Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per la categoria “Kafka”

Kafka, 7 febbraio 1915

Kafka

“7 febbraio 1915. Completo arresto. Tormenti senza fine.
A un certo livello della conoscenza di se stessi, e quando ci siano circostanze favorevoli all’osservazione, avverrà regolarmente che uno si veda abominevole. Ogni misura del bene – per quanto le opinioni in proposito siano diverse – sembrerà troppo grande. Si comprenderà che non siamo se non una topaia di miserabili riserve mentali. Neanche l’atto meno importante sarà privo di questi pensieri segreti. Ed essi saranno così sporchi che nel momento di osservare se stesso uno non vorrà neanche pensarli, ma si accontenterà di guardarli da lontano. A proposito di questi pensieri reconditi, non si tratterà soltanto di egoismo: questo sembrerà di fronte ad essi un ideale del bene e della bellezza. Il sudiciume che si troverà ci sarà per se stesso, e si riconoscerà che siamo venuti al mondo grondanti di questo peso e per esso ce ne andremo irriconoscibili o troppo bene riconoscibili. Questo sudiciume sarà il fondo più basso che si possa trovare e questo fondo non conterrà lava, ma sporcizia. Sarà il più basso e il più alto e persino i dubbi dell’osservazione di sé saranno presto deboli e compiaciuti di sé come il barcollare d’un porco nel brago.”
(Franz Kafka, “Confessioni e diari”, ed. Arnoldo Mondadori editore)

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“Il gaucho insopportabile” (Roberto Bolaño)

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“Scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che stanno per morire. Scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che sono in prigione e negli ospedali. Gli impotenti l’unica cosa che vogliono è scopare. I castrati l’unica cosa che vogliono è scopare. I feriti gravi, i suicidi, i seguaci irredenti di Heidegger. Perfino Wittgenstein, che è il più grande filosofo del Novecento, l’unica cosa che voleva era scopare. Perfino i morti, ho letto da qualche parte, l’unica cosa che vogliono è scopare. È triste doverlo ammettere, ma è così.”

“Racconta Canetti nel suo libro su Kafka che il più grande scrittore del Novecento capì che i suoi dadi erano tratti e che nulla ormai lo separava più dalla scrittura il giorno in cui per la prima volta sputò sangue. Che cosa intendo dire quando dico che nulla ormai lo separava più dalla sua scrittura? Sinceramente, non lo so bene. Intendo dire, suppongo, che Kafka capiva che i viaggi, il sesso e i libri sono strade che non portano da nessuna parte, eppure sono strade su cui bisogna spingersi e perdersi per ritrovarsi o per trovare qualcosa, qualunque cosa, un libro, un gesto, un oggetto perduto, per trovare qualunque cosa, forse un metodo, con un po’ di fortuna il nuovo, quello che è sempre stato lì.”

(Roberto Bolaño, “Il gaucho insopportabile”, ed. Adelphi)

Il deliquio d’amore di K. e Frieda

(Qui è quando K. e Frieda si unirono in un “deliquio d’amore”, nella locanda, dove quella sera pare, ma non è certo, suonassero i Rolling Stones.)

“- Mio dolce tesoro! – sussurrò, – ma non toccò affatto K., come in un deliquio d’amore stava sdraiata sulla schiena con le braccia allargate, il tempo si schiudeva infinito dinanzi al suo amore felice, più che cantare sospirò una canzoncina. Poi si riscosse, poiché K. rimaneva in silenzio assorto nei suoi pensieri, e come una bambina cominciò a dargli strattoni: – Vieni, qui sotto si soffoca.

Si abbracciarono, il piccolo corpo ardeva sotto le mani di K., in uno stato di inconsapevolezza cui K. tentava continuamente ma invano di sfuggire, avanzarono voltolando per un breve tratto, urtarono con un tonfo sordo contro la porta di Klamm e poi rimasero distesi tra le piccole pozze di birra e le altre immondizie di cui era cosparso il pavimento. Lì trascorsero ore, ore di comune respiro, di comune pulsare del cuore, in cui K. aveva costantemente la sensazione di smarrirsi o di essersi tanto inoltrato in un luogo estraneo quanto ancora non si era inoltrato nessuno prima di lui, un luogo estraneo, nel quale persino l’aria non aveva alcun elemento in comune con l’aria di casa, nel quale si era condannati a soffocare per l’estraneità ma tra le cui assurde seduzioni non si poteva far altro che proseguire ancora, smarrirsi ancora.”

(Franz Kafka, “Il castello”, ed. Einaudi)

Bernhard sulla rilettura

(Sto rileggendo Bernhard e trovo questo suo passaggio sul valore della rilettura. Bene.)
“Ci sono scrittori, avevo detto a Gambetti, che entusiasmano il lettore, quando li legge per la seconda volta, in misura assai più grande della prima volta, con Kafka mi accade ogni volta. Conservo Kafka nella memoria come un grande scrittore, avevo detto a Gambetti, ma rileggendolo ho avuto assolutamente l’impressione di averne letto uno ancora più grande. Non sono molti gli scrittori che alla seconda lettura diventano più importanti, più grandiosi, la maggior parte di loro li leggiamo per la seconda volta vergognandoci di averli letti anche una sola volta, ci accade con centinaia di scrittori, non con Kafka e non con i grandi russi Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Lermontov, non con Proust, con Flaubert, con Sartre, che annovero tra i più grandi. Trovo non sia male il metodo di leggere una seconda volta gli scrittori che abbiamo letto una volta e ci hanno segnato, perché a quel punto o sono quelli ancora più grandi, ancora più importanti, oppure non val più la pena di parlarne. In questo modo evitiamo di portarci in testa per tutta la vita un’immensa zavorra di letteratura, che alla fine fa ammalare, ammalare a morte questa nostra testa, avevo detto questo a Gambetti al Pincio.”
(Thomas Bernhard, “Estinzione”, ed. Adelphi)

“Un individuo nudo tra individui vestiti” (Milena su Kafka)

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“Franz non ha la capacità di vivere, Franz non guarirà mai, Franz morirà presto. Certo è che tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo o in qualcos’altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo, è assolutamente incapace di mentire, com’è incapace di ubriacarsi, è senza il minimo rifugio, senza un ricovero, perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti.”

(estratto da una lettera di Milena Jesenská a Max Brod, amico e poi biografo di Franz Kafka)

La foto mi sembra un fotomontaggio, ma non so. Spero che almeno lei sia Milena Jesenská.

Il testo è tratto dalla trasmissione “Carteggi” di Radio 6 Teca, i cui podcast sono disponibili qui: http://www.wr6.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-735b7366-1ef2-48d9-9d07-76126e40dca6.html

Io, Richard e Thomas

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“Noi sentiamo benissimo che la nostra saggezza comincia là dove finisce quella dello scrittore, e vorremmo che egli ci desse delle risposte, mentre tutto quanto egli può fare è solo d’ispirarci dei desideri”, così scriveva il grande Marcel Proust, che mi è venuto in mente, assieme ad altri, mentre leggevo “Libertà” di Jonathan Franzen, stamattina, seduto su una delle “mie” panchine nel parco del mio paese.

Leggevo Franzen e mi “vedevo”, mi “sentivo” leggere, m’interrogavo sul perché stessi leggendo, su cosa cercassi, su quale vuoto cercavo di riempire. Franzen mi piace, ho già letto “Le correzioni” in passato e “Libertà”, almeno fino a poco più di pagina 200, mi ha preso: una riflessione sulla parola “libertà” e le sue implicazioni, su quanto siamo davvero “liberi” e sulla corrispondenza tra i nostri princìpi e il nostro agire. Ma il punto non è questo. Il fatto è che mentre leggevo, sapevo di non avere granché in comune con i protagonisti, né con Patty, né con Walter, né soprattutto con il cantante rock Richard, rude con le donne eppure pieno di donne, un tipo con il quale, a pelle, non condividerei neanche una sera al pub. Dunque, mi domandavo “perché” restassi avvinto dalla narrazione, e la risposta era abbastanza evidente ma difficile da estrinsecare: non si tratta di Patty, di Walter, di Richard, forse si tratta più di Jonathan, dell’autore, ma in sostanza, si trattava e si tratta di me. Ha ragione Proust: lo scrittore non ci dà risposte, e sarebbe terribile se lo facesse, se relegassimo a lui ciò che spetta a noi.

Leggevo Franzen e, fermandomi, ripensavo ai grandi che da sempre leggo e rileggo, anch’essi privi di risposte definitive, eppure per me sempre fonte di nuove domande. Pensavo a Dostoevskij, a Kafka, a Pavese, a Camus, a Bernhard, alla lettura come rifugio, come apertura, come scandaglio per sondare ciò che c’è nel mio sottosuolo, a quella malsana idea di ritenere “un ideale di felicità” starmene per secoli seduto su una panchina a leggere, ad oltranza e in modo ossessivo, quei cinque, sei, dieci autori che riescono a scuotermi più di altri. Un’idea stupida come tante altre.

Insomma, a farla breve, a pagina 224 di “Libertà”, succede una cosa, una cosa stupida nel romanzo, ma una cosa che mi blocca, che mi dà i brividi, una cosa che avvicina me a Richard, il cantante odioso. È una cosa che gli fa fare Franzen, quindi io so che non è Richard a farla, bensì è Jonathan, oppure no, è qualcun altro che, in un altro angolo del mondo, sta prendendo in mano lo stesso libro che sto leggendo io, per motivi diversi, cercando risposte diverse e trovando solo desideri diversi. Insomma, anche Richard, come me, ammira Thomas Bernhard. Forse una bevuta al bar assieme a lui ora posso farla. Adesso so che avremmo almeno un argomento di conversazione. Però non so, parlare di libri con qualcuno è troppo pericoloso, non si sa mai come va a finire. Forse è meglio che Richard continui a suonare nel romanzo, a farsi inseguire dalla donne-oggetto che vogliono essere il suo oggetto, forse è bene che ciascuno di noi due si tenga il proprio Thomas Bernhard. Sì, sì, è meglio così.

A ciascuno il suo Bernhard, è davvero meglio.

“Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno”, ovvero guardando Kafka (Philip Roth)

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“Poi, al principio dell’estate del 1923, mentre è ospite della sorella in vacanza con i figli sul mar Baltico, trova la giovane Dora Dymant, e nel giro di un mese Franz Kafka se n’è andato a vivere con lei in due stanze di un sobborgo di Berlino, finalmente lontano dalle <<grinfie>> di Praga e di casa sua. Come può essere accaduto? Come può, lui, nella sua malattia, essere riuscito in modo così rapido e definitivo ad attuare quel commiato che gli è stato impossibile quando era in salute? L’appassionato epistolografo capace di cavillare interminabilmente su quale treno prendere per incontrarsi con Milena a Vienna (semmai davvero decidesse di incontrarla per il fine settimana); il corteggiatore borghese in colletto alto che, durante la prolungata agonia del fidanzamento con Fräulein Bauer, compila in segreto un memorandum in cui contrappone gli argomenti <<pro>> e <<contro>> il matrimonio; il poeta dell’inafferrabile e dell’irrisolto, le cui atroci visioni di sconfitta hanno al proprio cuore la fede nell’irremovibile barriera che separa la volontà dalla sua realizzazione; il Kafka la cui narrativa invalida qualsivoglia facile, commovente, umanisticheggiante sogno a occhi aperti di salvezza e giustizia e soddisfacimento, immaginando complessi che deridono qualunque soluzione o via d’uscita… questo Kafka sfugge. Da un giorno all’altro! K. penetra oltre le mura del castello, Joseph K. si sottrae alle accuse: <<Come aggirarlo, come vivere al di fuori del processo>>. Sì, l’eventualità di cui nel duomo Joseph K. ha appena un barlume, ma che non riesce a mettere in pratica – <<non già come si poteva influire sul processo, ma come si poteva evaderne>> – Kafka la vede realizzata nell’ultimo anno della sua vita.

È stata Dora Dymant o è stata la morte a indicare la nuova via? Forse l’una senza l’altra non avrebbe potuto essere.”

(Philip Roth, “Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno”, ovvero guardando Kafka, ed. Einaudi)

Questo scritto di poco più di 40 pagine, il cui titolo prende spunto da una frase contenuta nel racconto “Il digiunatore” di Kafka, è un omaggio che Philip Roth fa allo scrittore praghese, incrociando le vicissitudini familiari/sentimentali di questo con le proprie. Nella seconda parte, infatti, immagino uno scenario con Kafka sopravvissuto alla malattia e allo sterminio nazista, divenuto professore e alle prese con un invito a cena durante il quale fargli conoscere una zia del bambino-allievo Roth.

Nella prima parte, più interessante ai miei occhi, Roth, sia pure in pochissime pagine, riassume l’angoscia che caratterizzò le relazioni di Kafka con Felice e con Milena, evidenziando come, invece, l’incontro con la giovane Dora Dymant avesse rappresentato, proprio nel corso dell’ultimo anno di vita di Kafka, l’occasione per fuggire da Praga, dalla gabbia familiare e da sé stesso. Un Kafka, insomma, che proprio in vista della morta, sembra (sembra) quasi assaporare, cosa per lui prima impossibile, il piacere e la libertà di amare.

“Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento” (Giuseppe Di Giacomo)

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“Se gli eroi del romanzo ottocentesco lottano per far trionfare il senso, la totalità, sul non-senso del mondo (il mondo abbandonato da dio), Dostoevskij coglie il senso nel cuore stesso del non-senso. Per l’uomo di Dostoevskij tutto è nello stesso tempo senso e non-senso. Per questo in Dostoevskij c’è salvezza nell’abiezione estrema. Ogni tentativo di spiegare il personaggio, di ricondurlo a una logica coerenza, è vanificato: non c’è un ‘fuori’ dal quale il personaggio, e il lettore con lui, possa vedere e vedersi, distinguendo il senso dal non-senso, e superare così la sua fondamentale paradossalità; né si offre al personaggio alcuna possibilità di conoscersi, alcuna coscienza dei propri movimenti interni. Questi ultimi si producono infatti senza che nessuna spiegazione possa connetterli tra loro e perciò comprendere e giustificare: si danno ‘catastroficamente’. Di qui l’esclusione dall’opera di Dostoevskij di quei ‘momenti privilegiati’ che ricorrono in Proust, nei quali la vita della coscienza si rivela come totalità, verità ed essenza”.

(Giuseppe Di Giacomo, “Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”, Editori Laterza)

Nell’estate del 2012, se la memoria non m’inganna, ascoltai una conferenza del professor Giuseppe Di Giacomo, ospite di una rassegna cinematografica organizzata nel mio paese. Avevo già letto un suo libro su Wittgenstein, oltre ad ascoltare alcune registrazioni di sue lezioni universitarie. Sono giunto, quindi, abbastanza preparato all’appuntamento con “Estetica e Letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”. Sapevo che avrei trovato argomenti di mio interesse, ma adesso posso affermare che un libro del genere avrei potuto scriverlo io. Prima che il lettore m’insulti per una possibile espressione di vanità personale, Continua a leggere…

“Cambiare idea” (Zadie Smith)

Cambiare idea

“Ci sono momenti in cui leggere Wallace diventa insostenibile, e il peso degli ostacoli che si accumulano di fronte al lettore sono insormontabili: mancanza di contesto, complessità retorica, individui orrendi, argomento grottesco o assurdo, lingua che è – allo stesso tempo! – puerilmente scatologica e fastidiosamente sibillina. E se uno è abituato a trovare sollievo nel “carattere” dei personaggi, be’, allora con Wallace si trova davvero in un vicolo cieco. I suoi racconti non indagano affatto il carattere dei personaggi: non se lo propongono neanche. Sono viceversa rivolti all’esterno, verso di noi. È il nostro carattere quello che viene sottoposto a indagine. Ma non si tratta propriamente di metafiction. L’autore di metafiction usava la ricorsività per sottolineare la mediatezza della voce narrante: per dire, in buona sostanza: “Io sono l’acqua, e voi state nuotando dentro di me”. La ricorsività, per questo tipo di autore, significa ritornare su sé stessi, circolarmente, in una serie infinita di regressioni. Questo testo non è neutrale, viene scritto da qualcuno, lo sto scrivendo io, ma io chi sono? E così via. Quello che è “ricorsivo” nei racconti di Wallace non è la sua voce narrativa ma il modo in cui scorrono le storie, e cioè come verbali di processi matematici, in cui almeno una delle fasi del processo richiede una nuova esecuzione di tutto il processo in questione. E siamo noi a doverle far scorrere in questo modo. Wallace ci colloca all’interno del processo ricorsivo, ecco perché leggerlo è spossante sul piano emotivo e intellettuale”.

(Zadie Smith, “Cambiare idea”, ed. Minimum fax)

Se dovessi indicare motivi validi per acquistare “Cambiare idea” di Zadie Smith, mi basterebbe scrivere un articolo nel quale tessere l’elogio del saggio che è contenuto nelle ultime cinquanta pagine, dedicato a David Foster Wallace e in particolare al suo “Brevi interviste con uomini schifosi”. Vincerò questa tentazione Continua a leggere…

I sospiri di Kafka per Milena «Sei entrata come la Medusa» (di Pietro Citati)

Sulla pagina Facebook di Pietro Citati, non so se gestita direttamente da lui o meno, ho trovato un articolo che mi ha colpito in modo particolare, dedicato al rapporto tra Franz Kafka, uno dei miei scrittori preferiti, e Milena Jesenská. Voglio condividerlo con voi questa bellezza. A scanso di equivoci, riporto prima il link alla fonte originale e poi l’articolo in questione. Non so se per colpa dei miei browsers, ma la lettura dell’originale sul sito è un po’ ostacolata dalla presenza di un refuso, il punto interrogativo in luogo dell’apostrofo. Ho dedicato cinque minuti a “ripulirlo” e lo pubblico sotto al link dell’originale. Resta inteso che, qualora l’autore (o chi per esso) ritengano che io debba toglierlo dal blog, non esiterò a farlo.

L’articolo è un po’ lungo, ma chi ammira Kafka dovrebbe leggerlo (ma lo suggerisco anche agli altri).

Ecco il link all’articolo pubblicato sull’edizione on-line del “Corriere della Sera”:
Pietro Citati su Kafka

I sospiri di Kafka per Milena «Sei entrata come la Medusa» (di Pietro Citati)

Nei primi giorni dell’aprile 1920, Franz Kafka scrisse due lettere a Milena Jesenská, una giovane ceca, che conduceva una vita triste a Vienna, accanto a un marito torturatore. L’aveva conosciuta a Praga nell’ottobre 1919, quando Milena aveva manifestato l’intenzione di tradurre in ceco i racconti di Kafka. Con rapidità e naturalezza, come se l’avesse conosciuta da sempre, Kafka confidò subito a Milena i grandi segreti della sua vita: la tubercolosi, la spiegazione psicologica della tubercolosi, il Processo al quale era sottoposto, i suoi fidanzamenti, il suo senso di colpa. Continua a leggere…

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