Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per la categoria “Filosofia”

“Il tempo della malafede e altri scritti” (Nicola Chiaromonte)

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“Vivere in una società di massa significa compiere automaticamente e per la maggior parte del tempo degli atti non liberi, facendo quel che si fa non perché sia naturale e neppure perché lo si ritenga positivamente utile, ma piuttosto per evitare le complicazioni e i mali che verrebbero (a sé e agli altri) dall’agire diversamente. Per il singolo individuo, ciò può essere più o meno penoso: i vantaggi che riceverà dal cedere alle esigenze collettive anziché resistervi potranno cioè essere più o meno grandi. Dal punto di vista della coscienza, però, quel che importa è che egli si sente soggetto a una forza maggiore la quale non deriva né da una norma morale, né dalla somma delle esigenze individuali, bensì semplicemente dal fatto dell’esistenza collettiva. È l’esperienza di un disordine retto da leggi di ferro.
È naturale che l’individuo, in una folla, conti solo come unità nel numero, per quello che ha di più strettamente e materialmente comune con gli altri; ma è anche una costrizione grave, perché un individuo può apparire come una semplice unità fisica solo se visto dal difuori: dal suo punto di vista, egli non può fare a meno di sentirsi il centro mobile e libero di una rete di rapporti vitali che riguardano non solo i propri simili, ma anche il mondo nel suo insieme e, nel mondo, il significato della propria esistenza. Ora le condizioni molteplici della società di massa hanno questo in comune, che in esse il punto di vista proprio dell’individuo si trova regolarmente represso e ricacciato nel fondo. Di qui, insieme alla passività inevitabile, un’esperienza di privazione e di tensione penosa; la mancanza di posto coinvolge la vita morale.”
(Nicola Chiaromonte, “La situazione di massa e i valori nobili”, in “Il tempo della malafede e altri scritti”, edizioni dell’asino)
Opera: “Sera sul viale Karl Johann”, Edvard Munch.

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“Si disimpara completamente a tacere”

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“In questo libro troviamo all’opera un <<essere sotterraneo>>, uno che perfora, scava, scalza di sottoterra. Posto che si abbia occhi per un tale lavoro in profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce e d’aria comporta; lo si potrebbe dire perfino contento del suo oscuro lavoro. Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compensi? Vuol forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora? Certamente egli tornerà indietro: non chiedetegli cosa cerca là sotto, ve lo dirà lui stesso, questo apparente Trofonio ed essere sotterraneo, quando sarà <<ridiventato>> uomo. Si disimpara completamente a tacere, quando si è stati così a lungo, come lui, una talpa, un solo…”

(Friedrich Nietzsche, “Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali”, ed. Adelphi)

“Ci si adegua al tono generale” (Denis Diderot)

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“Il fatto è che volenti o nolenti ci si adegua al tono generale; che prendendo parte a una riunione, capita di solito persino di atteggiare i tratti del proprio viso in armonia con quelli delle facce che si scorgono nel varcare la soglia di una casa; che, essendo di cattivo umore, si simuli un’allegra disposizione di spirito e, per contro, un’aria grave quando ci si sentirebbe in vena di piacevolezze; non ci si vuole, insomma, sentire estranei nei confronti di alcuno; e così il letterato fa politica, il politico metafisica, il metafisico diventa moralista, il moralista discute di finanza, il finanziere di belle lettere o di geometria e ciascuno, piuttosto che tacere o limitarsi ad ascoltare, va sproloquiando su tutto ciò di cui non sa nulla tra la noia generale sopportata per sciocca vanità o per buona educazione.”
(Denis Diderot, “Questo non è un racconto”, Ed. Est)

“Ella non osa parlarne, eppure ci pensa” (Søren Kierkegaard)

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“Perché tutto può dimenticare una ragazza, tranne una relazione. La vita di società, è vero, mette in contatto con il bel sesso, ma non permette di iniziare un rapporto, perciò vale a ben poco. In società ogni ragazza si presenta difesa dalle sue armi, la situazione è sempre la stessa e non suscita certo brividi di voluttà. Invece per la strada si trova come in alto mare, cosicché tutto ha maggiore effetto e sembra più misterioso. Darei cento talleri per il sorriso di una ragazza in strada, ma neanche dieci per una stretta di mano in un salotto. La cosa è ben diversa. Si deve cercare la ragazza in società solo se qualcosa c’è già stato. Si stabilisce allora una comunicazione invisibile e segreta tra noi e lei, e questo è seducente e rappresenta il miglior incitamento che io conosca. Ella non osa parlarne, eppure ci pensa. Non sa se abbiamo dimenticato o meno. La si può ingannare ora in un modo, ora nell’altro.

Quest’anno non mi andrà tanto bene con le altre, sono troppo preso da lei! Il mio bottino, in un certo senso, resterà magro, ma in cambio ho la speranza di ottenere il primo premio.”

(Søren Kierkegaard, “Diario del seduttore”, ed. Giunti)

“Il muro” (Jean-Paul Sartre)

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“In quel momento ebbi l’impressione che tutta la mia vita mi fosse davanti e pensai: <<È una sporca menzogna>>. Essa non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze: non avrei mosso neppure il dito mignolo se soltanto avessi potuto immaginare che sarei morto così. La mia vita era davanti a me, chiusa, sigillata come una borsa, eppure tutto ciò che vi era dentro era incompiuto. Un istante cercai di giudicarla. Avrei voluto potermi dire: è una bella vita. Ma non si poteva formulare un giudizio su di essa, era un abbozzo; avevo passato il mio tempo a rilasciar cambiali per l’eternità, non avevo capito niente. Non rimpiangevo nulla: vi erano un mucchio di cose che avrei potuto rimpiangere, il sapore dei manzanilla o i bagni che facevo in estate in una piccola conca vicino a Cadice; ma la morte aveva privato ogni cosa del suo incanto.”

(Jean-Paul Sartre, “Il muro”, ed. Einaudi)

“Il gaucho insopportabile” (Roberto Bolaño)

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“Scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che stanno per morire. Scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che sono in prigione e negli ospedali. Gli impotenti l’unica cosa che vogliono è scopare. I castrati l’unica cosa che vogliono è scopare. I feriti gravi, i suicidi, i seguaci irredenti di Heidegger. Perfino Wittgenstein, che è il più grande filosofo del Novecento, l’unica cosa che voleva era scopare. Perfino i morti, ho letto da qualche parte, l’unica cosa che vogliono è scopare. È triste doverlo ammettere, ma è così.”

“Racconta Canetti nel suo libro su Kafka che il più grande scrittore del Novecento capì che i suoi dadi erano tratti e che nulla ormai lo separava più dalla scrittura il giorno in cui per la prima volta sputò sangue. Che cosa intendo dire quando dico che nulla ormai lo separava più dalla sua scrittura? Sinceramente, non lo so bene. Intendo dire, suppongo, che Kafka capiva che i viaggi, il sesso e i libri sono strade che non portano da nessuna parte, eppure sono strade su cui bisogna spingersi e perdersi per ritrovarsi o per trovare qualcosa, qualunque cosa, un libro, un gesto, un oggetto perduto, per trovare qualunque cosa, forse un metodo, con un po’ di fortuna il nuovo, quello che è sempre stato lì.”

(Roberto Bolaño, “Il gaucho insopportabile”, ed. Adelphi)

“Del sesso” (Jean-Luc Nancy)

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“In questo sguardo, quello dell’altro e il mio, il mio visto in quello dell’altro e viceversa, vi è qualcosa di animale che guarda. Ossia qualcosa che non appartiene alla scena sociale, o meglio che le appartiene in modo diverso, o meglio ancora che appartiene a un’altra scena, la scena della comunicazione dei viventi. L’intimità vi si rivela più intima ancora dell’intimità stessa, poiché non può essere circoscritta come una sfera di estrema riservatezza, dove regnerebbe il diritto di un soggetto indipendente, una potenza sottratta a tutte le altre. Questa intimità non può essere descritta come quel tipo di potenza perché non cessa di ribaltarsi fuori di sé, è nell’imminenza sempre rinnovata di un’apertura sull’assenza di fondo.

Il corpo nudo non è l’ultimo grado di un processo di denudamento che alla fine raggiunge una verità spogliata di ogni artificio. Al contrario, esso è l’esposizione di ciò che non si lascia cogliere né identificare come verità, o almeno non come verità di adeguazione o di significazione. Il corpo nudo non offre la corrispondenza fra una forma e un contenuto, né fra una forma e se stessa. Al contrario, apre la verità che, svelandosi, vela la propria identità: non per dissimularla, ma per attestarne la fuga infinita.

L’intimità del corpo nudo è più intima dell’intimo, come l”interior intimo meo”, invocato da Sant’Agostino.”

(Jean-Luc Nancy, “Del sesso”, ed. Cronopio)

“… gli uni sensibili e sciocchi, e gli altri freddi e intraprendenti.”(Denis Diderot)

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Denis Diderot, “Paradosso sull’attore”, ed. Editori Riuniti.

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Nel dubbio su quale libro leggere, riprendo tra le mani “Aurora” di Nietzsche, senza l’intenzione di rileggerlo (per l’ennesima volta) tutto, bensì solo di cogliere, qua e là, qualche frammento. Apro, “a caso”, le pagine, e ne esce quanto segue:

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Amore (dal “Dizionario filosofico” di Voltaire)

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AMORE

Amor omnibus idem1. A questo punto bisogna far ricordo alla natura fisica; l’immaginazione ha ricamato la trama della natura. Se vuoi avere un’idea dell’amore, guarda i passeri o i piccioni del tuo giardino, oppure osserva il toro messo vicono alla tua giovenca; guarda il baldanzoso cavallo che due servi conducono dalla cavalla che lo aspetta tranquilla e scosta la coda per riceverlo; guarda come sfavillano i suoi occhi e ascolta i suoi nitriti; osserva bene quei balzi, quelle lievi impennate, quelle orecchie dritte, quella bocca che s’apre con piccole contrazioni, quelle froge che vanno dilatandosi, quel soffio ardente che ne esce, quella criniera che si drizza e ondeggia, quel moto imperioso con cui si slancia sull’oggetto che la sua natura gli ha destinato; però non essere geloso e pensa ai vantaggi della specie umana: essi compensano in amore tutti i vantaggi che la natura offre agli animali: forza, bellezza, leggerezza, rapidità.

Ci sono anche animali che non conoscono il piacere. I pesci non provano questo godimento; la femmina depone sul limo milioni di uova e il maschio che le trova vi passa sopra fecondandole col proprio seme, senza darsi pena della femmina a cui appartengono.

La maggior parte degli animali che si accoppiano gode con un solo senso e, soddisfatto che sia l’appetito, tutto si smorza. Nessun animale, tranne te, conosce gli amplessi. L’intero tuo corpo è sensibile; specialmente le tue labbra provano una voluttà di cui non ti stancheresti mai, e questo piacere non appartiene che alla tua specie. Infine, per te tutto il tempo dell’anno è buono per l’amore, mentre per gli animai c’è un periodo stabilito. Se rifletti su queste prerogative, dovrai convenire col conte di Rochester: <<L’amore, in un paese di atei, farebbe adorare la Divinità>>.

Siccome gli uomini hanno il dono di perfezionare tutto ciò che la natura offre loro, hanno perfezionato l’amore. La pulizia, la cura di se stessi, rendendo la pelle più delicata aumenta il piacere del tatto, e la cura della propria salute rende più sensibili gli organi del piacere.

Tutti gli altri sentimenti rientrano poi in quello dell’amore, come metalli che si amalgamino con l’oro; l’amicizia e la stima contribuiscono a svilupparlo, le doti fisiche e morali ne rafforzano le catene.

Nam facit ipsa suis interdum foemina factis,

Morigerisque modis, et mundo corpore cultu,

Ut facile insuescat secum vir degere vitam.2

L’amor proprio soprattutto rinsalda tutti questi legami. Ci si compiace della propria scelta, e una quantità d’illusioni sono gli ornamenti di quest’opera nostra di cui la natura ha posto le fondamenta.

Ecco ciò che possiedi al di sopra degli animali; ma se ti è dato di assaporare tanti piaceri che essi ignorano, quanti affanni devi poi provare dei quali una bestia non ha la minima idea! Quel che c’è di terribile per te, è che la natura nei tre quarti della terra ha avvelenato i piaceri dell’amore e le fonti della nostra vita con una malattia spaventosa, a cui solo l’uomo va soggetto e che infetta i suoi organi genitali.

E non si può dire che una simile pestilenza, come tante nostre malattie, sia la conseguenza dei nostri eccessi. Non sono stati gli stravizi a introdurla nel mondo. Le varie Frine, Laide, Flore e Messaline non ne furono assolutamente affette; essa è nata nelle isole in cui l’umanità viveva in uno stato d’innocenza, e di là s’è andata diffondendo nel vecchio mondo.

Se non si è mai potuto accusare la natura di disprezzare la sua opera, di contraddire ai suoi disegni, di agire contro le sue intenzioni, ecco un’occasione per farlo. È questo il migliore dei mondi possibili? Suvvia! se Cesare, Antonio, Ottaviano non hanno avuto questa malattia, non era possibile che non facesse morire Francesco I? No, dicono, le cose erano preordinate così per il meglio: vorrei crederlo, ma non mi è facile.

 (Voltaire, “Dizionario filosofico”)

1 <<L’amore è identico per tutti>>, Virglio, Georgiche, III, 244.

2 T. Lucrezio Caro, De rerum natura, lib. IV. <<Infatti la donna stessa talvolta con le sue azioni, / Le buone maniere e il culto accurato del corpo / Fa sì che l’uomo si abitui facilmente a passare la vita con lei>>.

 

 

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