Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “parole”

Parole utili

(Dal “Dizionario dei luoghi comuni” di Gustave Flaubert, ho scelto per voi amabili lettori alcune parole che, ne sono certo, potranno esservi utili nel corso del fine settimana.)

ATEO. Un popolo di atei non potrebbe sussistere.

AVVOCATO. Ci sono troppi avvocati alla Camera. Hanno il giudizio deformato, perché perorano il pro e il contro. Vengono consultati su qualsiasi cosa, anche su ciò che non conoscono. Di un avvocato che parla male, dire: <<ma è forte in Diritto>>.

CONCUPISCENZA. Termine da curato per designare i desideri carnali.

DIDEROT. Sempre seguito da <<d’Alembert>>.

EGOISMO. Lamentarsi di quello degli altri e non accorgersi del proprio.

GIOIA. Sempre accompagnata da <<pazza>>. Gli amici della franca gaiezza.

ILLUSIONI. Affettare di averne nutrite molte. Rimpiangere di averle perdute.

IMBECILLI. Tutti quelli che non la pensano come noi.

IMMORALITÀ. Se ben pronunciata, è una parola che dà prestigio a chi ne fa uso.

ITALIANI. Tutti traditori.

LIBERTINAGGIO. Si vede solo nelle grandi città.

MATERIALISMO. Pronunciare questa parola con orrore scandendone ogni sillaba.

NATURA. <<Com’è bella la Natura!>>, dirlo ogni qual volta ci si trovi in campagna.

Pubblicità

Una frase semplice

Comincio a scrivere con l’idea di una frase semplice, una proposizione formata da soggetto, verbo e complemento oggetto, per esempio “Antonio scrive una frase”, ma prima ancora che la mia mano abbia digitato la parola “Antonio”, la mia mente ha già deciso che dovrò aggiungere un’altra proposizione che aggiunga qualcosa e/o un’altra che specifichi un “perché”, un “come”, un “quando”, un “dove”, ed ecco che la frase semplice non è più tale, ma è già diventata complessa nella mia testa, si è già trasformata in “Antonio scrive una frase e poi la modifica, perché la frase originaria non gli appare sufficiente”, ma il processo è solo all’inizio, perché è evidente che a quel punto fermarsi sarà difficile, avendo a disposizione tutte quelle belle paroline che fungono da elementi di coordinazione o subordinazione delle frasi, quelle “o”, “e”, “ma”, “né – né”, o ancora meglio i “sebbene”, “benché”, “quando”, ma soprattutto lei, la regina delle parole, il “Perché”, che tanti orizzonti spalanca e altrettanti ne lascia inesplorati, e insomma alla fine quella frase, “Antonio scrive una frase”, si è ingigantita ed è diventata, ad esempio (perché gli esempi servono anche ad allungare il periodo, così come le parentesi), una cosa tipo “Antonio scrive una frase e poi la modifica, perché la frase originaria non gli appare sufficiente, ma nel modificarla percepisce che comunque anche la nuova frase sarà insufficiente, perché nonostante gli sforzi lui, in quanto uomo e soprattutto in quanto Antonio, ha dei limiti espressivi che non potrà valicare e sente che, se anche li valicasse, dovrebbe fare i conti con l’inevitabile barriera che si frappone fra lui e gli altri attorno a lui, altri che avrebbero preferito fermarsi alla frase originaria, che forse era insufficiente, ma che almeno, nella sua semplicità, non aveva pretese, anzi aveva il pregio della vaghezza, che lascia spazio all’immaginazione e non si risolve in un esercizio fino a sé stesso, quale è diventato la nuova frase”, una cosa, insomma, che stanca anche chi la scrive, figuriamoci chi la legge, e che porta, oltre che a commettere errori grammaticali che poi dovranno essere corretti a mente fredda, a domandarsi quale fosse il soggetto utilizzato all’inizio della frase originaria, “chi” stava scrivendo di un “Antonio” che scrive una frase, e “chi”, alla fine, ha scritto qualcosa su quel “chi”, tutto questo fino al momento in cui arriva, a salvare tutto e a chiudere un astruso periodo, un salvifico punto.

(“Antonio ha mangiato patate al forno”, un romanzo domenicale)

“Creatività” (Emilio Garroni)

garroni-creativita-b

“Le capacità creative umane di adattamento rivelano nello stesso tempo i rischi cui si è esposti, la frammentarietà e limitatezza del controllo pratico-intellettuale, l’impossibilità insomma di un “adattamento totale” mettendo così in crisi l’idea falsa e regressiva (e quindi ben più pericolosa) o piuttosto il desiderio allucinatorio di un’evasiva “sicurezza assoluta” (che non può essere altro di fatto che la sicurezza del porcellino di terra, cui la morte sopravviene inopinatamente dall’esterno, “per caso”, come “per caso” esso sopravvive); ma per ciò stesso restaurano l’unica, realistica garanzia di adattamento su cui è possibile contare. Si ritrova qui la giustificazione propriamente estetica (Kant avrebbe parlato di “conservazione dello stato d’animo”, cioè di “piacere”) di una specializzazione estetica, in quanto già radicata nelle esigenze di un adattamento pratico-conoscitivo. È infatti su quella garanzia, specificamente umana, che può e in qualche modo deve nascere una specializzazione della creatività come tale: ciò che nella conoscenza e nel comportamento pratico è fonte di ansia consapevole può e in qualche modo deve divenire – in una specializzazione estetica – stato d’animo rassicurativo, contropartita dell’ansia, integrazione sentimentale, tale da rendere “sicura”, per così dire, la stessa “insicurezza”, in quanto compresa e dominata mediante un’operazione, anche soltanto soggettiva, di anticipazione e totalizzazione dell’esperienza possibile.”

(Emilio Garroni, “Creatività”, ed. Quodlibet)

“Creatività”, edito dalla Quodlibet, è un volume che raccoglie il saggio di Emilio Garroni pubblicato, in origine, come voce omonima dell’Enciclopedia Einaudi per l’anno 1978. Questa notizia, unita alla considerazione che l’autore è stato per anni Professore di Estetica all’Università La Sapienza di Roma, dovrebbe farvi comprendere quanto per me sia difficile scriverne, e predisporvi a uno stato di magnanimità nei confronti del sottoscritto circa quanto andrò a elaborare. La premessa generale, infatti, è che molti passaggi mi sono risultati oscuri o incomprensibili, perché contenenti riferimenti ad argomenti che non ho trattato mai con frequenza o in maniera specializzata. Nonostante ciò, se sono qui a scriverne e a suggerirne la lettura, è perché quello che ho inteso mi ha appagato, donandomi spunti per ulteriori letture o anche solo per riflessioni. Continua a leggere…

Sulle parole, il bisogno di comunicare e altro (da “Questa è la mia vita” di Jean Luc Godard)

Contrariamente alla mia solita tendenza a divagare e scrivere articoli lunghi e sconclusionati, oggi lascio spazio alle parole e alle immagini tratte dal film “Questa è la mia vita” di Jean-Luc Godard.

Oltre a consigliarvene la visione, vi propongo, in particolare, la scena n. 11, l’incontro tra la protagonista Nana (Anna Karina) e un lettore. I due discutono sul bisogno di comunicare che abbiamo, del quale l’esistenza di questo stesso blog potrebbe oggi essere presa a testimonianza, dell’uso delle parole e di altre “cosette”, per esempio l’amore.

Ho scritto anche troppo, spazio a Godard.

L’inespresso (H. James, W. Faulkner, Totò, Marlene kuntz e chi più ne ha più ne metta)

Sto leggendo “La bestia nella giungla” di Henry James. Ho la sensazione che mi dedicherò anche ad altre sue opere, perché mi sta “prendendo”. Forse scriverò qualcosa su quello che sto leggendo, intanto però ne riporto un passaggio. Mentre leggevo le parole di James, mi sono tornate in mente una frase di Faulkner e una scena tratta da “Che cosa sono le nuvole” di Pasolini. I due libri e il filmato probabilmente non hanno granché ad accomunarli. Nello specifico, però, ciascuno dei tre fa riferimento a qualcosa di vago, indefinito, inespresso, un ‘qualcosa’ che talvolta sentiamo ma che non riusciamo a esprimere, oppure che non ‘vogliamo’ esprimere perché ci fa paura pronunciare certe parole che renderebbero ‘reale’ ciò che ci piace conservare come sola sensazione, o ancora che è meglio non esprimere, perché una volta espresso quel ‘qualcosa’ perirebbe all’istante.

P.s.: dopo aver scritto quanto sopra mi è venuta in mente anche “Canzone ecologica” dei Marlene Kuntz. La aggiungo in coda. Poi mi fermo, altrimenti di questo passo quest’articolo, nato per essere breve, diventa un poema.

Lei non voleva dire quello che tutti e due sapevamo. “La ragione per cui non lo vuoi dire è che quando lo dici, anche a te stessa, dopo saprai che è vero. Perché non vuoi dirlo, neanche a te stessa?”. Lei non vuole dirlo.

(W. Faulkner, “Mentre morivo”).

“Beh, pensavo fosse proprio questo il punto a cui volete arrivare…il fatto che non abbiamo mancato di guardare in faccia praticamente ogni cosa.”

“Compresi noi due, l’uno con l’altra?”, May sorrise di nuovo. “Ma avete ragione voi. Ci siamo sempre scambiati grandi fantasie, spesso grandi paure; ma molte altre sono rimaste inespresse.”

“Allora, il peggio…quello non l’abbiamo affrontato. Per quel che mi riguarda, ritengo di poterlo affrontare solo se sapessi quale pensate che sia. Mi sento”, spiegò Marcher, “come se avessi perduto la capacità di concepire simili cose.” E si domandò se davvero appariva confuso come lui si sentiva. “Come se si fosse esaurita…”

“Perché allora date per scontato”, chiese lei, “che la mia non lo sia?”

“Perché mi avete dato le prove del contrario. Perché non è questione di concepire, di immaginare, di confrontare. Non si tratta ora di scegliere.” E infine si decise a parlare chiaro. “Voi sapete qualcosa che io non so. Me l’avete lasciato intendere prima.” Continua a leggere…

Navigazione articolo

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: