Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Archivio per la categoria “Lynch”

La banda

“Essenzialmente (ma è proprio l’essenziale che sfugge) sarebbe così: fino a quel momento lo aveva colpito una serie di elementi anomali slegati: il falso programma, gli spettatori inappropriati, la banda illusoria in cui la maggioranza degli elementi era falsa, il direttore fuori posto, la finta sfilata, e lui stesso coinvolto in una cosa che non lo riguardava. Di colpo gli parve di capire in termini che eccedevano tutto infinitamente. Sentì come se gli fosse stato dato di vedere finalmente la realtà. Un momento della realtà che gli era sembrata falsa perché era quella vera, quella che ora non vedeva più. Ciò cui aveva appena presenziato era il vero, cioè il falso. Non sentì più lo scandalo di trovarsi attorniato da elementi che non si trovavano al loro posto perché, essendo conscio di un mondo altro, comprese che quella visione poteva essere ampliata alla strada, al Galéon, al suo abito azzurro, al suo programma per la serata, al suo ufficio di domani, al suo piano di economie, alle sue vacanze di marzo, alla sua amica, alla sua maturità, al giorno della sua morte. Per fortuna non continuava a vedere in questo modo, per fortuna era di nuovo Lucio Medina. Ma solo per fortuna.”
(Julio Cortázar, “La banda”, in “I racconti”, ed. Einaudi)

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Slavoj Žižek su “Strade perdute” di Lynch

“Tramite questo confronto diretto tra la realtà del desiderio e il fantasma, Lynch scompone l’ordinario ‘senso della realtà’ sostenuto dal fantasma in due parti: da un lato, la realtà pura e asettica, dall’altro il fantasma; le due componenti non si relazionano più verticalmente (il fantasma sostiene la realtà), ma orizzontalmente, una accanto all’altra. La notevole differenza esistente tra le due parti del film è la prova cruciale del fatto che il fantasma sostiene il nostro ‘senso della realtà’: la prima (realtà senza fantasma) è ‘superficiale’, oscura, quasi surreale, stranamente astratta, incolore, senza sostanza, enigmatica come un dipinto di Magritte, con gli attori che recitano come in una commedia di Beckett o di Ionescu, come automi alienati. Paradossalmente, è nella seconda parte (quella del fantasma) che ritroviamo un ‘senso di realtà’ molto più intenso e pieno, il senso di pienezza dei suoni e degli odori, di persone che si muovono nel ‘mondo reale’…”

(Slavoj Žižek, “Lynch: il ridicolo sublime”, ed. Mimesis)

zizek

“Il treno nei romanzi, i romanzi sul treno (più deliri assortiti)”

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“Un viaggio in treno può essere una cosa terribile, angosciosa o comica; può essere un volo di prova; può essere la prefigurazione di un altro viaggio, come un giorno passato con un amico può essere lungo, dal senso di fretta che si prova al mattino fino alla scoperta che entrambi si ha fame e al pranzo mangiato insieme. Poi viene il pomeriggio, la giornata sbiadisce e muore ma si ravviva nuovamente verso la fine. Dick era addolorato nel vedere la magra gioia di Nicole; pure per lei questo ritorno all’unica casa che conoscesse era un sollievo. Non fecero gli innamorati quel giorno, ma quando la lasciò fuori dalla triste porta sullo Zürichsce e lei si voltò a guardarlo, Dick capì che il problema di Nicole era un problema ormai comune a entrambi”.

(Francis Scott Fitzgerald, “Tenera è la notte”)

Il treno mi ha sempre affascinato e quindi le parole di Fitzgerald hanno attivato i miei neuroni, almeno quei pochi rimasti a combattere la battaglia, scatenando ricordi di vario genere. Prima di pensare a una forma estrema di masochismo, cosa che sareste giustificati a fare se volessi qui tessere l’elogio della bolgia dantesca che è possibile riscontrare su molti treni regionali, voglio subito precisare che il fascino consiste soprattutto nel suo valore metaforico, ma anche, al netto delle condizioni di disagio del pendolare, che ho vissuto sulla mia pelle e che rivivrò (questa è quasi una speranza, perché vorrebbe dire aver ritrovato un lavoro, n.d.r.), nelle possibilità di conoscenza che si hanno all’interno dei vagoni.

Dovevano ammirarlo anche tutti quegli scrittori che hanno ambientato episodi o interi romanzi su un treno. In quest’articolo riporterò alcuni brani tratti da diversi romanzi, scritti da personaggi che, a differenza mia, i neuroni sapevano utilizzarli al meglio. Prima di iniziare la rassegna, qualche breve considerazione sul mio rapporto con il treno, che potete tranquillamente saltare, non costituendo lo scopo principale dell’articolo, sempre che ne esita uno (di scopo). Innanzitutto, Continua a leggere…

Sogno (poco) lucido e (molto) sudato.

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(“…mi sveglio ancora e mi sveglio sudato…”)

So che sto sognando, anche perché nella stanza con me vedo troppa gente e soprattutto un tizio a me noto che attraversa un muro e scompare.

Chiedo a un amico: – Mi confermi che tutto ciò è solo un sogno?

– No. – risponde lapidario.

– Mi stai dicendo che questa è realtà, che quello lì può attraversare i muri e noi possiamo trovarci qui, ora, con questi sconosciuti, in questa strana stanza?

– Se guardi bene, quel tizio non ha attraversato alcun muro, si è infilato in un interstizio che tu, dalla tua posizione, non potevi vedere.

Mi sposto. Osservo. Ha ragione lui. Il tipo mi ha giocato uno scherzo, o forse ero solo distratto.

– Allora come spieghi la mia forte sensazione di essere in un sogno, anche se tu mi dici il contrario?

– Te la spiego con l’abitudine, difficile a sradicarsi, di distinguere così nettamente sogno e realtà. Tu sei convinto che questo sia un sogno solo perché questi personaggi, questi luoghi e queste dimensioni non si adattano alla tua convinzione di cosa debba intendersi per realtà. Se anche ti dimostrassero che questa è la realtà e che non stai sognando, tu, attaccato come sei alla tua presunta realtà, non accetteresti la dimostrazione, che peraltro qui non si può dare. È reale o appartiene al sogno il fatto che tu stia pensando?

(Questo è per la rubrica “Le Grandi Dichiarazioni che salveranno l’umanità”. Non so che fine abbia fatto il tipo nascosto nel muro, né chi esso sia)

 P.s.: per la cronaca, non ho avuto il tempo di rispondere al mio saccente amico, essendomi svegliato dal “sogno” (???) in un mare di sudore. Ciao.

Kafka era abbastanza kafkiano.

Kafka era un tipo abbastanza kafkiano, su questo non ho molti dubbi. Qualcuno in più, lo confesso, lo avevo su una questione grammaticale all’apparenza ovvia ma che mi ha procurato grattacapi e che soprattutto, una volta risolta, e ammesso che sia stata risolta, mi ha indotto a riflessioni dalla dubbia utilità ai fini della mia esistenza, ma che pure hanno avuto luogo. Sappiate, amabili lettori (la captatio benevolentiae ogni tanto è necessaria), che tanti anni fa ero solito scrivere la locuzione “sé stesso” nella maniera in cui l’ho appena scritta. Per motivi che non sto qui a spiegarvi, mi accorsi che quelle due parole risultavano troppo spesso accostate l’una all’altra in alcuni miei scritti e ben prima che potessi porre rimedio arrivò Nemesi, sotto forma di un’autorevole fonte grammaticale che mi suggerì, nell’orecchio, di evitare l’accento su “sé” quando tale parola è seguita da “stesso” o “medesimo”. Ingenuo come un bimbo, appurato che la fonte (non mi chiedete qual è, ma vi assicuro che era un dizionario o qualche sito specializzato in materia) era accreditata, decisi che avrei mutato tutti i “sé stesso” in “se stesso” (“sé medesimo” non l’ho mai usato, indagherò anche su questa forma di razzismo nei confronti della parola “medesimo”).

Presi, allora, il vizietto di scrivere “sé”, in maniera corretta, quando non fosse seguito da “stesso” e “se” quando invece “stesso” decideva di accodarsi all’amico. Ora, non la faccio tanto lunga anche perché il cuore dell’articolo doveva essere altro. Qualche giorno fa ho scoperto, sul sito della crusca, quanto segue: “Alcuni, quando il pronome è seguito da stesso e medesimo, tralasciano di indicare l’accento, perché in questo caso il se pronome non può confondersi con se congiunzione: se stesso, se medesimo. Noi, però, consigliamo di indicare l’accento anche in questo caso, e quindi di scrivere sé stesso, sé medesimo.” Continua a leggere…

“La coscienza dimeno”

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Interno di un edificio. Sono affacciato a una finestra dalla quale osservare il mondo esterno, ma non vedo nulla. Pochi metri più in alto c’è un’altra finestra. Per arrivare dalla prima alla seconda bisogna percorrere alcune scale disposte a spirale. Mi trovo ora di fronte alla seconda. Mi accorgo, però, che un altro me è ancora di fronte alla prima. Lo guardo, lui mi guarda. Poi, insieme, ci voltiamo verso le scale che ci collegano. Un terzo me le sta percorrendo, ma è indeciso se salire o scendere.

Si sente un vento impetuoso provenire dall’esterno. Mi spavento. Ci spaventiamo.

Mi sveglio all’improvviso. Mi trovo in un letto. Degli altri due non c’è traccia.

Sul comodino Kant. Forse dovrei leggere altro. Oppure cambiare dieta.

P.s.: approfitto della misera occasione concessami, per suggerire la visione di “Prima della pioggia” (“Before the rain”) di Milcho Manchevski, nonché di “Strade perdute” (“Lost highway”) di David Lynch, peraltro più noto.

“Lynch. Il ridicolo sublime” (Slavoj Žižek)


Consiglio questo breve saggio soprattutto, ma non solo, agli appassionati dei film di David Lynch. Partendo da considerazioni di carattere generale sulla figura della femme fatale in diversi film, Žižek analizza in seguito “Strade perdute” di Lynch, senza tralasciare, sia pure senza approfondire, la produzione precedente di Lynch.

I passaggi di carattere psicanalitico non appesantiscono la lettura e nel testo vi sono svariati riferimenti ad altri registi, a film, a quadri, libri, che arricchiscono la lettura stimolando alla futura visione o lettura degli stessi.

Non aggiungo altro, anche perché su Lynch, e in particolare su “Mulholland drive”, ho già delirato abbastanza in uno dei primi articoli di questo blog.
Vi lascio alle note di “Femme fatale” dei Velvet Underground e a un breve passaggio estratto dal testo.

“Il film Strade perdute di David Lynch, un’opera che funge efficacemente da meta-commento all’opposizione tra femme fatale classica e postmoderna, sembra fornire una via d’uscita. Il passo avanti di Strade perdute diventa visibile se lo paragoniamo a Velluto blu, precedente capolavoro di Lynch: in Velluto blu, passiamo dall’idilliaca vita di provincia della cittadina di Lumberton al suo cosiddetto lato oscuro, l’osceno universo sospeso tra incubo e farsa, infestato da rapimenti, sesso sadomaso, omosessualità violenta, delitti, etc. In Strade perdute, invece, l’universo noir di donne corrotte e di padri osceni, di delitti e di tradimenti, in cui entriamo dopo il misterioso cambio d’identità di Fred/Pete, protagonista maschile del film, non è messo a confronto con l’idilliaca vita di provincia, ma con la vita matrimoniale asettica, grigia e “alienata”, tipica della periferia delle megalopoli. Così, invece della tipica opposizione tra la superficie idilliaca iperrealista e il suo terrificante risvolto, c’è un’opposizione tra due orrori: da una parte l’orrore fantasmatico del tenebroso universo noir fatto di sesso perverso, di tradimenti e delitti, dall’altra la disperazione ancora più sconvolgente in cui ci porta la nostra scialba vita quotidiana fatta d’impotenza e sfiducia.”

(Slavoj Žižek, “Lynch. Il ridicolo sublime, ed. Mimesis, Minima/Volti”)

 

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