Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per la categoria “Punti di tangenza (rubrica inutile)”

“Cercai di descrivere le cose che voi vi faceste reciprocamente”

 

“Cercai di descrivere le cose che voi vi faceste reciprocamente e la gente intorno a voi e ciò che altra gente e la vita stessa vi fecero.

C’era una cittadina nello Stato dell’Ohio. La cittadina fu in realtà l’eroe del libro. Ma dopo che ‘Un povero bianco’ venne pubblicato nessuno dei critici parlò di questo. Ciò che successe alla cittadina era, a mio parere, più importante di ciò che successe agli abitanti.

Perché, be’, perché suppongo di essermi sempre reso conto che anche dopo Joe, Jim, Clara e gli altri fossero stati dimenticati, nuova gente avrebbe vissuto nella cittadina.

Voi capite, ne sono sicuro, quel senso d’intimità e d’isolamento che lo scrittore riceve, alla fine, dai suoi libri.

Sedevo nel retro di una taverna insieme a dei marinai e mentre costoro parlavano del mare il piccolo Joe Wainsworth uccideva Joel Gibson in una bottega da sellaio nella cittadina dell’Ohio. Ero sul ponte di un bastimento nel golfo del Messico e proprio allora venne quel momento in cui Hugh McVey fuggì dalla camera della moglie. Un’altra volta ero in una tranquilla via nottetempo. Era scuro. Andavo avanti dondolando il bastone. Gente passava e non sapeva nulla.

E tutto il tempo, mentre io passeggiavo, quell’uomo alto e scarno, Hugh McVey, strisciava nel campo di cavoli al limite della città, giù nell’Ohio; quella notte in cui spaventò tanto i giovani French che essi fuggirono.

Vennero altri momenti. Le mie mani tremavano. Talvolta ero così eccitato che, quando cercavo di scrivere, la mano mi tremava in un modo tale da non lasciarmi tenere la penna.

Un periodo strano per me, un periodo eccitante.

Quanto di ciò che io sentii, vidi, conobbi della gente della mia città, della gente della mia fantasia, entrò alla fine nel libro?”

(Sherwood Anderson, introduzione a “Un povero bianco”, ed. Einaudi)

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Ancora Petrarca, stavolta sul Mont Ventoux “insieme” a Marco Pantani.

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Non so se questo è davvero il Mont Ventoux, non ci sono stato, io.

Marco Pantani e Francesco Petrarca, però, sì. A distanza di oltre 700 anni l’uno dall’altro.

Marco scalava le montagne in bici per “abbreviare l’agonia”, Francesco a piedi.

Lo so, in tutti i punti del mondo sono passati uomini di tutti i tipi, ma che vi devo dire, quando ho letto le parole su Petrarca che sale in cima al Ventoux, a me è venuto in mente Pantani. Le altre migliaia, milioni (beh, senza esagerare) che sono passati di lì mi scuseranno, non è che posso ricordare tutti. Ah, io sul Ventoux non ci vado, né in bici né a piedi, al momento sono sdraiato sul mio letto.

 “…dove però il suo entusiasmo raggiunge il colmo, è nell’ascesa che egli fece al Mont Ventoux…un vago desiderio di godere un ampio orizzonte s’esalta in lui…il salire alle cime di un monte senza uno scopo stabilito pareva stranezza inaudita a quanti lo circondavano, né certo era il caso di pensare a trovare amici o conoscenti che lo accompagnassero. Petrarca non prese dunque con sé che il fratello minore e, dall’ultima stazione di riposo in avanti, due uomini del luogo in qualità di guide. Mentre con costoro aveva cominciato già la salita, un vecchio pastore lo scongiurava di tornare sui suoi passi, dicendogli che anche lui, circa cinquant’anni prima, aveva tentato la stessa impresa, ma con l’unico risultato di averne le ossa rotte e le vesti lacerate, e che nessuno mai prima né dopo si era avventurato per quella via. Ma essi non si lasciano atterrire per questo, e tra indicibili stenti avanzano ancora, sinché si trovano con le nuvole sotto i piedi e hanno raggiunto la cima”.

 (da “La civiltà del Rinascimento in Italia” di Jacob Burckhardt, che a sua volta riprende un passo delle “Epistole familiari” di Petrarca)

P.s.: potrebbe sembrare, da questo e dal precedente articolo, che il libro di Burckhardt sia dedicato al 99% a Petrarca. Non è così, nelle oltre 400 pagine c’è molto altro, forse (quasi sicuro) scriverò qualcosa non appena avrò finito di leggerlo. Non so perché, però, questi due passaggi su Petrarca mi hanno stimolato il cervellino.

Montaigne, Wittgenstein, Nietzsche (e la “parola che tutti conoscono ma della quale nessuno sa il significato”)

Ricordo di aver letto una frase di Joyce, forse in “Ulisse”, nel quale definiva l’amore come “la parola che tutti conoscono ma della quale nessuno conosce il significato”. Sto andando a memoria, quindi potrebbe non essere così e potrebbe anche non essere Joyce. Ho cercato di ritrovarla, senza esito, ma non importa, oggi voglio riportarvi alcune riflessioni di autori diversi circa il linguaggio. Non entro nel merito delle singole tesi, perché ciascuna di esse si presterebbe a considerazioni molto ampie e perché non sono un esperto di studi sul linguaggio, piuttosto segnalo, da appassionato lettore di testi di filosofia, come questi pensatori, in epoche diverse, si siano posti problemi affini. Starà poi ai più curiosi andare ad approfondire gli stessi.

Il primo autore di cui riporto uno stralcio è Montaigne, che in ordine temporale è quello che ho letto per ultimo, anche se è vissuto in epoca anteriore agli altri due, cioè nel XVI secolo d.C. In un passaggio dei suoi “Saggi”, testo che vi consiglio per altre ragioni che ho cercato di sintetizzare in un precedente articolo, fa cenno, per l’appunto, al problema della debolezza intrinseca del nostro “parlare”. Leggendo questo brano, il mio pensiero è andato subito al logico-filosofo che a questo tema ha dedicato la gran parte dei suoi scritti, ovvero Ludwig Wittgenstein, il quale (a voler brutalmente riassumere) “rinnegò” il suo “Tractatus Logico-Philosoficus” nelle successive “Ricerche filosofiche”, a mio avviso un testo superiore e imprescindibile per gli appassionati di tali questioni. Negli articoli che ho scritto al riguardo, potrete trovare qualche spunto (inadeguato, non mi stanco mai di ribadirlo quando sono al cospetto di tali cervelli) per addentrarvi negli autori stessi. I brani che vi riporto sono estratti proprio dalle “Ricerche filosofiche”, edite per la prima volta nel 1953, due anni dopo la morte di Wittgenstein, e accennano, rispettivamente, al distacco dell’autore rispetto alle sue precedenti teorie (quelle del “Tractatus) e alla cosiddetta “teoria dei giochi linguistici”.

Il terzo brano è tratto da La gaia scienza di Friedrich Nietzsche, edita nel 1882, e lo pubblico perché, in un certo senso, il riferimento al linguaggio che si sviluppa di pari passo con la coscienza di sé, mi riportò a Wittgenstein (autore successivo, quindi semmai dovrebbe essere il contrario). Continua a leggere…

“Firenze, lo sai?” (I. Graziani, T. Landolfi e la filosofia)

A Firenze non sono mai stato. Lo so, è grave, vedrò di rimediare. Quest’articolo, dunque, non può essere su Firenze, non in maniera diretta. Sto leggendo “Se non la realtà” di Tommaso Landolfi, sul quale scriverò qualcosa non appena finito, e mi sono imbattuto in questa pagina che vi riporto. Leggendola, nella mia testa è scattata la canzone di Ivan Graziani. Non solo per il riferimento a Firenze, ma anche per quello allo “studente di filosofia”. Nel testo, Landolfi, in viaggio al monte Argentario, incontra una vecchia amica, che nel suo monologo rievoca una gioventù che poteva andare altrimenti per i due. Nella canzone di Graziani, l’autore rimembra un malriuscito triangolo sentimentale tra lui, una ragazza e uno studente di filosofia.

La realtà è che la mia inutile rubrica “Punti di tangenza” latitava da un po’. Grazie a questo accostamento, spero non troppo ardito, le dono vigore.

Quindi, ecco a voi Landolfi, Graziani, Firenze, la filosofia, lo studente e qualche ricordo dei tempi andati (quest’ultima cosa ognuno la potrà tarare su se stesso e su una città diversa da Firenze).

“Passeggiavo, e a un tratto scorsi un viso femminile conosciuto; mentre ancora cercavo di raccapezzarmi, la donna venne dritto verso di me e mi salutò per nome. La raffigurai allora: m’era stata compagna d’università a Firenze. Dopo i riconoscimenti d’uso ci sedemmo su una panca e prese a parlarmi di sé, interrogandomi anche, ma (come sogliono) senza attendere risposta. – Eh, sì, – diceva – tu allora non volesti accorgerti di me (lo diceva e bisognava crederle), ed ecco, son rifinita qui; non è magari una residenza ideale, ma insomma io mi contento. Ho due bambini a casa, lo sai? Cioè io li chiamo ancora così, ma naturalmente son tutti e due più alti di me: uno studia già a Pisa, l’altro prenderà la licenza quest’anno. Siamo vecchi…aspetta, quanti anni sono passati? Io venni a Firenze nel ’30, mi pare. Continua a leggere…

“Lo straniero” (di Luchino Visconti, dal romanzo di Albert Camus)

Mi sono avvicinato al film di Luchino Visconti, “Lo straniero”, con molta circospezione. Il libro da cui è tratto, scritto da Albert Camus, è uno dei miei preferiti. Chi vuole può leggersi le mie impressioni sullo stesso nell’articolo che ho scritto tempo fa. Proprio perché ho letto il libro tante volte, ero titubante nell’affrontare la versione cinematografica.

Il film è magistrale. Visconti non “inventa” nulla, segue nei minimi dettagli la trama del romanzo. I dialoghi sono riportati alla lettera e le atmosfere che respiravo leggendo il libro le ho ritrovate, pur nella diversità di mezzo espressivo. Mastroianni nella parte di Meursault è eccellente. Non aggiungo altro, ve lo consiglio.

Punti di tangenza (rubrica inutile): “Il profumo” di P. Süskind e “Scentless apprentice” dei Nirvana

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È passato tanto dall’ultima volta che ho scritto un articolo per la mia inutile rubrica “Punti di tangenza”. L’occasione mi è data dalla lettura del romanzo “Il profumo” di Patrick Süskind. Erano quasi venti anni che volevo leggerlo, precisamente da quando ascoltai per la prima volta la canzone “Scentless apprentice” dei Nirvana, il cui testo rimanda, per l’appunto, al romanzo. Considerando che i Nirvana sono stati il gruppo della mia gioventù, e che ancora adesso mi piacciono (anche se li ascolto più saltuariamente), devo dire che questo romanzo ha sempre avuto, per me, un’aura particolare, e quindi mi ci sono avvicinato in maniera che definirei “condizionata”. Se ne sto scrivendo qui significa che nel complessomi è piaciuto, perché altrimenti non ne parlerei, in ossequio a una regoletta che mi sono dato per questo blog, cioè cercare di proporre qualcosa e non stare qui a stroncare ciò che non mi piace (salvo le opportune eccezioni).

Forse la mia attesa era eccessiva e questo m’impedisce di annoverarlo tra i capolavori letterari che non dimenticherò, ma in ogni caso non sono rimasto troppo deluso.

“Il profumo” è la storia di Jean-Baptiste Grenouille, bambino che nasce inodore e per questo rifiutato dalla madre, dalle balie e da tutti coloro che si trovano ad accudirlo nei primi anni della sua vita. Non ha odore, ma in compenso è dotato di una straordinaria capacità di riconoscere gli odori del mondo. Non sto qui a svelare a cosa condurrà questa sua terribile condizione, altrimenti toglierei il gusto a chi volesse leggere il libro e non ne ha sentito parlare. Il romanzo è scritto (tradotto) bene, l’ho letto tutto d’un fiato, fatti salvi alcuni passaggi in cui l’autore descrive le varie miscele atte a produrre profumi, ed è anche un riflessione sulla bellezza e sulla cattiveria umana, oltre che, naturalmente, sul potere degli odori. Non mi è piaciuto il finale, che peraltro forse sintetizza il senso del romanzo, ma che a me è parso francamente esagerato.

La pigrizia m’impedisce di scrivere altro, mi limito a riportarvi un passaggio del libro e la canzone dei Nirvana con relativo testo. Alla prossima puntata di questa appassionante ma vana rubrica.

“Voleva essere il dio onnipotente del profumo, così come lo era stato nella sua fantasia, ma ora nel mondo e regnando su uomini reali. E sapeva che ciò era in suo potere. Poiché gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo era fratello del respiro. Con esso penetrava negli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere. E il profumo scendeva in loro, direttamente al cuore, e là distingueva categoricamente la simpatia dal disprezzo, il disgusto dal piacere, l’amore dall’odio. Colui che dominava gli odori, dominava i cuori degli uomini”.

(Patrick Süskind, “Il profumo”)

 

“Like most babies smell like butter

his smell smelled like no other

he was born scentless and senseless

he was born a scentless apprentice

Go away – get away, get away, get a-way

every wet nurse refused to feed him

electrolytes smell like semen

I promise not to sell your perfumed secrets

there are countless formulas for pressing flowers

I lie in the sole and fertilize mushrooms

Leaking out gas fumes are made into perfume

You can’t fire me because I quit

Throw me in the fire and I won’t throw a fit

 Go away!”

 

 

Voluttà, affinità, carne, spirito, bordello, Mann, Dostoevskij (il titolo è più lungo dell’articolo)

Sto leggendo “Doctor Faustus” di Thomas Mann, forse tra qualche giorno scriverò le mie impressioni sul romanzo. Per ora, mi limito a riportarne un passaggio, nel quale il narratore Serenus Zeitblom parla del suo amico Adrian Leverkühn. Non svelo granché se anticipo che nella figura di Leverkühn è possibile ritrovare (con le dovute cautele) alcuni elementi “nietzschiani”*. In particolare, questo passaggio è successivo all’episodio che vede Leverkühn entrare per sbaglio (ingannato da un amico, per la precisione) in un bordello e fuggirne inorridito dopo aver suonato alcune note su un pianoforte trovato dentro al bordello stesso. A parte l’episodio in sé, le parole di Mann mi hanno ricordato un passaggio de “I fratelli Karamazov” che porto con me nel portafogli da qualche anno e ho riportato anche qui sul blog, per esempio nell’articolo sulla “Bellezza”. Lì lo spunto di partenza è la “Bellezza”, ma il mio cervello ha colto una certa affinità tra i due passaggi.

“Per quanto possa sembrare strano in considerazione della nostra vecchia amicizia, l’argomento dell’amore, del sesso, della carne, non era mai stato toccato nelle nostre conversazioni in qualche modo personale e intimo; mai altrimenti che per il tramite dell’arte e della letteratura, a proposito di manifestazioni personali nell’ambito dello spirito, questo fatto aveva partecipato al nostro scambio di idee, e in tal caso Adrian aveva espresso nozioni oggettive, che lasciavano completamente da parte la sua persona. Come avrebbe potuto uno spirito pari al suo non includere anche questo elemento? Che lo includesse era abbastanza dimostrato dalla sua ripetizione di certe dottrine kretzschmariane** sul fatto che la sensualità non è disprezzabile nell’arte e non solo nell’arte; Continua a leggere…

“La sonata a Kreutzer” (Beethoven e Tolstòj). Del potere seduttivo della musica.

(“Punti di tangenza”). È da un po’ che non aggiorno la mia rubrica sulle affinità tra musica e letteratura. Da qualche giorno, in maniera non proprio casuale, mi sono avvicinato alla musica classica, in particolare a Beethoven, già protagonista di un articolo di qualche giorno fa. A questo punto, quasi come in una fiaba di Hoffmann, uno spiritello invisibile e notturno mi ha suggerito di riprendere tra le mani “La sonata a Kreutzer” di Lev Tolstòj, che avevo letto alcuni anni fa, e di ascoltarmi la sonata di Beethoven nota come “a Kreutzer”*, cosa che ho prontamente fatto, perché ho appreso che quando gli spiritelli notturni sono arguti e di pronta intelligenza non bisogna farsi sfuggire certi preziosi suggerimenti.

Non proverò a “recensire” il libro perché oggi sono un po’ pigro e perché questo racconto, pur nella sua mole non eccessiva, ha in sé tanti spunti, che sarebbe riduttivo scriverne qui. Per esempio, si parla di gelosia, di emancipazione femminile, di rapporti di coppia burrascosi, di amore sublime e amore carnale, di castità e d’intemperanza, d’interruzioni di gravidanza. Tolstòj non mi trova per nulla d’accordo su alcune tesi di fondo da lui stesso specificate nella postfazione al libro, ma ciò non toglie che questo suo racconto si è meritato ampiamente la rilettura.

Tornando alla rubrica, uno dei temi del racconto è anche il terribile potere seduttivo della musica. Non a caso “La sonata a Kreutzer”, che dà il titolo al libro stesso, è decisiva nello sviluppo della storia narrata. Non anticipo nient’altro per non togliere il gusto a chi non avesse letto il libro.

Qui sotto, invece, pubblico la sonata di Beethoven**, che non avevo mai ascoltato prima che lo spiritello me lo fischiettasse all’orecchio, facendomi gradito dono di questa scoperta. Più sotto ancora, un breve estratto dal libro di Tolstoj.

“ – Suonarono la Sonata a Kreutzer di Beethoven. Conoscete il primo “presto”, gridò. – Oh!…è una cosa tremenda questa sonata. E soprattutto la prima parte. La musica in genere è una cosa tremenda. Che cos’è? Non lo capisco. Che cos’è la musica? Che cosa fa? E perché fa quello che fa? Dicono che la musica elevi lo spirito…sciocchezze, non è vero! Esercita una grande influenza, parlo per me, però non eleva certo lo spirito. Non eleva, né umilia lo spirito, lo eccita, piuttosto. Come dire? Continua a leggere…

Il maestro di Vigevano (Lucio Mastronardi)

“È arrivato venerdì. Lo detesto questo giorno; anzi, detesto la sera del venerdì. Ogni sera mi vado a intrattenere un’ora al caffè, gioco a scopa coi miei amici. Al venerdì non posso andarci: Ada vuole andare al cinema e devo accompagnarla.

Ho guardato la pellicola pensando alla scopa. Il film trattava di una donna di provincia, che fugge a Parigi e riesce a diventare l’amante di pezzi grossi. Durante gli intervalli Ada mi guardava con un’aria provocante. Il marito della donna del film era un impiegato modesto; l’ambiente dove si svolgevano le scene di provincia assomigliava a Vigevano. Una piazza nel centro, quelle facce di abitudinari, quell’aria sonnolenta che hanno i piccoli borghesi di provincia, con quelle sfumature di presunzione e di distacco che mi si svelavano dinanzi. Quell’impiegato borghese potevo essere io. Seguivo il film col fiato sospeso, come si trattasse di un giallo. Il film metteva in risalto i miei difetti, le mie abitudini, il catrame. E le ambizioni soffocate di Ada.

Sentivo il suo sguardo bucare l’oscurità della sala.

– Questo sei tu – sembrava dicessero i suoi occhi. – E quella sei tu – le rispondeva il mio sguardo.

– No – rispose lei.

L’epilogo del film era una cosa scontata. La moglie fa le corna al marito, il quale continua nelle sue abitudini provinciali.

Mi sembrava di avvertire un presagio. – Questo film è un avvertimento – mi diceva una voce dentro.

Guardai Ada e la sua faccia ormai amorfa, né brutta né bella, mi tranquillizzò.

– Devo liberarmi dalle abitudini – pensai uscendo dalla Piazza.”

(Lucio Mastronardi, “Il maestro di Vigevano”)

Avevo visto e apprezzato il film di Elio Petri, con Alberto Sordi nelle vesti di Antonio Mombelli, ma non avevo ancora letto il libro di Mastronardi. Lasciando da parte il confronto tra film (molto bello, comunque) e libro, devo dire che “Il maestro di Vigevano” a me è parso un gran libro, uno spaccato della vita provinciale per molti versi attuale.

Il romanzo è scritto in forma diaristica, è il maestro Antonio Mombelli a narrarci le sue vicende. Il passaggio che ho riportare contiene in sé alcuni elementi chiave del romanzo. Innanzitutto, il riferimento al carattere abitudinario della vita “di provincia”, che Mastronardi, con efficace immagine evocativa, denomina “catrame”. L’esistenza del maestro Mombelli scorre in maniera ripetitiva e priva di sussulti, ma lui, pur certo non esaltato, accetta tutto, accontentandosi di un lavoro sicuro, grazie al quale, secondo i suoi piani, potrà invece garantire al figlio Rino un avvenire più radioso del suo. Sua moglie Ada, invece, Continua a leggere…

L’inespresso (H. James, W. Faulkner, Totò, Marlene kuntz e chi più ne ha più ne metta)

Sto leggendo “La bestia nella giungla” di Henry James. Ho la sensazione che mi dedicherò anche ad altre sue opere, perché mi sta “prendendo”. Forse scriverò qualcosa su quello che sto leggendo, intanto però ne riporto un passaggio. Mentre leggevo le parole di James, mi sono tornate in mente una frase di Faulkner e una scena tratta da “Che cosa sono le nuvole” di Pasolini. I due libri e il filmato probabilmente non hanno granché ad accomunarli. Nello specifico, però, ciascuno dei tre fa riferimento a qualcosa di vago, indefinito, inespresso, un ‘qualcosa’ che talvolta sentiamo ma che non riusciamo a esprimere, oppure che non ‘vogliamo’ esprimere perché ci fa paura pronunciare certe parole che renderebbero ‘reale’ ciò che ci piace conservare come sola sensazione, o ancora che è meglio non esprimere, perché una volta espresso quel ‘qualcosa’ perirebbe all’istante.

P.s.: dopo aver scritto quanto sopra mi è venuta in mente anche “Canzone ecologica” dei Marlene Kuntz. La aggiungo in coda. Poi mi fermo, altrimenti di questo passo quest’articolo, nato per essere breve, diventa un poema.

Lei non voleva dire quello che tutti e due sapevamo. “La ragione per cui non lo vuoi dire è che quando lo dici, anche a te stessa, dopo saprai che è vero. Perché non vuoi dirlo, neanche a te stessa?”. Lei non vuole dirlo.

(W. Faulkner, “Mentre morivo”).

“Beh, pensavo fosse proprio questo il punto a cui volete arrivare…il fatto che non abbiamo mancato di guardare in faccia praticamente ogni cosa.”

“Compresi noi due, l’uno con l’altra?”, May sorrise di nuovo. “Ma avete ragione voi. Ci siamo sempre scambiati grandi fantasie, spesso grandi paure; ma molte altre sono rimaste inespresse.”

“Allora, il peggio…quello non l’abbiamo affrontato. Per quel che mi riguarda, ritengo di poterlo affrontare solo se sapessi quale pensate che sia. Mi sento”, spiegò Marcher, “come se avessi perduto la capacità di concepire simili cose.” E si domandò se davvero appariva confuso come lui si sentiva. “Come se si fosse esaurita…”

“Perché allora date per scontato”, chiese lei, “che la mia non lo sia?”

“Perché mi avete dato le prove del contrario. Perché non è questione di concepire, di immaginare, di confrontare. Non si tratta ora di scegliere.” E infine si decise a parlare chiaro. “Voi sapete qualcosa che io non so. Me l’avete lasciato intendere prima.” Continua a leggere…

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