“Re, donna, fante” (Vladimir Nabokov)
“Quando invece era solo con Martha, sentiva costantemente una languida pressione alla sommità della spina dorsale, gli si stringeva il petto, gli si indebolivano le gambe e le sue dita conservavano a lungo la fresca forza della stretta di mano della donna. Riusciva a calcolare con approssimazione di un centimetro la misura esatta in cui lei mostrava le gambe passeggiando per la stanza o sedendosi con le gambe accavallate e percepiva, quasi senza guardare, la tesa lucentezza delle sue calze, il rigonfiamento del suo polpaccio sinistro sopra il ginocchio destro; e la piega della gonna, declive, morbida, leggera, nella quale sarebbe stato bello affondare il viso. A volte, quando si alzava e gli passava davanti per avvicinarsi alla radio, la luce la colpiva con un’angolazione tale da lasciar intravedere la linea delle sue cosce attraverso il leggero tessuto della gonna; e una volta che aveva una smagliatura a forma di scala in una calza, si era leccata un dito per tamponare rapidamente la seta. Ogni tanto, quella languida sensazione di peso diventava troppo opprimente e allora, approfittando magari di un momento in cui i suoi occhi erano rivolti altrove, perlustrava la sua bellezza cercandovi qualche piccolo difetto sui cui potesse far leva per calmare la sua fantasia, e per lenire quindi l’implacabile tumulto dei sensi.”
(Vladimir Nabokov, “Re, donna, fante”, ed. Adelphi)
In un’introduzione scritta nel 1967, Nabokov afferma che “Re, donna, fante” è il suo romanzo più allegro, oltre a spiegarci che fu pubblicato una prima volta nel 1928 a Berlino, con un diverso titolo, ad opera di una casa editrice specializzata nella pubblicazione di opere di emigranti russi, per poi essere tradotto in inglese dal figlio nel 1966, e infine ripubblicato dopo un ulteriore “abbellimento del cadavere” ad opera del grande romanziere, il quale è, a mio parere (e non solo) e sulla scorta di tutti i titoli letti finora, uno dei più grandi autori del Novecento. Bella scoperta, la mia! Con Nabokov anche quello che potrebbe essere catalogato come un classico triangolo passionale, diventa un esercizio affabulatorio, un’elegante immersione nel mondo delle parole, una trama che ammalia, avvince, fa restare con gli occhi incollati alle pagine.
Nel risvolto di copertina dell’edizione Adelphi è scritto che “Nabokov ci descrive la bellezza vuota e rapace di una donna fredda, l’estasi labile e sgomenti di chi l’ammira, la felice astrazione di chi guarda e non vede”. In altre parole, Nabokov ci narra la storia di Kurt Dreyer, uomo d’affari di mezza età, ricco, sposato con Martha, arpia che lo sfrutta a dovere e riesce a celargli la relazione con Franz, giovane nipote dell’uomo, incontrato dai due “per caso” sul treno che portava tutti a Berlino, e destinato a lavorare presso l’azienda dello zio. In sostanza, senza svelare oltre, si può dire che sul piano della trama tutto è detto: lui, lei, l’altro. La grandezza, però, sta nel come l’autore ci trascina in questo vortice d’inganni, finzioni, ipocrisie, ma anche ardori. E il come di Nabokov è, al solito, grandioso, capace di rendere intrigante persino uno sbadiglio.
La bellezza di Nabokov è a stento paragonabile e, dio, che meraviglia quell’estratto – più simile alla scena di un film o ad una fotografia in movimento per quanto ben descritto.
Sono d’accordo, mi è parso di essere lì sulla scena, mentre la leggevo. Evocativa al massimo. 😛