione. La sua molteplicità è nelle onde: molteplici onde lo costituiscono. Le onde sono innumerevoli; chi si trova sul mare è circondato da esse per ogni dove. L’omogeneità del loro movimento non apre fra di esse grandi differenze. Esse non sono mai interamente in riposo. Il vento che giunge segna la loro direzione: esse si gettano di qua e di là secondo i suoi ordini. La stretta coesione delle onde esprime ciò che anche gli uomini sentono pienamente nella massa: un’arrendevolezza verso gli altri, come si fosse loro, come se non si fosse più appartati; una dipendenza cui non si sfugge, e una sensazione di forza, uno slancio, ottenuti proprio dall’essere tutti insieme. Non si sa nulla della peculiarità di tale coesione fra gli uomini. Anche il mare non la spiega, bensì la esprime.

Oltre alle onde, il mare possiede anche un’altra componente molteplice: le gocce. Esse tuttavia sono isolate, sono proprio soltanto gocce, se non appaiono collegate le une alle altre; piccole e singole, sono un simbolo di impotenza. Sono pressoché nulla e destano compassione in chi le osserva. Si immerge la mano nell’acqua, la si solleva e si osservano le gocce che ne scivolano, isolate e deboli. Si prova per essere compassione come se fossero individui umani disperatamente soli. Le gocce ricominciano a contare quando non è più possibile contarle, quando sono confluite nella vasta totalità delle acque.

Il mare ha una voce, estremamente mutevole, che non tace mai. È una voce che risuona di mille voci. Crediamo che esprima pazienza, dolore, collera; ma soprattutto impressionante è la sua tenacia. Il mare non riposa mai. Lo si ode sempre, di giorno, di notte, per anni, per decenni; si sa che già da secoli fu udito. Nel suo impeto e nel suo insorgere ricorda una sola creatura che possiede in medesima misura tali qualità: la massa. Il mare però possiede anche la costanza, di cui la massa è priva. Il mare non si disperde né scompare di tempo in tempo; è sempre là. Esso dà compimento al più grande e sempre vano desiderio della massa, al desiderio di perdurare. Continua a leggere…

“Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento” (Giuseppe Di Giacomo)

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“Se gli eroi del romanzo ottocentesco lottano per far trionfare il senso, la totalità, sul non-senso del mondo (il mondo abbandonato da dio), Dostoevskij coglie il senso nel cuore stesso del non-senso. Per l’uomo di Dostoevskij tutto è nello stesso tempo senso e non-senso. Per questo in Dostoevskij c’è salvezza nell’abiezione estrema. Ogni tentativo di spiegare il personaggio, di ricondurlo a una logica coerenza, è vanificato: non c’è un ‘fuori’ dal quale il personaggio, e il lettore con lui, possa vedere e vedersi, distinguendo il senso dal non-senso, e superare così la sua fondamentale paradossalità; né si offre al personaggio alcuna possibilità di conoscersi, alcuna coscienza dei propri movimenti interni. Questi ultimi si producono infatti senza che nessuna spiegazione possa connetterli tra loro e perciò comprendere e giustificare: si danno ‘catastroficamente’. Di qui l’esclusione dall’opera di Dostoevskij di quei ‘momenti privilegiati’ che ricorrono in Proust, nei quali la vita della coscienza si rivela come totalità, verità ed essenza”.

(Giuseppe Di Giacomo, “Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”, Editori Laterza)

Nell’estate del 2012, se la memoria non m’inganna, ascoltai una conferenza del professor Giuseppe Di Giacomo, ospite di una rassegna cinematografica organizzata nel mio paese. Avevo già letto un suo libro su Wittgenstein, oltre ad ascoltare alcune registrazioni di sue lezioni universitarie. Sono giunto, quindi, abbastanza preparato all’appuntamento con “Estetica e Letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”. Sapevo che avrei trovato argomenti di mio interesse, ma adesso posso affermare che un libro del genere avrei potuto scriverlo io. Prima che il lettore m’insulti per una possibile espressione di vanità personale, Continua a leggere…

“Cambiare idea” (Zadie Smith)

Cambiare idea

“Ci sono momenti in cui leggere Wallace diventa insostenibile, e il peso degli ostacoli che si accumulano di fronte al lettore sono insormontabili: mancanza di contesto, complessità retorica, individui orrendi, argomento grottesco o assurdo, lingua che è – allo stesso tempo! – puerilmente scatologica e fastidiosamente sibillina. E se uno è abituato a trovare sollievo nel “carattere” dei personaggi, be’, allora con Wallace si trova davvero in un vicolo cieco. I suoi racconti non indagano affatto il carattere dei personaggi: non se lo propongono neanche. Sono viceversa rivolti all’esterno, verso di noi. È il nostro carattere quello che viene sottoposto a indagine. Ma non si tratta propriamente di metafiction. L’autore di metafiction usava la ricorsività per sottolineare la mediatezza della voce narrante: per dire, in buona sostanza: “Io sono l’acqua, e voi state nuotando dentro di me”. La ricorsività, per questo tipo di autore, significa ritornare su sé stessi, circolarmente, in una serie infinita di regressioni. Questo testo non è neutrale, viene scritto da qualcuno, lo sto scrivendo io, ma io chi sono? E così via. Quello che è “ricorsivo” nei racconti di Wallace non è la sua voce narrativa ma il modo in cui scorrono le storie, e cioè come verbali di processi matematici, in cui almeno una delle fasi del processo richiede una nuova esecuzione di tutto il processo in questione. E siamo noi a doverle far scorrere in questo modo. Wallace ci colloca all’interno del processo ricorsivo, ecco perché leggerlo è spossante sul piano emotivo e intellettuale”.

(Zadie Smith, “Cambiare idea”, ed. Minimum fax)

Se dovessi indicare motivi validi per acquistare “Cambiare idea” di Zadie Smith, mi basterebbe scrivere un articolo nel quale tessere l’elogio del saggio che è contenuto nelle ultime cinquanta pagine, dedicato a David Foster Wallace e in particolare al suo “Brevi interviste con uomini schifosi”. Vincerò questa tentazione Continua a leggere…

“Spiagge straniere” (J. M. Coetzee)

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Dopo aver “scoperto” J. M. Coetzee grazie alla lettura del romanzo “Vergogna”, ho preso in prestito dalla biblioteca anche “Spiagge straniere”, stimolato anche dai titoli dei singoli capitoli costituenti la raccolta. Il volume, infatti, racchiude dodici scritti pubblicati tra il 1993 e il 1999, alcuni dei quali riguardanti autori che ammiro. La prima metà del libro, in particolare, è stata per me molto stimolante, perché mi ha permesso un confronto tra le mie impressioni e quelle di Coetzee. La restante parte, invece, mi ha incuriosito su altri romanzieri che finora conosco solo di fama, ma che ancora non ho approfondito.

Il primo scritto è intitolato “Che cos’è un classico?” ed è un tentativo di comprendere perché definiamo classico un certo romanzo o un autore musicale. Coetzee Continua a leggere…

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