Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Il colpo di scena ha fatto il suo tempo” (da “Frammenti da un camino”, n. 17)

– Dovresti trovare una trama, svilupparla, ma soprattutto descrivere l’apatia che ci tiene prigionieri di noi stessi, questa sorta di disincanto, questa condizione d’irresolutezza colpevole, che sentiamo essere contraria al nostro vivere ma che non contrastiamo abbastanza.

– Non è facile, sai. Tutto ciò che ho provato a scrivere finora mi appare come un vuoto esercizio di vanità, niente che abbia la valenza, la profondità di uno scritto vero, di quelli che non puoi fare a meno di tirare fuori da te perché ti soffocherebbe. Mi sembra, nel rileggermi, che in me non ci sia tutto questo, ma piuttosto che la scrittura sia un modo per guardare altrove, non per guardarmi dentro. Registro banali pensieri di superficie, ma ancora non affondo, non affronto a viso aperto i miei lati più oscuri.

– O quelli più luminosi. Ci fanno paura, gli estremi, potrebbero scardinare presunte certezze che da anni ci portiamo dietro. Quindi restiamo così, a crogiolarci nelle nostre abitudinarie teorie, fingendo slanci creativi che però restano a mezz’aria. Siamo attaccati alle nostre radici, forse è inevitabile che sia così. Però non possiamo continuare a lamentarci reciprocamente che tutto non va, se noi per primi non cerchiamo un modo per scappare da qui, per non morire dove siamo nati.

– Siamo banali, lo sai, lo siamo noi più di tutti, perché sappiamo e non reagiamo. Aspettiamo chissà cosa, la famosa scintilla o ispirazione che un giorno farà di noi uno scrittore o un filosofo, o un cantante, un regista, chissà quale altra strana forma di vita alla quale pensiamo di poter assurgere. Eppure non siamo più adolescenti, Continua a leggere…

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Un pesce nell’acqua (quando Aglaja apparve in Viale dell’Università)

Uscito dalla stazione Termini, per raggiungere l’amico che lo avrebbe ospitato nella stanza affittata presso Piazza Bologna, imboccò Via del Castro pretorio e poi Viale dell’Università. Aveva preferito andare a piedi piuttosto che prendere i mezzi pubblici, d’altronde non poteva sbagliarsi, gli sarebbe bastato seguire quella serie di lunghe rette di asfalto. In lui i rettilinei destavano spesso una sorta d’inquietudine, perché parevano precludere qualunque svolta e gli ricordavano la via principale del suo paese, quella che aveva da decenni davanti agli occhi, che percorreva ogni giorno e gli forniva banali spunti metaforici per i suoi infruttuosi tentativi letterari.

A Roma, però, tutto gli appariva diverso, anche i rettilinei, non solo per la maestosità dei luoghi, ma anche perché aveva la sensazione che in città qualcosa potesse sempre accadere, anche restando inerti ad attendere gli eventi. Che cosa fosse poi questo ‘qualcosa’ che poteva accadere, non sarebbe stato in grado di precisarlo. Vi era una certa ingenuità romanzesca, allora, in questa sua visione manichea della realtà, la provincia e i suoi limiti da una parte, la città e le sue aperture dall’altra.

Su quel marciapiede metropolitano stava proseguendo ragionamenti iniziati la mattina in treno, idee che da qualche tempo aveva relegato in anfratti reconditi della sua mente ed erano state ridestate da una frase letta sui “Taccuini” di Albert Camus. Pensava al desiderio fisico, ai bisogni primari e quelli indotti, alla sublimazione che la scrittura avrebbe potuto rappresentare per lui se solo fosse stato in grado di scrivere qualcosa in più che sciocchi aforismi improvvisati, ma soprattutto alla parola, “amore”, alla sua palese vaghezza, alla difficoltà di intendersi con il prossimo sul significato da attribuire a quel vocabolo da tutti conosciuto, ma che a ciascuno appare sotto una veste diversa, più di quanto non accada con altri vocaboli.

Stava insomma incastrandosi in quel genere di riflessioni che di rado portano a considerazioni che durino più di mezza giornata. Cercava di mettere ordine ai pensieri, che gli apparivano sfuggenti e sconclusionati e dai quali non poteva continuare a fuggire come aveva fatto negli ultimi mesi. Coltivarli, peraltro, lo faceva sentire vivo non meno di una serata spensierata come quella che si apprestava a vivere di lì a poche ore, con il suo amico, al concerto. Continua a leggere…

Il bambino che non voleva salire sull’altalena (titolo alternativo: “L’amore ai tempi delle giostre rosse”)

Guardava gli altri bambini e si chiedeva come facessero a divertirsi su quelle altalene, sospinti avanti e indietro dalla mamma o dalla baby-sitter. A lui quel gioco non era mai piaciuto. L’aveva provato più volte, specie quando era più piccolo, ma non c’era stato niente da fare, quel gioco gli sembrava noioso. Avanti e indietro, avanti e indietro, sempre uguale, ripetitivo, salvo quando una spinta più forte aumentava il raggio dell’oscillazione, quasi a suggerire la possibilità di una svolta, fosse anche una caduta rovinosa.

(Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa incredibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – , e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!” – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?)*

Forse, però, era lui un bambino noioso, agli altri doveva apparire così. Lì, in disparte, col viso corrucciato, a osservarli. Ma che voleva da loro? Gli avevano proposto di fare un girotondo, ma lui niente, nemmeno quello! Davvero un tipo tetro.

Il bambino all’epoca non poteva sapere perché le altalene non gli piacevano, non gli piacevano e basta. Più in generale, il suo problema erano le curve. Sì, perché l’altalena per aria disegnava una sorta di mezzaluna, il girotondo poi, li diceva la parola stessa, era un tondo quasi perfetto, una piccola comunità di piccoli esseri che, mano nella mano, facevano comunella lasciando alle loro spalle tutto il resto del mondo, quei cattivoni degli adulti. Però lui si annoiava anche lì, nel girotondo. Non sopportava neanche le curve delle strade. Ricordava bene gli effetti di quella trasferta in auto per la prima comunione del suo cuginetto coetaneo. Per non parlare poi di quelle giostre illuminate che giungevano al paese in occasione delle feste patronali: le catene volanti, i tappeti volanti, le astronavi volanti, le navi pirata volanti, le macchine “a tuzzo”, o come cavolo si chiamavano. Oggetti strani che giravano e giravano e giravano e giravano, Continua a leggere…

Nel labirinto dell’intelligenza (H. M. Enzensberger)

“Se qualcuno seguitasse a credere che un’intelligenza vale l’altra, si sbaglia. Gli esperti si sono prodigati a mettere un po’ d’ordine nella confusione che regna nelle nostre teste. Essi distinguono meticolosamente, come è loro costume, tra intelligenza biologica e psicometrica, motoria e razionale, analitica e creativa, linguistica e visuale, spaziale e logico – matematica, cinestetica e musicale, pragmatica e meccanica, interpersonale e intrapersonale, cristallina e fluida, funzionale e manipolativa: e non finisce qui l’elenco delle tipologie da riunire in un mazzo”

(Hans Magnus Enzensberger, “Nel labirinto dell’intelligenza”)

In un vecchio articolo chiedevo soccorso ad alcuni pensatori ben più intelligenti di me una definizione di “bellezza”, senza giungere, per fortuna, a conclusioni definitive. Stavolta, invece, la parola enigmatica è “intelligenza”. Enzensberger, in questo breve saggio, affronta l’argomento in maniera interessante, con la giusta ironia, senza risultare per nulla noioso. Continua a leggere…

Le lettere di Dostoevskij.

Vi propongo degli estratti dalle lettere che Fëdor Dostoevskij scrisse a parenti, amici, colleghi, lettori. Il libro dal quale le traggo è “Lettere sulla creatività” (Ed. Universale Economica Feltrinelli), una selezione dall’epistolario dello scrittore russo. Sulla sua figura non è il caso di soffermarsi qui, ma se avete ammirato i suoi romanzi vi consiglio di leggere anche le sue lettere, vi permetteranno di comprendere meglio il suo pensiero.

Il titolo della raccolta fa riferimento alla “creatività”, e in effetti molte pagine sono dedicate al processo di creazione artistica, ma non mancano ricordi personali, a partire dalla drammatica vicenda della deportazione in Siberia e della “finta fucilazione”. Aggiungo che ovviamente sono analizzate anche questioni che attenevano a situazioni specifiche dell’epoca, che non condivido alcune tesi di Dostoevskij (ma questo è banale, e soprattutto è quel che meno conta), e che comunque alcune sue lettere sono di per sé “Letteratura” nel senso più pieno del termine.

La dicitura che troverete prima di ogni passaggio non è presente nell’intestazione delle lettere, è solo indicativa circa l’argomento di cui sta scrivendo. Ho omesso anche data e destinatario.

Propositi di gioventù.

“L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo”.

La finta fucilazione e la deportazione in Siberia.

“Oggi, 22 dicembre, siamo stati condotti sulla piazza Semënov. Lì è stata letta a tutti noi la sentenza di condanna a morte, poi ci hanno fatto accostare alla croce, hanno spezzato le spade al di sopra delle nostre teste…io ero il sesto della fila…non mi restava da vivere più di un minuto. Mi sono ricordato di te, fratello, e di tutti i tuoi; Continua a leggere…

A luce rossa.

– La luce rossa dello stereo è accesa.

– Hai ragione. Ho dimenticato di spegnerla.

– Grave! “Ricordo sempre tutto, anche i dettagli”, non dicevi così?

– Mi riferivo alle parole, a quel diciamo la sera e poi scordiamo la mattina, agli sguardi…non certo al Led dello stereo.

– Può darsi, ma forse la tua memoria perde colpi. Ammettilo.

– Con il passare degli anni ho imparato a dimenticare.

– Adesso non attaccare con la storia dell’oblio come facoltà attiva…non tirare fuori il solito Camus…si tratta solo di uno stupido led dello stereo…

– Camus non c’entra, l’oblio attivo è Nietzsche…

– Sì, Camus, Nietzsche, quello che vuoi…non tirarli fuori comunque, non è il momento.

– Ah ah ah! Ok…ti risparmio, mi risparmio!

– Anche perché in caso contrario stasera resteresti a ‘digiuno’

– No, no, ho una certa ‘fame’, e mi pare di capire che ne hai anche tu…

– Vedremo. Intanto vuoi andare a staccare la spina o devo smuovere io il culo?

– Vado. Ma prima aspetta. Tu come la ‘vedi’ quella luce?

– Come vuoi che la veda? Un punto rosso nell’oscurità.

– No, volevo dire, a cosa ti fa pensare?

– Ma che domanda è? Continua a leggere…

The Idiot

‎(Quando scrivo una cazzata, come nel post precedente, cerco di rimediare. Vado a botta sicura. Se vi piace Dostoevskij, o se vi piace Kurosawa, o tutti e due, guardatevi questo film. Se non vi piacciono, idem. Però potete pure vivere senza, credo).

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