Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per il tag “lucidità”

Io, forse non essenzialmente io, un altro, ma è meglio fossi io

“La gelosia fisica è in gran parte un giudizio su sé stessi. Poiché sappiamo quello che siamo capaci di pensare, immaginiamo che l’altro pensi così.”
(Albert Camus)

Opzione a) Immaginiamo che l’altro stia combinando chissà cosa con chissà chi, mentre invece sta dormendo* in una camera blindata. Visionari.
Opzione b) Immaginiamo che l’altro stia combinando chissà cosa con chissà chi, ma abbiamo sbagliato il “chi”. Imprecisi.
Opzione c) Immaginiamo che l’altro stia combinando chissà cosa con chissà chi, ma il nostro “chissà cosa” è nulla di fronte a ciò che realmente sta succedendo. Ingenui.
Opzione d) Immaginiamo che l’altro stia combinando chissà cosa con chissà chi, e scopriamo che la realtà corrisponde esattamente a quel che avevamo creduto di aver solo immaginato. Lucidi.
Etc, etc, etc….

*il fatto che stia dormendo non ci rassicura per niente, ma la questione è oggetto di un diverso studio.

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Un sogno

Persone sedute al tavolo di un pub. Un uomo percepisce di trovarsi in un sogno.

– So che questo è un sogno, – dice.

Gli altri lo guardano, basiti.

Lui sa che è un sogno, vuole che il sogno continui, ma vuole, ha bisogno che anche gli altri siano consapevoli che è solo un sogno.

– Adesso scrivo su un foglio che siamo in un sogno, voi lo firmate e al risveglio ve lo mostrerò.

L’uomo prende la penna e un foglio, ma si chiede come potrà trasportare quel foglio fuori dal sogno. Intanto prova a scrivere; non appena la penna tocca il foglio, l’uomo si sveglia, ritrovandosi nel suo letto, solo.

L’uomo, a differenza di un tempo, ora sa che la consapevolezza di essere in un sogno uccide il sogno stesso, e prende atto di questa metamorfosi.

Danilo Kiš sulla morte e la lucidità

(Sono a pagina 156 su 272 e “Clessidra” mi appare già come l’apertura verso un “mondo” che vorrò frequentare: la mente e la scrittura di Danilo Kiš. Per darvi un altro assaggio della sua prosa, ho scelto il brano sottostante, ma avrei potuto sceglierne diversi e su altri temi. Resta la sensazione di aver “scoperto” un grande autore)

“Che cosa sono tutti gli sforzi dell’umanità, tutto ciò che si chiama storia, civiltà, tutto ciò che l’uomo fa e ciò che fa l’uomo, che cos’è tutto questo, se non un inutile e vano tentativo di opporsi all’assurdo della morte universale, di dare ad essa un senso apparente, come se la morte potesse avere un senso, come se alla morte si potesse dare un significato e un senso diverso da quello che ha! I filosofi, i più cinici, tentano di dare un senso al non senso della morte mediante una logica superiore o una battuta spiritosa che possano servire di consolazione generale, ma quello che resta, almeno per me, il massimo dei misteri è la domanda: che cos’è che permette all’uomo, nonostante la sua consapevolezza della morte, di vivere e di operare come se essa fosse qualcosa di estraneo a lui, come se la morte fosse un fenomeno naturale? Il tremito che mi ha scosso negli ultimi giorni mi ha aiutato a capire, nonostante i gravi attacchi di paura, che la mia malattia non è altro che questo: a volte, per ragioni a me del tutto ignote e per impulsi assolutamente incomprensibili, io divento lucido, in me compare la coscienza della morte, della morte in quanto tale; in questi momenti di illuminazione diabolica la morte acquista per me il peso e il significato che essa ha an sich, e che gli uomini perlopiù non intuiscono nemmeno (ingannandosi con il lavoro e con l’arte, mascherando il suo senso e la sua vanitas con formule filosofiche), scoprendo il suo vero significato solo nel momento in cui essa bussa alla porta, in modo chiaro e inequivocabile, con la falce in mano, come nelle incisioni medievali. Ma quello che mi atterriva (la consapevolezza non genera consolazione) e accresceva ancor di più il mio tremito interiore, era la coscienza che la mia follia era in fondo lucidità e che per guarire – perché questo continuo tremito è insopportabile – avevo bisogno proprio della follia, della demenza, dell’oblio, e che solo la demenza mi avrebbe guarito! Se per caso il dottor Papandopulos mi interrogasse ora sul mio stato di salute, sull’origine dei miei traumi, delle mie paure, adesso saprei rispondergli in modo chiaro e inequivocabile: la lucidità.

(Danilo Kiš, “Clessidra”, ed. Adelphi)

Dialogo tra Me Stesso Di Allora e Me Stesso Di Adesso sulla presunta funzione catartica della scrittura

Alla domanda “perché scrivere?” o almeno a quella “perché scrivo?” hanno dato risposte grandi romanzieri, filosofi, poeti, pensatori e anche qualche calciatore. Rovistando nelle mie antiche scartoffie, ho trovato un documento che attesta, in maniera inequivocabile, che anch’io, anni fa, mi sono posto un interrogativo simile, senza apparente vergogna nel farlo. L’ho riletto e non sono d’accordo su diverse cose che avevo scritto allora. Questo non mi stupisce più di tanto, poiché mi accade spesso di non essere d’accordo con ciò che ho scritto, essendo ormai palese che tra l’io che scrive e l’io che si rilegge c’è uno scarto indubitabile (“la schizofrenia, come era stato detto”). Premesso ciò, riporto un dialogo tra il Me Stesso Di Allora e il Me Stesso Di Adesso e, pur ammettendo di essere di parte, nel senso che parteggio, per motivi comprensibili, per il Me Stesso Di Adesso, cercherò di evitare liti isteriche tra i due. Per facilitare il compito al masochistico lettore, ho deciso di conservare quasi per intero le riflessioni del Me Stesso di Allora, inserendo tra parentesi le note del Me Stesso di Adesso. Quest’introduzione, quindi, l’ha scritta il Me Stesso di Adesso, che ora, però, cede la parola al Me Stesso Di Allora, riservandosi d’intervenire a cavillare, polemizzare, o anche, perché no, approvare. Continua a leggere…

“Il primo vomito non si scorda mai”

Il primo vomito non si scorda mai ed io non l’ho dimenticato. Era il capodanno di qualche anno fa. Nonostante fossi inizialmente restia, avevo accettato l’invito di Ilario. Seduta attorno a quel tavolo, in compagnia d’altre otto persone, avevo trascorso una gradevole serata, per nulla condizionata dal mio conflittuale rapporto con il cibo; con l’aiuto del vino aveva ingollato anche cibi che da sobria avrei faticato anche solo ad annusare. Nicoletta, all’epoca segretaria del nostro circolo, era il demone che provvedeva, con cadenza regolare, a versare il “Merlot” nel mio bicchiere.

Mi sentivo ubriaca ma felice, mi godevo quelle ore con spensieratezza, la mia mente era svuotata dai soliti malinconici pensieri che le festività, di solito, contribuivano ad aumentare. Non osavo alzarmi in piedi poiché temevo di non riuscire a restare eretta, ma più di tutto mi stupiva non essere ancora entrata in quella che chiamavo “fase depressiva della sbronza”. Non ero una bevitrice abituale, anzi solo da qualche tempo avevo preso ad assaporare birra e vino, ma avevo già sperimentato le conseguenze di quelle bevande sul mio umore. Ogni volta che avevo ecceduto nel bere, inevitabilmente, dopo una breve parentesi di gioia effimera, mi ero sempre ritrovata alle prese con una tristezza terribile.

Quella sera non era così, mi sentivo lieve, libera dal mio stesso cervello. La cruda realtà, come si sarebbe dimostrato di lì a poco, era che avevo bevuto nettamente di più rispetto alle altre occasioni in cui avevo creduto di essermi ubriacata. Era, a farla breve, la mia prima reale sbornia. Continua a leggere…

N. 12: “Disumano, troppo felino” (da “Frammenti da un camino”)

In quella porzione di paese, il sole, d’inverno, tramontava all’incirca alle 15.30, oscurato un palazzo che aveva visto crescere in pochi mesi. Si godeva l’ultima dose giornaliera di raggi, alternando la lettura a pensieri sterili, benché inevitabili. “La lucidità è la ferita più prossima al sole”. Pensava a questa frase di René Char e si chiedeva cosa significasse essere lucidi, quando e se possiamo definirci tali, e in che modo la nostra presunta lucidità si rapporta all’altrettanto ipotetica lucidità altrui. Riflettere su tutto ciò, ne era consapevole, non lo avrebbe portato ad alcun tipo di verità o senso. Del resto, non aveva tale ambizione. Gli importava, a quel punto, ragionare sull’assurdo delle situazioni, senza restarne travolto. In particolare, tornò col pensiero alla sera precedente, quando era andato via dal pub, in preda a un’emozione che aveva sentito avvampare in sé nel breve lasso di pochi minuti.

Non sentiva più tracce dell’antica tristezza. Continua a leggere…

N.11: “Mimose” (da “Frammenti da un camino”)

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– È qui che si portano le mimose? – Eugenio indicò un bar alle spalle di Ivano, laddove, in un angolo a destra, di fianco al videopoker, erano stati deposti alcuni mazzi di mimose, forse offerti alla giovane cameriera da qualche cliente con gli ormoni reclamanti soddisfazione.

– Non lo so – sorrise Ivano – perché me lo chiedi?

– Perché oggi ho visto molti uomini con le mimose in mano, ho pensato di prenderle anch’io, ma non avrei saputo a chi darle e dove portarle.

– Neanche io saprei a chi regalarle adesso e non mi piacciono certi tipi di feste imposte dalla consuetudine, non sentite, fatte così, perché lo fanno tutti.

– T’invidio, lo sai? – disse Eugenio con una certa enfasi.

– Perché?

– Perché hai un’enorme lucidità, riesci a capire come si comportano le persone. Io non ci riesco.

– Non è come pensi. Osservo le persone, ma non sono così lucido. Senza esperienze personali non si può essere lucidi. Continua a leggere…

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