Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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Il desiderio (Gilles Deleuze)

“Volevamo dire la cosa più semplice del mondo: finora si è parlato astrattamente del desiderio, perché si è isolato un oggetto che si suppone essere l’oggetto del desiderio. Allora si può dire <<desidero una donna, desidero partire per un viaggio, desidero questo o quello>>. E noi dicevamo una cosa davvero semplice, non si desidera mai veramente qualcuno o qualcosa. Si desidera sempre un <<insieme>>. Non è complicato. Ponevamo questa domanda: “<<Qual è la natura dei rapporti tra gli elementi perché ci sia desiderio, perché diventino desiderabili?>>. Non desidero una donna… mi vergogno a dire queste cose, è Proust che l’ha detto e in Proust è bello. Non desidero una donna, ma desidero anche un <<paesaggio>> che è contenuto in quella donna, un paesaggio che forse neanche conosco, ma che intuisco e finché non ho sviluppato questo paesaggio non sarò contento, cioè il mio desiderio non sarà compiuto, resterà insoddisfatto.”

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“Che cos’è la filosofia?” (Gilles Deleuze-Félix Guattari)

deleuze guattari

“Chiediamo soltanto un po’ d’ordine per proteggerci dal caos. Niente è più doloroso, più angosciante di un pensiero che sfugge a sé stesso, delle idee che si dileguano, che appena abbozzate scompaiono, già erose dalla dimenticanza o sprofondate in altre che a loro volta non controlliamo…Perdiamo continuamente le nostre idee. È per questo che vogliamo tanto aggrapparci a opinioni sicure. Chiediamo soltanto che le nostre idee si concatenino seguendo un minimo di regole costanti, e l’associazione delle idee non ha mai avuto altro senso se non quello di fornirci delle regole, come la somiglianza, la contiguità, la causalità, che ci difendano e ci permettano di mettere un po’ d’ordine nelle idee, di passare dall’una all’altra secondo un ordine dello spazio e del tempo, che impediscano alla nostra “fantasia” (il delirio, la follia) di percorrere l’universo in un istante per generarvi dei cavalli alati o dei draghi di fuoco…chiediamo tutto questo per poterci fare un’opinione, come una sorta di ombrello che ci protegga dal caos”.

(Gilles Deleuze – Félix Guattari, “Che cos’è la filosofia?”, ed. Piccola Biblioteca Einaudi)

“Che cos’è la filosofia?”. Bella domanda. La presenza del punto interrogativo nel titolo dell’opera di Deleuze e Guattari dimostra che i due autori non propongono una risposta definitiva, consci che sarebbe assurdo proporla. Devo anche aggiungere che qualora avessero dato una soluzione ultima al quesito, io non avrei potuto coglierla, per la semplice ragione che almeno il 50% del libro mi è risultato oscuro, causa terminologia o argomenti a me poco familiari. Continua a leggere…

“Marcel Proust e i segni” (Gilles Deleuze)

Deleuze

“L’opera di Proust non è rivolta verso il passato e le scoperte della memoria, ma verso il futuro e verso i progressi dell’apprendimento. Quello che importa è che il protagonista non sapeva all’inizio certe cose, ma le apprende progressivamente, e riceva infine un’estrema rivelazione. Prova dunque necessariamente delle delusioni: egli “credeva”, si faceva delle illusioni, il mondo vacilla nel corso dell’apprendimento”.

(Gilles Deleuze, “Marcel Proust e i segni”)

“Marcel Proust e i segni” è un saggio di Gilles Deleuze, nel quale il filosofo francese, attraverso una puntigliosa rilettura del capolavoro del romanziere, sostiene la tesi secondo la quale il vero fulcro di “Alla ricerca del tempo perduto” non sia tanto la memoria, o il ricordo, come potrebbe apparire, bensì l’apprendimento di segni da parte di un letterato che trasfigura, trasforma e rilegge, in chiave artistica, i segni incontrati nella propria esistenza. La memoria, in questo senso, ha un ruolo fondamentale, essendo il mezzo che permette a Proust di decifrare, in modo retrospettivo, avvenimenti ed emozioni del Tempo perduto, assicurando così, solo nel Tempo ritrovato, unità formale alla vita, altrimenti composta di frammenti e schegge di difficile decifrazione.

L’interpretazione di segni, dunque, come unità dell’opera. I segni, tuttavia, di per sé sono plurali, indefiniti, da sviscerare. Deleuze enuclea segni di diverso tipo che sono rinvenibili nel romanzo. Continua a leggere…

Due parole di Deleuze sull’innamoramento.

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“L’incontro Charlus-Jupien pone il lettore di fronte al più prodigioso scambio di segni. Innamorarsi vuol dire individualizzare qualcuno attraverso i segni che porta o che emette. Vuol dire diventare sensibile a questi segni, iniziarsi ad essi (come nella lenta individualizzazione di Albertine, entro il gruppo delle fanciulle). L’amicizia può forse nutrirsi di osservazione e conversazione, ma l’amore nasce e si nutre d’interpretazione silenziosa. L’essere amato appare come un segno, un’ “anima”: esprime un mondo possibile a noi sconosciuto. L’amato implica, include, imprigiona un mondo che occorre decifrare, e cioè interpretare. Si tratta anzi di una pluralità di mondi; il pluralismo dell’amore non riguarda soltanto la molteplicità degli esseri amati, ma la molteplicità delle anime o dei mondi racchiusi entro ognuno di essi. Amare è cercare di spiegare, di sviluppare questi mondi sconosciuti che restano avviluppati nell’amato…(omissis)

C’è dunque una contraddizione dell’amore. Non possiamo interpretare i segni di un essere amato senza sboccare in mondi che non hanno aspettato noi per formarsi, che si formarono con altre persone, e nei quali siamo dapprima solo un oggetto tra gli altri. L’amante desidera che l’amato gli dedichi le sue preferenze, i suoi gesti, le sue carezze. Ma i gesti dell’amato, nel momento stesso che sono rivolti e dedicati a noi, esprimono ancora quel mondo ignoto che ci esclude. L’amato ci dà segni di preferenza; ma poiché quei segni sono i medesimi che esprimono mondi di cui non facciamo parte, ogni preferenza di cui profittiamo traccia l’immagine del mondo possibile dove altri sarebbero o sono preferiti. La contraddizione dell’amore consiste in questo: i mezzi su cui contiamo per preservarci dalla gelosia sono gli stessi mezzi che alimentano questa gelosia, conferendole una specie di autonomia, d’indipendenza rispetto al nostro amore”.

(Gilles Deleuze, “Marcel Proust e i segni”)

“Kafka. Per una letteratura minore” (Gilles Deleuze – Félix Guattari)

“Kafka anche in punto di morte è traversato da un flusso di vita invincibile, che gli viene dalle lettere, dai racconti, dai romanzi, e dalla loro incompiutezza reciproca per ragioni differenti, ma comunicanti, intercambiabili. Condizioni di una letteratura minore. Una cosa sola addolora e manda in collera Kafka, scatenando in lui l’indignazione: che lo si prenda per uno scrittore intimista, per uno che trova rifugio nella letteratura, scrittore della solitudine, della colpevolezza, dell’intima infelicità. Eppure lo sbaglio è suo, perché tutto ciò è stato da lui come ostentato, per scavalcare la trappola, e per umorismo. C’è poi il riso di Kafka, un riso proprio gioioso che si spiega così male, e per le medesime ragioni. Proprio per tali stupide ragioni alcuni hanno preteso di vedere nella letteratura di Kafka un rifugio fuori della vita, un’angoscia, il segno di un’impotenza e di una colpevolezza, il segno di una triste tragedia interiore. Due soli sono i principi per avvicinarsi a Kafka: è un autore che ride, profondamente gioioso, di una gioia di vivere, nonostante e con le sue dichiarazioni di clown, che egli tende come una trappola o come un circo. È un autore politico da cima a fondo, indovino del mondo futuro, perché ha come due poli che si appresta a unificare in un concatenamento affatto nuovo; lungi dall’essere uno scrittore chiuso fra le pareti di una stanza, si serve di essa per un doppio flusso, quello di un burocrate di grande avvenire, attaccato ai concatenamenti reali in via di montaggio e quello di un nomade in fuga nel modo più attuale…”

(Gilles Deleuze – Félix Guattari, “Kafka. Per una letteratura minore”, ed. Quodlibet)

“Kafka. Per una letteratura minore” di Gilles Deleuze e Félix Guattari, edito da Quodlibet, è un saggio che all’inizio mi è parso ostico. In particolare, il terzo capitolo, quello intitolato “Che cos’è una letteratura minore”, nel quale per l’appunto gli autori spiegano cosa debba intendersi per “letteratura minore” (vi anticipo solo che non c’è nulla di denigratorio in questa definizione: “Una letteratura minore non è la letteratura di una lingua minore, ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore”), mi è risultato un po’ “pesante” da leggere. Alcuni passaggi, infatti, mi sono parsi noiosi e oscuri, ma questo probabilmente è dovuto al fatto che non ho letto molte opere di Deleuze (e Guattari), e quindi non ho familiarità con la loro terminologia.

Superato questo piccolo ostacolo, tuttavia, il resto del saggio mi ha fornito interessanti chiavi di lettura dei testi di Kafka, Continua a leggere…

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