
“Tutto procedeva regolarmente. Ma, su una cert’ora del primo dopopranzo, mentre Bella faceva la siesta, Ida sorprese Useppe rincantucciato in terra poco più in là, addosso al muro del corridoio. Sul principio, a sogguardarlo, le parve soltanto ingrugnato; ma come gli si accostò, si accorse che piangeva, con la faccetta chiusa come un pugno, contratta e raggrinzata in tante rughe. Al guardare in su verso di lei, subitaneamente proruppe in singhiozzi asciutti. E con lo stupore di una bestiola, disse in una voce disperata:
– A mà…pecché?
In realtà, questa sua domanda non pareva rivolgersi proprio a Ida là presente: piuttosto a una qualche volontà assente, immane, e inspiegabile. Ida invece di nuovo s’immaginò che lui l’accusasse per averlo rinchiuso dentro casa a tradimento; ma presto nei seguenti giorni dovette convincersi che tale spiegazione non bastava. Quella domanda: pecché? era diventata in Useppe una sorta di ritornello, che gli tornava alle labbra fuori tempo e fuori luogo, forse per un movimento involontario (se no, si sarebbe preoccupato di pronunciarla bene con la erre). Lo si sentiva a volte ripeterla fra sé in una sequela monotona: pecché? pecché pecché pecché pecché? Ma per quanto sapesse d’automatismo, questa piccola domanda aveva un suono testardo e lacerante, piuttosto animalesco che umano. Ricordava difatti le voci dei gattini buttati via, degli asini bendati alla macina, dei caprettini caricati sul carro per la festa di Pasqua. Non si è mai saputo se tutti questi pecché innominati e senza risposta arrivino a una qualche destinazione, forse a un orecchio invulnerabile di là dai luoghi”. Continua a leggere…
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