Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

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“Monsieur Verdoux”, la Crisi e il cubo di Rubik inopportuno.

Trascrivo qui, riadattato e modificato, quello che doveva essere un discorso introduttivo alla visione di “Monsieur Verdoux” di Charlie Chaplin, nell’ambito della rassegna cinematografica “Krisis, tra filosofia, estetica, sopravvivenza e fantascienza”, organizzata nel mio paese da alcuni miei amici, uno dei quali ha chiesto anche a me di dire qualcosa sul tema della “crisi” e sul film.

Specifico che un altro mio amico ha affrontato, contestualmente, questo tema sotto il profilo storico (crisi del 1929 rapportata a quella attuale) e poi ci ha parlato di “Guernica” di Picasso. Specifico che sulla resa orale del testo riportato non oso azzardare un giudizio su me stesso, ma sono certo (non avendo portato con me un promemoria) di aver omesso, aggiunto, modificato gran parte di quanto avevo preparato. Specifico inoltre che tutto quanto segue è frutto solo di una ricerca appassionata e che non sono uno studioso né di letteratura né di cinema né, soprattutto, di storia, ma un semplice lettore curioso.

Non specifico più nulla e vi lascio, ammesso che non vi siate già stufati, ai miei deliri.

1. LA LETTERATURA DELLA CRISI

“Crisi” è una parola che negli ultimi anni abbiamo ascoltato o letto chissà quante volte nei telegiornali, nei quotidiani, su internet o anche semplicemente per strada. Come tutte le parole, quando sono abusate, rischiano di veder il loro significato sminuito. “C’è la crisi” è diventato uno slogan molto in voga, talvolta persino un alibi. Ora, a livello macroscopico, di grandi numeri, sono gli analisti, gli economisti, gli esperti a ciò preposti a spiegarci, con termini spesso molto tecnici, cosa significa una crisi economica (a tal proposito segnalo, per esempio, le pagine sul sito Treccani sulla crisi del 1929, con qualche riferimento all’attuale).

A livello individuale, però, non c’è bisogno dei suddetti esperti. Ciascuno di noi percepisce sulla propria pelle la difficoltà e talvolta si definisce in crisi. La crisi, il clima generale di sfiducia, di perdita di aspettative nel futuro, la sentono i singoli individui; i numeri sui milioni di disoccupati c’impressionano, ma ancora di più ci colpisce vederla sul volto di un nostro conoscente soprattutto siamo colpiti quando noi, in prima persona, perdiamo certezze, di qualsiasi tipo esse siano.

È banale, ma forse non superfluo, ricordare che la questione “crisi” è molto soggettiva. C’è chi si lamenta che la crisi economica è grave perché non può concedersi quattro cocktail la sera al bar e chi, purtroppo, ha ben altri e più drammatici problemi. C’è chi, poi, non sa nemmeno quale sia la differenza tra un periodo di crisi e uno senza, o perché talmente benestante da non risentirne o perché, al contrario, non ha tempo per disquisizioni come questa ed è impegnato a sopravvivere. Su questo, non ritengo sia necessario aggiungere altro.

La crisi non è una parola legata solo a incertezze finanziarie, che semmai possono enfatizzare altri tipi di crisi. Mi riferisco a situazioni che tutti voi avrete, chi più chi meno, provato. Crisi sentimentali, relative a scelte da compiere, a rapporti sociali di vario genere, o anche, potrebbe capitare, la crisi di chi va nel panico durante un intervento in pubblico e non sa più cosa dire.

(a questo punto, in realtà, nel mio discorso orale s’è inserita una grossa parentesi, che in parte ha “mangiato” tutto la parte del discorso che segue, riprendendone alcuni spunti, ma più che altro cestinando i riferimenti letterati che avevo preparato; in sostanza, ho tirato fuori un’assurda riflessione scaturita quasi al momento dell’inizio del discorso, causata dalla visione del cubo di Rubik. Continua a leggere…

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“Il libro dell’inquietudine” (Fernando Pessoa)

Il libro dell'inquietudine

“Ci sono giorni nei quali ogni persona che incontro e, ancor di più, le persone abituali della mia convivenza obbligata e quotidiana, assumono aspetti di simboli e, isolati o fra loro connessi, formano un alfabeto profetico od occulto che descrive in ombre la mia vita. L’ufficio diventa per me una pagina con parole fatte di gente; la strada è un libro; le parole scambiate con i conoscenti o gli sconosciuti che incontro sono espressioni per le quali viene meno il dizionario ma non completamente la comprensione. Parlano, si esprimono; eppure non parlano di se stesse e non esprimono se stesse; sono parole, ho detto, e non indicano, lasciano solo intendere. Ma, nella mia visione crepuscolare, distinguo solo vagamente quanto queste vetrate, che si rivelano sulla superficie delle cose, lasciano trasparire dalla loro interiorità che custodiscono e rivelano. Intendo senza arrivare alla coscienza, come un cieco al quale si parli di colori.

A volte, passando per la strada, colgo brani di conversazioni intime, e si tratta quasi sempre di conversazioni sull’altra donna, sull’altro uomo, sul ragazzo di uno o sull’amante dell’altro…

Per il solo fatto di sentire queste ombre di discorso umano, che poi in fondo è tutto ciò di cui si occupa la maggioranza delle vite coscienti, porto dentro di me un tedio disgustato, l’angoscia di un esilio tra ragni e l’immediata consapevolezza della mia umiliazione fra gente reale; la condanna, nei confronti del proprietario e del luogo, di essere simile agli altri inquilini dell’agglomerato; di stare a spiare con disgusto, fra le sbarre del retrobottega, l’immondizia altrui che si ammucchia sotto la pioggia in quel cortile interno che è la mia vita”

(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine).

Dopo aver reso parziale giustizia a Joyce, assente di lusso da queste mie pagine, stavolta mi dedico a Fernando Pessoa e al suo “Il libro dell’inquietudine”, capolavoro che lessi tanti anni fa in uno stato d’animo fin troppo predisposto ad assorbire le parole del grande scrittore portoghese. La rilettura che ho appena terminato mi ha permesso di apprezzare ancora di più il libro, proprio perché meno schiavo di certi pensieri mesti che mi avevano avvinghiato al testo di Pessoa.

Nella prefazione al libro, il compianto Antonio Tabucchi, traduttore nonché tra i principali divulgatori dell’opera di Pessoa, spiega il titolo originale dell’opera, “Livro do desassossego por Bernardo Soares” come indicativo della mancanza di sossego, cioè tranquillità o quiete. Lo stesso Tabucchi evidenzia come “Il libro dell’inquietudine”, in qualsiasi versione lo abbiate nelle vostre mani, debba essere considerato un libro potenziale, ipotetico, un’opera aperta, ricostruita secondo determinati criteri dagli esegeti di Pessoa, Continua a leggere…

Kafka era abbastanza kafkiano.

Kafka era un tipo abbastanza kafkiano, su questo non ho molti dubbi. Qualcuno in più, lo confesso, lo avevo su una questione grammaticale all’apparenza ovvia ma che mi ha procurato grattacapi e che soprattutto, una volta risolta, e ammesso che sia stata risolta, mi ha indotto a riflessioni dalla dubbia utilità ai fini della mia esistenza, ma che pure hanno avuto luogo. Sappiate, amabili lettori (la captatio benevolentiae ogni tanto è necessaria), che tanti anni fa ero solito scrivere la locuzione “sé stesso” nella maniera in cui l’ho appena scritta. Per motivi che non sto qui a spiegarvi, mi accorsi che quelle due parole risultavano troppo spesso accostate l’una all’altra in alcuni miei scritti e ben prima che potessi porre rimedio arrivò Nemesi, sotto forma di un’autorevole fonte grammaticale che mi suggerì, nell’orecchio, di evitare l’accento su “sé” quando tale parola è seguita da “stesso” o “medesimo”. Ingenuo come un bimbo, appurato che la fonte (non mi chiedete qual è, ma vi assicuro che era un dizionario o qualche sito specializzato in materia) era accreditata, decisi che avrei mutato tutti i “sé stesso” in “se stesso” (“sé medesimo” non l’ho mai usato, indagherò anche su questa forma di razzismo nei confronti della parola “medesimo”).

Presi, allora, il vizietto di scrivere “sé”, in maniera corretta, quando non fosse seguito da “stesso” e “se” quando invece “stesso” decideva di accodarsi all’amico. Ora, non la faccio tanto lunga anche perché il cuore dell’articolo doveva essere altro. Qualche giorno fa ho scoperto, sul sito della crusca, quanto segue: “Alcuni, quando il pronome è seguito da stesso e medesimo, tralasciano di indicare l’accento, perché in questo caso il se pronome non può confondersi con se congiunzione: se stesso, se medesimo. Noi, però, consigliamo di indicare l’accento anche in questo caso, e quindi di scrivere sé stesso, sé medesimo.” Continua a leggere…

“Il libro dell’inquietudine” (Fernando Pessoa)

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“Ci sono giorni nei quali ogni persona che incontro e, ancor di più, le persone abituali della mia convivenza obbligata e quotidiana, assumono aspetti di simboli e, isolati o fra loro connessi, formano un alfabeto profetico od occulto che descrive in ombre la mia vita. L’ufficio diventa per me una pagina con parole fatte di gente; la strada è un libro; le parole scambiate con i conoscenti o gli sconosciuti che incontro sono espressioni per le quali viene meno il dizionario ma non completamente la comprensione. Parlano, si esprimono; eppure non parlano di se stesse e non esprimono se stesse; sono parole, ho detto, e non indicano, lasciano solo intendere. Ma, nella mia visione crepuscolare, distinguo solo vagamente quanto queste vetrate, che si rivelano sulla superficie delle cose, lasciano trasparire dalla loro interiorità che custodiscono e rivelano. Intendo senza arrivare alla coscienza, come un cieco al quale si parli di colori. Continua a leggere…

Lucida ebbrezza o ebbra lucidità (da Baudelaire a Don Chisciotte)

– T’invidio, hai un’enorme lucidità – mi disse.

– Osservo le persone, ma non sono lucido. Senza esperienze non si può essere lucidi.

– Io sono stato distrutto da un’esperienza, tu non ancora – sorrise amaramente.

Eravamo su sponde opposte del medesimo errore. Lui la chiamava lucidità, io inesperienza. Io la chiamavo esperienza, lui fallimento.

Alla voce “lucidità”, il vocabolario della Treccani online riporta la seguente definizione: s. f. [der. di lucido]. L’aspetto di una superficie lucida, lucidezza. Più spesso fig., chiarezza, limpidezza d’idee: esaminare una questione, esporre un piano con grande l.; conservare, riacquistare, perdere la propria l. di mente; cancellò ogni possibilità di valutare con l. l’episodio l. della coscienza, lo stato normale della coscienza. Con riguardo alla mente e alla coscienza è usato anche assol.: nei momenti di l. (riferito a persone assenti, o che soffrono di problemi psichici, o che sono in punto di morte).

Lui m’invidiava la lucidità, o quella che a lui appariva tale. Io non solo non mi sentivo lucido, tutt’al più attento, ma negli anni a seguire mi sarei chiesto spesso a cosa potesse servirmi l’eventuale stato di lucidità.

Baudelaire, chiamato a consigliere speciale, mi avrebbe detto di lasciarla stare, la lucidità. Forse conoscete il capitolo XXXII de “Lo Spleen di Parigi”, intitolato “Ubriacatevi”. L’inizio ci dice che “bisogna sempre essere ebbri. Ecco tutto: è l’unica questione. Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che spezza le vostre spalle e vi piega verso terra, dovete ubriacarvi senza tregua”, e poi il finale esorta il nostro stomaco a farsi forza, perché “è l’ora di ubriacarsi, per non essere schiavi martirizzati dal Tempo, ubriacatevi; ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia, o di virtù, a vostro piacimento”. Ecco, questa frase finale, ci aiuta a capire che Baudelaire non sta spingendoci verso l’alcolismo puro, bensì propone anche forme diverse di ubriacatura, lasciando a noi la scelta di come allontanarci dal fardello del Tempo.

La lucidità questo fardello lo fa sentire, non c’è dubbio su questo. È anche vero, d’altra parte, che non si può esistere in uno stato di perenne ubriachezza, fosse anche di peosia. Sarete d’accordo che qualche momento di lucidità o pseudo-tale* ce lo dobbiamo anche concedere, se non altro perché non siamo soli sulla terra, e a meno di decretare un improbabile stato d’ubriachezza collettiva perenne, dobbiamo tenere conto di questa “sottigliezza”. Ricordo, a proposito di rapporti tra noi e gli altri, un altro episodio della mia esistenza, relativo al Capodanno di alcuni anni fa. Dovete sapere che fino a qualche anno fa ero astemio, poi feci conoscenza con le bevande, ma prima di apprendere a gestirle, passai un capodanno in uno stato non propriamente lucido (eufemismo). Ricordo, di quella sera, vari dettagli che vi risparmio, ma soprattutto la frase che rivolsi a un mio amico: “La lucidità è importante. Bisognerebbe restare sempre lucidi”. Considerate le circostanze, la cosa suonava abbastanza comica.

La lucidità è la ferita più prossima al sole”, scriveva René Char.  Una ferita, certa, ma prossima al sole. Non so voi, ma io se provo a guardare fisso il sole non me la passo tanto bene. Mi ferisco, ecco. Pavese scrisse che “un bambino non beve perché non ha paura della morte”, dal che se ne deduce che per lui la lucidità avesse implicazioni abbastanza pesanti. Se ne deduce anche che fino a pochi anni fa, siccome non bevevo, ero un bambino, ma forse questo è un sillogismo imperfetto. Piuttosto, possiamo intuire come si sentisse Pessoa quando scriveva “oggi mi sento lucido come se non esistessi”.

A volte si sente un bisogno impellente di perdere la propria lucidità, di darsi in pasto alla propria parte “irrazionale”** e dare ragione a Baudelaire. Continua a leggere…

Moby Dick (Melville, Led Zeppelin, Pavese e la balena)

(“Punti di tangenza”). Mi ricordo che mi avvicinai a “Moby Dick” di Melville solo grazie a uno scritto di Cesare Pavese, che se non erro fu il primo a tradurlo in italiano. Prima di allora, non so per quale motivo, non ero stato attratto dalla prospettiva di imbarcarmi nelle acque insieme al capitano Achab per dare la caccia alla gigantesca balena che ci spaventa. La canzone dei Led Zeppelin, invece, la scoprii successivamente, con sommo ritardo. Penso che il titolo sia ispirato al romanzo, anche se non ho certezze al riguardo. In ogni caso, anche se così non fosse, il fatto che la canzone sia strumentale ben si adatta a una lettura e a una navigazione più o meno agitata, questo dipende dai momenti dell’esistenza di ciascuno di noi.

Aggiungo che fino a qualche tempo fa il brano dei Led Zeppelin era anche la sigla del programma “Moby Dick” in onda su Radio 2, condotto da Silvia Boschero e che vi consiglio calorosamente qualora non lo conosciate.

“E’ un modo che ho di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in strada gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che io nutro verso l’oceano”.

 (Herman Melville, Moby Dick).

Qual è il posto più strano in cui l’avete letto? (Il Kamasutra del lettore)

Questo articolo prende spunto da quello intitolato “I miei 35 motivi per amare la Letteratura”.

Ho pensato ad alcune situazioni della mia esistenza, accomunate tutte dal fatto che avevo un libro tra le mani e che lo stavo leggendo. Non dico che fossero situazioni “strane”, perché i concetti di “stranezza” e di “normalità” sono abbastanza discutibili, tuttavia si trattava certamente di situazioni per me insolite.

Via con l’elenco, stilato facendo ricorso alla mia labile e istintiva memoria. A ciascuna situazione ho cercato di abbinare un libro, che non è quello che stavo leggendo in quel momento (mi preoccuperei se ricordassi anche questo). Non escludo di aggiornare in seguito la lista. E voi, dove l’avete letto? In che posizione del vostro “Kamasutra” da lettore vi siete esibiti?

Quando lavoravo a Trastevere, prendevo ogni mattina il bus “H”, da Termini. Il quarto d’ora che passavo lassù lo spendevo ascoltando musica o leggendo un libro, oltre che per guardare Via Nazionale e le altre meraviglie di Roma. Un giorno ero appoggiato a un finestrino e stavo leggendo. C’era la solita calca, ma riuscivo a estraniarmi dal contesto e leggevo. Notai, accanto a me, un signore in abito elegante, giacca e cravatta. Mi attirò perché credevo che mi avesse rivolto la parola. Ben presto mi accorsi che parlava da solo. Più precisamente, recitava la parte di due personaggi, uno pessimista, disfattista, l’altro propositivo. Il “dibattito” dell’uomo con se stesso, che si svolgeva abbastanza ad alta voce, proseguì per tutta Via Nazionale, fino a Piazza Venezia. Poi l’uomo scese, gesticolando. In mano aveva una valigetta. Mi chiesi dove fosse diretto, magari in qualche ufficio, laddove avrebbe indossato una terza personalità. Ripresi a leggere.

L’estate scorsa decisi di rileggermi tutto Kafka, ma proprio tutto, dai romanzi ai racconti di una pagina. Il fatto è che l’estate scorsa è stata anche quella che più mi ha visto sulle spiagge. Leggersi “Il castello” al mare è stata un’esperienza particolare. Non tanto perché avevo a disposizione cinque centimetri quadrati per posizionarmi; nemmeno perché fossi distratto dalle chiacchiere dei vicini d’ombrellone; e neanche, infine, perché fanciulle più o meno scolpite nella roccia e abbronzate come Briatore potessero mettere in difficoltà i miei ormoni. L’ostacolo più grave da superare era di altra natura. Leggere Kafka al mare è possibile, leggere Kafka al mare quando ci sono 40 gradi comincia a essere più arduo. Più o meno alla fine di ogni due pagine, circa un litro di sudore andava disperso nella sabbia. Ben presto mi accorsi che la passione per la letteratura doveva lasciare spazio alla passione per la vita. In altre parole, capii che non potevo rischiare la disidratazione, pur con tutto l’affetto per Franz. Chiusi le pagine e mi gettai tra le braccia di Poseidone. Continua a leggere…

Pessoa e le lettere

Fernando Pessoa è noto anche perché espresse la sua poetica sotto svariati eteronimi, basti ricordare Ricardo Reis, Alvaro de Campos, Bernardo Soares e Alberto Caeiro. Biografie e personalità distinte ma in ultimo tutte facenti capo a lui. Roberto Vecchioni ha dedicato la canzone che riporto sotto, “Le lettere d’amore”, al poeta portoghese, riportando sostanzialmente per intero la poesia “Tutte le lettere d’amore” e aggiungendo altri versi sul distacco dalla realtà e il delirante mondo delle personalità multiple di Pessoa.

Più sotto, riporto un brano a mio avviso particolarmente significativo di Pessoa, tratto da “Il libro dell’inquietudine” (di Bernard Soares).

Qui, invece, cliccando sul link evidenziato in rosso, potrete ascoltare Vecchioni che parla di Pessoa.

“Ci sono giorni nei quali ogni persona che incontro e, ancor di più, le persone abituali della mia convivenza obbligata e quotidiana, assumono aspetti di simboli e, isolati o fra loro connessi, formano un alfabeto profetico od occulto che descrive in ombre la mia vita. L’ufficio diventa per me una pagina con parole fatte di gente; la strada è un libro; le parole scambiate con i conoscenti o gli sconosciuti che incontro sono espressioni per le quali viene meno il dizionario ma non completamente la comprensione. Parlano, si esprimono; eppure non parlano di se stesse e non esprimono se stesse; sono parole, ho detto, e non indicano, lasciano solo intendere. Ma, nella mia visione crepuscolare, distinguo solo vagamente quanto queste vetrate, che si rivelano sulla superficie delle cose, lasciano trasparire dalla loro interiorità che custodiscono e rivelano. Intendo senza arrivare alla coscienza, come un cieco al quale si parli di colori.

A volte, passando per la strada, colgo brani di conversazioni intime, e si tratta quasi sempre di conversazioni sull’altra donna, sull’altro uomo, sul ragazzo di uno o sull’amante dell’altro…

Per il solo fatto di sentire queste ombre di discorso umano, che poi in fondo è tutto ciò di cui si occupa la maggioranza delle vite coscienti, porto dentro di me un tedio disgustato, l’angoscia di un esilio tra ragni e l’immediata consapevolezza della mia umiliazione fra gente reale; la condanna, nei confronti del proprietario e del luogo, di essere simile agli altri inquilini dell’agglomerato; di stare a spiare con disgusto, fra le sbarre del retrobottega, l’immondizia altrui che si ammucchia sotto la pioggia in quel cortile interno che è la mia vita”

 (Fernando Pessoa, “Il libro dell’inquietudine”).

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