“Se gli eroi del romanzo ottocentesco lottano per far trionfare il senso, la totalità, sul non-senso del mondo (il mondo abbandonato da dio), Dostoevskij coglie il senso nel cuore stesso del non-senso. Per l’uomo di Dostoevskij tutto è nello stesso tempo senso e non-senso. Per questo in Dostoevskij c’è salvezza nell’abiezione estrema. Ogni tentativo di spiegare il personaggio, di ricondurlo a una logica coerenza, è vanificato: non c’è un ‘fuori’ dal quale il personaggio, e il lettore con lui, possa vedere e vedersi, distinguendo il senso dal non-senso, e superare così la sua fondamentale paradossalità; né si offre al personaggio alcuna possibilità di conoscersi, alcuna coscienza dei propri movimenti interni. Questi ultimi si producono infatti senza che nessuna spiegazione possa connetterli tra loro e perciò comprendere e giustificare: si danno ‘catastroficamente’. Di qui l’esclusione dall’opera di Dostoevskij di quei ‘momenti privilegiati’ che ricorrono in Proust, nei quali la vita della coscienza si rivela come totalità, verità ed essenza”.
(Giuseppe Di Giacomo, “Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”, Editori Laterza)
Nell’estate del 2012, se la memoria non m’inganna, ascoltai una conferenza del professor Giuseppe Di Giacomo, ospite di una rassegna cinematografica organizzata nel mio paese. Avevo già letto un suo libro su Wittgenstein, oltre ad ascoltare alcune registrazioni di sue lezioni universitarie. Sono giunto, quindi, abbastanza preparato all’appuntamento con “Estetica e Letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento”. Sapevo che avrei trovato argomenti di mio interesse, ma adesso posso affermare che un libro del genere avrei potuto scriverlo io. Prima che il lettore m’insulti per una possibile espressione di vanità personale, devo precisare che avrei potuto, ma anche avrei voluto e/o avrei dovuto, scriverlo, se solo avessi vissuto un’esistenza diversa da quella che nella realtà ho vissuto. In altre parole, se avessi scelto di frequentare la facoltà di Lettere invece che un’altra, se avessi seguito un certo itinerario e magari se fossi diventato un professore universitario o uno studioso, allora, e solo allora, avrei potuto anche scrivere un saggio come quello che ha scritto, invece, Di Giacomo.
Con ciò non sto affermando che l’avrei scritto alla medesima maniera o che ritenga le tesi di Di Giacomo infallibili; farei torto prima di tutto all’autore se pensassi ciò. Di sicuro lo avrei scritto alla mia maniera. Mi sto incartando in un discorso senza senso, ma voglio dire, in sostanza, che il saggio in questione concerne romanzieri che, per quanto assurde e temporanee siano certe classifiche, rientrano nella schiera dei dieci – quindici autori che ritengo fondamentali per la mia carriera da lettore. Ecco, un libro come questo io non ho potuto scriverlo per tanti motivi, ma se mi fossi cimentato in un’impresa simile, se avessi tentato, come ha fatto Di Giacomo, di analizzare certi autori, sono certo che, almeno per il 90% delle scelte, avrei concordato con quelle di Di Giacomo. Ma quali sono, dunque, questi autori che accomunano il professore a me?
Partendo da un’analisi introduttiva dei saggi di Lukács (del quale ho letto qualcosa, ma poco), Di Giacomo individua quella che, secondo lui, sono due linee narrative secondo le quali il romanzo si è sviluppato a partire dalla fine dell’Ottocento fino al Novecento inoltrato. La prima linea è quella che prende le mosse da Flaubert e si dipana attraverso i capolavori di Proust, Joyce e Musil. La seconda, invece, ha il suo gigantesco precursore in Dostoevskij e si sviluppa con Kafka e Beckett. È evidente che questa suddivisione non può essere così netta e che ciascun romanziere ha in sé elementi di altri e originalità proprie che non sono riducibili a classificazioni semplicistiche, ma Di Giacomo, con un’analisi ricca di riferimenti letterari e non solo, spiega come, a suo parere, vi siano da un lato romanzi “caratterizzati dall’elemento riflessivo e dal tema della ricerca del senso, ovvero della totalità all’interno dell’opera stesa”, e sono quelli della “linea” Flaubert-Joyce-Proust-Musil, mentre dall’altro vi siano romanzi che “appaiono invece privi di tali elementi: non si dà alcun tentativo di superare il non-senso del mondo nell’opera, poiché, essendo vanificata la possibilità stessa di distinguere il senso dal non-senso, la ricerca del senso è concepita come un compito che appartiene alla vita nella sua contingenza”.
Leggendo il saggio, ho sottolineato molti passaggi del testo e ho preso appunti, anche (ma non solo) finalizzati alla scrittura di quest’articolo. Mi rendo conto, però, che se dovessi sviluppare anche solo la metà delle frasi che mi sono segnato, l’articolo stesso si gonfierebbe al punto da diventare una sorta di riassunto del testo, il che non avrebbe senso, oppure un maldestro tentativo di commentarlo. Lasciando da parte tante altre considerazioni sui singoli autori, sul pensiero di Di Giacomo sugli stessi, sul fatto che io possa concordare (spesso) o meno (talvolta) su singoli passaggi, qui voglio piuttosto esprimere la sensazione di trovarmi in un ambiente a me familiare, cioè quello costituito da questo gruppo di romanzieri che certo sono stati presi ad esempio e che non esauriscono, per fortuna, il panorama letterario mondiale, ma che pure, per me, e lo ripeto ancora, sono stati decisivi.
Questo stesso blog, per quanto possa valere, deve la sua esistenza, e anche il titolo, a tutti gli autori analizzati da Di Giacomo. Scrivo questo per rilevare come questo saggio, che pure può essere letto da chiunque voglia incuriosirsi su certi temi, potrà essere goduto ancora di più da chi, come me, ha letto e riletto le opere di Dostoevskij, Kafka, Proust, Joyce, Musil, Beckett, Flaubert o, ancora meglio, anche i saggi di Lukácks e di Bachtin. È evidente come aver letto certi romanzi potrà consentire al lettore di condividere o dissentire da Di Giacomo, traendo linfa per ulteriori considerazioni sul mondo del romanzo e non solo.
Chiudo l’articolo senza addentrarmi in specifiche indicazioni circa i contenuti dei singoli capitoli o dei temi che sono trattati all’interno del libro. Chi ha letto i suddetti autori potrà immaginare da sé quali possano essere gli argomenti, chi non li ha letti potrà, invece, essere incuriosito dal saggio del professor Di Giacomo, il quale, forse, non saprà mai di aver scritto un’opera che anch’io avrei dovuto, potuto e voluto scrivere, sia pure diversamente, e che invece mi sono limitato a leggere e riportare quassù, su queste pagine virtuali e che appartengono a una linea narrativa del tutto personale eppure così tanto segnata dalla presenza di altrui parole.
“Kafka va ancora oltre. Nessun senso all’interno del non-senso, nessuna catastrofe può ormai salvare. La catastrofe è già avvenuta e ci ha privati della possibilità stessa di riconoscere il non-senso e con ciò di superarlo, svuotandolo dal suo stesso interno. La paradossalità dell’esistenza, dell’esser-dati-nel-mondo, non può salvare, ma solo condannare. Nei romanzi kafkiani i personaggi sono privati di ogni identità personale; il loro presente non è il risultato di un passato e perciò non è giustificato né giustificabile: si dà soltanto. Per questo, come nei due grandi romanzi, ll processo e Il castello, essi non hanno un nome, un nome come segno d’identità personale, ma solo un’iniziale, K. E così il personaggio, che non può neppure riconoscersi nella sua individualità, vede gli avvenimenti susseguirsi senza incatenarsi, gli effetti darsi senza causa, i segni moltiplicarsi senza formare un linguaggio. In questo senso si può cogliere la vicinanza e insieme la distanza tra Dostoevskij e Kafka, e il loro radicale distacco dai romanzi romanzi del XIX secolo”.
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