Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Il biliardino

Gli oggetti scompaiono, gli uomini muoiono, e questa, ormai dovrebbe essere noto, è una differenza non da poco. A volte gli oggetti che resistono all’usura del tempo sembrano essere lì per ricordarci uomini che non ci sono più, ma sappiamo anche che non è così, che è solo un gioco crudele della nostra memoria. Sulla morte di un amico d’infanzia e adolescenza c’è poco da dire, quel che si potrebbe scrivere sarebbe comunque inadeguato a esprimere non tanto il dolore dello scrivente, che passerà travolto dagli eventi quotidiani, quanto piuttosto quello visto negli occhi di chi più gli è stato vicino negli ultimi decenni e specie nell’ultimo periodo. Allora preferisco parlare di un oggetto, del biliardo, quello che simula il gioco del calcio, con le stecche che sembrano imprigionare ventidue uomini, disposti su diverse linee e impossibilitati a toccarsi.

Da bambino io avevo un biliardo. Per la precisione, lo chiamavamo “biliardino”, perché non era uno di quei biliardi che si trovano al bar, era a dimensione bambini, ed io e M. eravamo bambini, quando ci sfidavamo tutti i pomeriggi in interminabili partite. Io sceglievo sempre i bianchi e M. accettava i rossi, forse perché i rossi gli piacevano, oppure perché, essendo più piccolo di me, più timido di me (e ce ne voleva), non osava contraddire il padrone del biliardino. M. era un avversario perfetto, innanzitutto perché era un amico, e poi perché era un bambino. Anch’io, per lui, ero un avversario perfetto, perché anch’io ero un suo amico, e anch’io ero un bambino. Giocavamo sempre uno contro l’altro, perché quel gioco era riservato a noi. Con gli altri del quartiere preferivano giocare noi in persona, a calcio, senza delegare la nostra fantasia agli omini del biliardino.

Gli anni del biliardino finirono, così come quelli del calcio nella piazzetta del quartiere. A proposito, il biliardino è un oggetto che non c’è più, o meglio, c’è ancora, ma ci sono altri bambini che lo utilizzano; è stato regalato e mi piace pensare che, da qualche parte, ci siano due bambini che si sfidano tutti i giorni. Una piccola agenda verde, invece, esiste ancora nella mia stanza. Lì ci sono impressi, oltre al mio, i nomi dei ragazzi che con me partecipavano ai tornei di quartiere, sfide “uno contro uno” sotto il sole cocente dell’estate o il freddo dell’inverno. Ci sono G., F., V., S., c’è la mia A., e ci sono anche P. e M., che adesso spiccano per la loro assenza. P. è morto nel 2008, M. nell’agosto del 2014, e un beffardo e irriverente caso li accomuna in una pagina di quell’agendina verde che usavo per tenere aggiornati i risultati del torneo estivo. Nella classifica dei cannonieri di quel torneo a squadre, entrambi hanno dodici reti.

Dicevo del biliardo e del potere degli oggetti di evocare gli uomini. Io e M. ci siamo poi persi di vista, ciascuno alle prese con la propria esistenza. Ogni volta che c’incontravamo per strada, però, bastava un cenno di saluto per capire che dentro di noi quegli anni lontani non erano passati. Forse non eravamo più amici nel senso più stretto della parola, ma due conoscenti che erano stati grandi amici, ma non lo so, questo non conta, non adesso. In un bar che frequento c’è un biliardo, di quelli veri, non un biliardino come quello che usavamo io e M. Io non gioco mai a biliardo, ho maturato una mia teoria al riguardo, un po’ astrusa, ha a che vedere con la fantasia imbrigliata degli omini del biliardo. Poi, fa caldo, specie d’estate quando si svolgono i tornei di biliardo. Inoltre non ho forza nella mano sinistra, nonostante io scriva con la mano sinistra, e allora giocando in coppia sarei un peso per il mio compagno.

Due anni fa, però, ho giocato, perché me lo chiese M. A lui non seppi dire di no, perché era raro vederlo nel mio paese. M. aveva già qualche problema, ma non immaginavo che sarebbe accaduto quello che poi è successo. Quella sera mi avvicinai al biliardo insieme a lui e facemmo coppia, sfidando altri due ragazzi. Perdemmo, mi pare, ma io avevo avvisato M. che non sapevo giocare. Lui mi disse che non era importante, che ci teneva a giocare con me quella partita. Adesso so che quella è stata la prima e ultima volta che io e M., di fronte a un biliardino, siamo stati compagni e non sfidanti. A un certo punto, siccome avevo indossato un jeans troppo stretto, nel chinarmi a terra per raccogliere una pallina caduta, il jeans si strappò, lasciandomi tra le gambe una voragine. Finita la partita, M. mi propose di accompagnarmi a casa per cambiarmi il jeans. In macchina aveva “Wish you we’re here” dei Pink Floyd. Il mio pensiero andò a P.. Poi andammo a berci una birra al pub e ci raccontammo diverse cose, ricordando anche P.

Il resto è doloro, di M., dei suoi familiari e di chi ha condiviso con lui più tempo, più fatica, più gioia e più malinconia rispetto a me. A me resta la memoria, quel jeans strappato con le palle esposte al pubblico e il rumore che facevano le palline del biliardino, non del biliardo, ma proprio il biliardino, quello che ci vedeva avversari ma complici, che ci faceva credere che non si potesse smettere mai di giocare.

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Sui miei gusti posso discutere (sulla digestione di una torta)

L’antico e conosciuto motto ci spiega che sui gusti c’è poco da discutere. Non bisogna aver letto “La critica del giudizio” di Kant o interi manuali di estetica per comprendere che il gusto è qualcosa di molto personale. In quest’articolo, però, non voglio soffermarmi su cos’è il gusto, né su possibili criteri per spiegare perché riteniamo un libro, un film o una canzone belli. Sarebbe, per me, una pretesa assurda. Sul tema della bellezza, peraltro, mi sono già avvalso, in passato, dell’autorevole opinione di alcuni personaggi che si sono interrogati su cos’è la bellezza.

In questa sede voglio riflettere sul perché talvolta, magari dopo aver digerito male e aver avuto incubi di varia natura, mi sveglio e riesco a trovare pecche, difetti, mancanze a libri, film, canzoni o altro che avevo ritenuto, fino allora, dei capolavori assoluti. Sto semplificando, è chiaro che certi processi non avvengono, quasi mai, dalla sera alla mattina, che i mutamenti sono lenti e che le metamorfosi, a meno di non chiamarsi Gregor Samsa, non avvengono così all’improvviso. Il nostro gusto si affina nel corso degli anni ed è naturale che ciò che ci piaceva da adolescenti possa respingerci due decenni dopo. Peraltro, qui mi riferisco non alle repulsioni totali, quelle che ci portano a ripudiare totalmente qualcosa che prima apprezzavamo, ma a qualcosa di più sottile.

Un mio amico mi disse, scusandosi per l’azzardato paragone, che ci si può gustare un film o un libro come fosse una torta, verificando se ci piace o no, e solo dopo, volendolo, andare ad analizzare i singoli ingredienti di cui è composta. A me accade, insomma, che pur restando la torta identica, non riesca più ad accettare la presenza di certi ingredienti nella stessa, nonostante debba ingoiarli a forza se voglio gustarmela. Fuori di metafora, mi succede di trovare qualcosa di molto sgradevole, in film, libri, canzoni che pure mi piacciono e continuo ad ascoltare/guardare/leggere. Può essere una concezione teorica, un certo modo di usare il linguaggio, un aspetto biografico, qualsiasi cosa, che viene a insinuarmi dubbi. Al contrario, può accadere che io resti affascinato da alcuni ingredienti della torta, sebbene la torta nel suo complesso mi risulti indigesta. Anche qui, non mi riferisco all’ipotesi della (ri)scoperta di un film, un libro o una canzone che prima non mi era piaciuto e adesso mi entusiasma, bensì a quando, pur continuando ad avere un giudizio negativo sull’intero film, sul libro e sulla canzone, io percepisco, assieme all’insofferenza per il tutto, un piacere per una parte del tutto.

Queste considerazioni notturne, sonnolente e deliranti mi hanno indotto a riflettere su come, il più delle volte, quei processi di cui sopra siano nient’altro che un giudizio su me stesso. Quella canzone che due anni fa mi entusiasmava e mi muoveva dentro, adesso mi piace, la ascolto volentieri, ma la trovo artificiosa, il testo mi appare un mero esercizio di esibizionismo lessicale; eppure è la stessa, cos’è cambiato? Sono cambiato io, la risposta è semplice, ma decisiva. Anche se ammiro tuttora quel gruppo e quella canzone, e quindi non è un caso di rinnegamento totale, percepisco che è quel singolo ingrediente della torta a non scendermi più giù. Ciò accade, però, perché quell’aspetto, che prima sentivo anche mio, adesso non mi appartiene più, anzi, addirittura lo trovo insopportabile quando lo riscontro in me. Di conseguenza, il fastidio che avverto nel sentire il cantante esprimersi a quel modo, lo stesso di due anni fa, è un’insofferenza verso me stesso, verso quella mia caratteristica che ho combattuto o sto combattendo (per esempio, rileggendo l’articolo, trovo sgradevole aver scritto, poco sopra, la frase “mero esercizio di esibizionismo lessicale”). Nel caso contrario, invece, mi succede di trovare gradevole qualcosa che fino a qualche tempo fa mi faceva “orrore”. Anche in questo caso, non mi riferisco a schizofrenici cambi di rotta, ma a quando, pur ascoltando una canzone (leggendo un libro, guardando un film) che anche oggi non mi piace, perché la ritengo demenziale o per altro motivo, mi sorprendo, però, a sorridere e a provare piacere per qualcosa che non ritenevo potessi apprezzare. Qui, la situazione è speculare. La torta, cioè il tutto, continua a non scendermi nello stomaco, ma il singolo ingrediente, che pure c’era già prima ma che non avevo mai notato, mi piace. Ciò significa che anche quella canzone, che la ragione continua a rigettare, contiene qualcosa di mio, o almeno qualcosa capace di stimolare una zona latente in me.

In definitiva, insomma, non mi resta che prendere atto del mio molteplice ruolo di giudice, accusato e soprattutto degustatore di torte più o meno metaforiche, tenendo sempre presente che è difficile, forse sconsigliabile, mettersi a sindacare i gusti altrui, ed è altrettanto difficile, ma forse più auspicabile, interrogarsi sui propri.

Tutto questo, pensate, è stato causato dalla torta che mia madre ha sfornato qualche giorno fa e che sul momento mi sono ingurgitato, a essere sincero, senza farmi troppe domande sul tutto e sulla parte. Mi piaceva, ecco.

Mi sono innamorato di Lui (e un po’ anche di Voi)

buon compleanno

La fredda statistica mi dice che Io e il mio Blog stiamo insieme da due anni. La nostra è una relazione ancora passionale, ma soprattutto delirante. Non so cosa lui vide in me, né ricordo con esattezza cosa mi convinse ad approcciarlo. Forse “quel certo non so che dei suoi occhi”, oppure “quei discorsi all’apparenza innocui che facevamo al bar e che invece nascondevano già il nostro amore”, oppure, molto più semplicemente, mi sono innamorato di lui, e lui di me, perché non avevamo niente da fare.

Non amo le ricorrenze e avrei voluto evitare quest’articolo che parla di Me e Lui, il Blog. Lui, però, ha insistito, ha detto che è doveroso, da parte nostra, almeno un “Grazie” a chi ha contribuito a tenere in vita la nostra passione. Allora lo diciamo, questo “Grazie”, a tutti coloro che, per caso o per scelta, sono passati qui, hanno letto, commentato, consigliato, insomma hanno assistito e fomentato l’amore tra Me e il Blog. Siamo timidi e non riusciamo quasi a dirlo, ma, insomma, ci siamo innamorati anche un po’ di te, caro Pubblico. Grazie. Io e il Blog corriamo a festeggiare, a modo nostro.

P.s.: articolo ad alto tasso di autoreferenzialità, nonché evidente tentativo di una captatio benevolentiae.

Dialogo tra Me Stesso Di Allora e Me Stesso Di Adesso sulla presunta funzione catartica della scrittura

Alla domanda “perché scrivere?” o almeno a quella “perché scrivo?” hanno dato risposte grandi romanzieri, filosofi, poeti, pensatori e anche qualche calciatore. Rovistando nelle mie antiche scartoffie, ho trovato un documento che attesta, in maniera inequivocabile, che anch’io, anni fa, mi sono posto un interrogativo simile, senza apparente vergogna nel farlo. L’ho riletto e non sono d’accordo su diverse cose che avevo scritto allora. Questo non mi stupisce più di tanto, poiché mi accade spesso di non essere d’accordo con ciò che ho scritto, essendo ormai palese che tra l’io che scrive e l’io che si rilegge c’è uno scarto indubitabile (“la schizofrenia, come era stato detto”). Premesso ciò, riporto un dialogo tra il Me Stesso Di Allora e il Me Stesso Di Adesso e, pur ammettendo di essere di parte, nel senso che parteggio, per motivi comprensibili, per il Me Stesso Di Adesso, cercherò di evitare liti isteriche tra i due. Per facilitare il compito al masochistico lettore, ho deciso di conservare quasi per intero le riflessioni del Me Stesso di Allora, inserendo tra parentesi le note del Me Stesso di Adesso. Quest’introduzione, quindi, l’ha scritta il Me Stesso di Adesso, che ora, però, cede la parola al Me Stesso Di Allora, riservandosi d’intervenire a cavillare, polemizzare, o anche, perché no, approvare. Continua a leggere…

La telefonata

Ero seduto sul letto, libro in mano e in attesa che le palpebre cominciassero a serrarsi. Quell’inverno lo passai tappato in casa, manco fossi stato condannato agli arresti domiciliari. La gastrite, che sul finire dell’estate e all’inizio dell’autunno mi aveva allontanato dai tavoli dei pub, si rivelava essere un alibi perfetto per convincermi che la mia non era una larvata forma di misantropia, bensì una giusta salvaguardia per il mio organismo. La mattina e il pomeriggio uscivo da casa, non per lavorare, che in quel periodo, purtroppo, nemmeno quello facevo, bensì per prendere “l’aria” che mi sarebbe stata poi necessaria ad attraversare le serate e le nottate in solitudine. Stavo bene con me stesso, con i libri, con il gatto bianco che si addormentava tra le mie gambe. Il momento di maggior eccitazione delle mie serate era quando immergevo il plum-cake nel latte e orzo, lo vedevo colorarsi e poi lo inghiottivo con voluttà.

Non so come apparissi agli occhi degli altri, forse mi vedevano sull’orlo del precipizio. Un sospetto lo ebbi quando, Continua a leggere…

La stanza

La stanza appare essere un’aula scolastica, ci sono sedie e banchi verdi, disposti in modo da formare una sorta di grande ferro di cavallo, con tre file, ciascuna parallela a un muro della stanza. Nel rimanente lato di quel quadrilatero c’è la cattedra. Al centro dell’aula ci sarebbe spazio, se non fosse per la folla accalcata attorno a lui, che rende angusto quell’intervallo di mattonelle.

Sta male lì, per niente a suo agio, avverte di essere fuori luogo e non sa perché si trova lì. Gli altri presenti, a turno ma con foga, si avvicinano ai banchi per prendere cibo e bevande. Osservando i comportamenti altrui, deduce di trovarsi a una festa di compleanno o qualcosa del genere, solo che non ricorda di aver ricevuto inviti nei giorni precedenti. Gli altri sembrano felici, sorridenti, estatici, sazi di dolciumi e di birra, tutti socievoli, brillanti e sagaci. Lui si sente solo in mezzo a una folla, costretto a stare lì senza sapere perché e senza intravedere una via di fuga. All’improvviso, qualcuno lo tocca sulla spalla destra.

Si volta e vede lei. La sua presenza lo rinfranca, non si sente più completamente solo. Lei sembra sorridergli. Continua a leggere…

Una barba indifferente

Con la mia barba ho un rapporto affine a quello che ho sempre avuto con il concetto di “Dio”. Un’indifferenza, o presunta tale, che affonda le radici nell’adolescenza. Talvolta, però, ne sento il bisogno, e allora lascio che la crescita abbia luogo, quasi che possa esserci davvero qualcosa che mi accompagni, mi mascheri e sorregga il vuoto sotto i miei occhi. Basta poco ad accorgermi, però, che si tratta di una sensazione autoindotta, che quella crescita non avviene in modo da accrescere anche il resto di me, bensì in maniera frammentaria, discontinua, evidenziando vuoti che prima, nel vuoto totale, non coglievo. Allora, guardandomi allo specchio, non scorgo il volto di un uomo più sicuro, più misterioso, più “maschio”, ma solo quello di un prete alcolizzato e barbone, appena uscito da una seduta psichiatrica.
Quando ciò accade, capisco che bisogna tagliare in modo netto, senza pensarci troppo. In fondo, la barba non soffre, e se anche soffrisse, non potrei farci niente.
(P.s.: articolo che ha l’evidente scopo di temporeggiare in attesa di avere qualche altro libro da pseudo-recensire; ho disatteso la consegna del silenzio, auspicabile quando non si ha nulla di meglio da dire, e forse anche quando si ha qualcosa da dire.

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