Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“La Madonna Sistina” (Vasilij Grossman)

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Non sono né un fervente credente (anzi) né un esperto/appassionato di Raffaello, però segnalo questo breve racconto di Vasilij Grossman, nel quale l’autore, prendendo spunto da una mostra organizzata dalle autorità sovietiche a Mosca nel 1955, dove erano esposte opere della Galleria di Dresda che i russi avevano portato con sé nel corso dell’avanzata verso la Berlino ancora nazista (opere che la Russia si accingeva a restituire ai tedeschi), riflette sul quadro di Raffaello e sul campo di sterminio di Treblinka, che egli aveva visitato.

“E capisco di avere sempre usato con leggerezza una parola dalla potenza tremenda – immortalità -, di averla sempre confusa con la pur possente vitalità di alcuni capolavori dell’uomo. Nonostante la mia venerazione per Rembrandt, Beethoven e Tolstoj, mi è finalmente chiaro che di tutte le opere capaci di colpire il mio cuore e la mia mente, opere create dal pennello, dal cesello o dalla penna, solo questo quadro di Raffaello non morirà fino a che l’uomo avrà vita. Anzi, se anche l’uomo dovesse estinguersi, gli esseri che prenderanno il suo posto sulla terra – lupi, ratti, orsi o rondini che siano – verranno sulle loro zampe o con le loro ali ad ammirare la Madonna di Raffaello.

L’hanno vista dodici generazioni di esseri umani, questa tela, un quinto dell’umanità passata sulla faccia della terra dall’inizio dell’evo moderno fino ai giorni nostri.

L’hanno guardata vecchiette in miseria, imperatori europei e studenti, miliardari d’oltreoceano, papi e principi russi, l’hanno ammirata vergini purissime e prostitute, colonnelli dello Stato Maggiore, ladri, geni, tessitori, piloti di caccia e maestri di scuola, l’hanno vista i buoni e anche i cattivi.

(…)

La bellezza della Madonna è legata saldamente alla vita terrena. È democratica, umana; è la bellezza di tantissime persone – gialli con gli occhi a mandorla, gobbi con il naso lungo e pallido, neri con i capelli crespi, le labbra tumide. È universale. La Madonna è anima e specchio dell’uomo, e chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela – profonda e indistruttibile – ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie.

Penso che questa Madonna sia l’espressione più atea della vita, di quell’umano a cui il divino non partecipa.

(…)

Il ricordo di Treblinka era riaffiorato nel mio cuore senza che me ne rendessi conto… Era lei a calpestare scalza, leggera, la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragitto da dove il convoglio veniva scaricato fino alla camera a gas. La riconosco dall’espressione che ha sul viso, negli occhi. Guardo suo figlio e riconosco anche lui dall’espressione adulta, strana. Così dovevano essere madri e figli quando scorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka sullo sfondo verde scuro dei pini, così era la loro anima.

Quante volte ho cercato di distinguere nel buio coloro che scendevano dal treno; i profili di quelle figure, tuttavia, erano sempre vaghi – o erano i volti a sembrare sfigurati da un orrore infinito e tutto si strozzava in un grido tremendo, o era la prostrazione fisica e morale, la disperazione a coprire quei visi con un velo di indifferenza ottusa e testarda, oppure era il sorriso ebete della follia a stamparsi sui volti di chi, scesa dal treno, marciava verso la camera a gas.

(…)

Perché siamo vivi? Una domanda tremenda, dura, che solo i morti possono fare ai vivi. Ma i morti tacciono, non fanno domande.

Il silenzio che è seguito alla guerra viene violato ogni tanto da qualche esplosione, e sul cielo si stende una nebbia radioattiva. La terra su cui tutti viviamo trema – alle armi atomiche sono subentrate quelle termonucleari.

(…)

Che cosa diremo al cospetto del tribunale del passato e del futuro, noi uomini vissuti nell’epoca del nazismo? Non abbiamo giustificazioni.

Diremo che non c’è stata un’epoca più dura della nostra, ma che non abbiamo lasciato morire l’umano nell’uomo.

E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo.

Che vivrà in eterno, e vincerà.”

(Vasilij Grossman, racconto “La Madonna Sistina” in “Il bene sia con voi!”, ed. Adelphi)

 

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“La terza notte di Valpurga” (Karl Kraus)

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“Su Hitler non mi viene in mente niente. Sono consapevole di essere rimasto con questo risultato, frutto di tanto pensare e di tanti tentativi di comprendere gli eventi e la loro forza motrice, molto al di sotto delle aspettative. Perché queste erano forse eccessive nei confronti dello scrittore polemico al quale per un equivoco grossolano si richiede quella prestazione solitamente chiamata “presa di posizione” e che, ogni qualvolta un male ha urtato anche solo relativamente la sua sensibilità, ha fatto quel che si definisce “tenere testa”. Ma ci sono mali di fronte ai quali questa cessa di essere una metafora e il cervello, che è dentro la testa e che ha la sua parte in tali azioni, si considera incapace di qualsiasi pensiero”.

(Karl Kraus, “La terza notte di Valpurga”, Editori Internazionali Riuniti)

Arguto scrittore e giornalista, direttore del giornale satirico austriaco “La fiaccola” per oltre tre decenni, autore di aforismi pungenti diretti a colpire gli uomini di potere e i vizi umani, alcuni dei quali raccolti in “Essere uomini è uno sbaglio”, Karl Kraus scrisse “La terza notte di Valpurga” tra il maggio e il settembre del 1933, soli tre anni prima di morire. Il titolo del libro fa riferimento al “Faust” di Goethe, ma com’è intuibile dalle date, gli atroci protagonisti di questa narrazione non sono immaginari diavoli, bensì feroci criminali realmente esistiti; il libro, infatti, riguarda la presa del potere da parte di Hitler e del nazismo. Leggendolo, non è difficile capire perché non fu pubblicato in quegli anni, ma solo nel 1952.

L’incipit è una terribile dichiarazione d’impotenza da parte di Kraus, consapevole che di fronte a certi orrori non solo è impensabile qualsiasi tipo di satira divertita e divertente, ma riesce difficile anche trovare le parole, vanificate dagli eventi, da una “commozione cerebrale epidemica” che ha reso un intero popolo adoratore della forza bruta. “Su Hitler non mi viene in mente niente”, dunque, l’esordio disarmato di Kraus, Continua a leggere…

“La banalità del male” (Hannah Arendt)

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“È questo un esempio di malafede, un ingannare sé stesso, congiunto a un’enorme stupidità? O è semplicemente l’eterna storia del criminale che non si pente (nelle sue memorie Dostoevskij ricorda che in Siberia, tra tanti assassini, ladri e violenti non ne trovò mai uno solo disposto ad ammettere di aver agito male), del criminale che non può vedere la realtà perché il suo crimine è divenuto parte di essa? Eppure il caso di Eichmann è diverso da quello del criminale comune. Questo può sentirsi ben protetto, al riparo dalla realtà di un mondo retto, soltanto finché non esce dagli stretti confini della sua banda. Ma ad Eichmann bastava ricordare il passato per sentirsi sicuro di non stare mentendo e di non ingannare sé stesso, e questo perché lui e il mondo in cui era vissuto erano stati, un tempo, in perfetta armonia. E quella società tedesca di ottanta milioni di persone si era protetta dalla realtà e dai fatti esattamente con gli stessi mezzi e con gli stessi trucchi, con le stesse menzogne e con la stessa stupidità che ora si erano radicate nella mentalità di Eichmann. Queste menzogne Continua a leggere…

“La scuola dei dittatori” (Ignazio Silone)

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“Non so. Comunque mi permetto di riassumente il pensiero in questa forma: la prima condizione affinché prevalga un sistema totalitario, è la paralisi dello stato democratico, cioè un’insanabile discordanza tra il vecchio sistema politico e la vita sociale radicalmente modificata; la seconda condizione è che il collasso dello stato giovi innanzitutto al partito d’opposizione e conduca ad esso le grandi masse, come al solo partito capace di creare un nuovo ordine; la terza condizione è che questo si riveli impreparato all’arduo compito e contribuisca anzi ad aumentare il disordine esistente, mancando in pieno alle speranze in esso riposte. Quando queste premesse sono consumate, e nessuno ne può più, irrompe sulla scena il partito totalitario. Se esso non ha alla sua testa un imbecille, ha molte probabilità di arrivare al potere”.

(Ignazio Silone, “La scuola dei dittatori”)

La scuola dei dittatori” fu scritto da Ignazio Silone nel 1938, a Zurigo, dove lo scrittore si era rifugiato per proseguire la sua attività di antifascista militante. Pubblicato in Italia solo decenni dopo, si tratta di un saggio scritto in forma di dialogo, con il quale l’autore tenta la difficile impresa di spiegare come nascono i totalitarismi, con particolare riferimento a quelli che ebbe modo di conoscere per circostanze di luogo e/o tempo, cioè il fascismo e il nazismo più nel dettaglio, ma anche lo stalinismo. L’autore immagina l’arrivo in Europa di Mr Doppia Vu, un aspirante tiranno statunitense, e del suo assistente, il professor Pickup, ideologo inventore della pantautologia, dottrina che dovrebbe accompagnare l’ascesa al potere del suo capo. I due, dopo aver cercato invano spunti in giro per l’Europa, incontrano, proprio a Zurigo, Tommaso il Cinico, un emigrato politico italiano, che, da nemico del fascismo, sarà maggiormente in grado di fornire loro “aiuto” nella loro ricerca.

Nel libro, attraversato da un generale tono di sarcasmo e di amarissima ironia, Silone, Continua a leggere…

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