Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

“Conoscerete la nostra velocità” (Dave Eggers)

eggers

“L’anno appena passato era stato il più strano della mia vita, il più brutale e bizzarro. Avevo perduto Jack e mi era capitato tra le mani più denaro di quanto avessi mai visto in una volta. Mi capitava sempre più spesso di svenire e inciampare. Sentivo troppo e troppo intensamente. Ogni cosa mi si gettava davanti agli occhi. Passavo ore a galleggiare in questa o quella piscina, o seduto per interi pomeriggi in terrazza a osservare mediocri panorami. Mi sentivo invadere da una gioia subitanea, sin eccessiva, di fronte a una coppia felice. Vedevo o sentivo parlare di gente, di solito gente che conoscevo appena o che magari neppure mi piaceva più di tanto, mi dicevano che si erano messi insieme, si erano trovati dopo tante tribolazioni, e mi sentivo invadere da una sorta di incanto. Ero preso in contropiede dalle cose più familiari.”

(Dave Eggers, “Conoscerete la nostra velocità”, ed. Piccola Biblioteca Oscar Mondadori)

Se qualcuno mi avesse proposto di leggere un romanzo che narra le vicende di due amici che decidono di viaggiare per il mondo con lo scopo di spendere quanto più denaro possibile, credo che mi sarei rifiutato, perché poche cose possono essere più lontani dalla mia attuale condizione. Non viaggio granché, per motivi che qui non è il caso di analizzare, e soprattutto non ho somme di denaro da elargire in maniera più o meno casuale. Detto ciò, è evidente che per apprezzare un romanzo non serve condividere le esperienze dei protagonisti, né sentirle vicine a sé sotto tutti gli aspetti. C’erano altre due condizioni per rendermi inappetibile “Conoscerete la nostra velocità” di Dave Eggers. Il titolo “furbo”, anche se non “furbo” quanto “L’opera struggente di un formidabile genio” e il fatto che l’autore fosse (anzi, sia) un contemporaneo, un vivente (almeno nel momento in cui scrivo, sono ammessi inutili gesti scaramantici).

Premesso ciò, se sono qui a scriverne, significa che il romanzo di Eggers mi è piaciuto, sebbene non abbia i requisiti per entrare nel mio personale Olimpo dei romanzi preferiti. A dirla tutta, forse (ma non ne sono sicuro, in questo entra sempre un effetto suggestivo dato dalla distanza temporale) apprezzai di più l’altro. Finora sembra che io voglia quasi stroncare Eggers, cosa che, invece, mi guardo bene dal fare, perché non ne vedo i motivi. La trama, di per sé, ripeto, non aveva nulla per cui potessi restare avvinto, ma è bene accennarne: Will, un giovane, si trova tra le mani una somma di denaro che ritiene di dover sperperare, per un motivo che qui non anticipo; propone a Hand, un suo amico, di fare un mini-giro del mondo in sette giorni. Lo scopo è all’apparenza semplice: viaggiare, viaggiare, viaggiare e spendere tutto il denaro. I due faranno tappa in diverse zone del mondo, ma si accorgeranno che il loro piano non è così semplice da attuare, e che lo stesso scopo provoca domande che non hanno risposte sicure, per esempio: a chi dare il denaro, con quali criteri scegliere?

Nel ripetere che, messa così, questo romanzo non avrebbe potuto interessarmi, eccomi finalmente a elencare qualche motivo che me l’ha reso appetibile. Innanzitutto, la scrittura (la traduzione, è sempre bene tenere presente che leggo in lingua non originale) di Eggers, che già avevo conosciuto nell’altro romanzo e che si è confermata di livello. Non scopro certo chissà che, ma, così come mi è capitato con altri autori, si può scrivere bene e rendere attraente per il lettore, anche su qualcosa che il lettore sente come molto lontano da lui. Sotto questo profilo, il libro ha ritmo e, nonostante lo sfondo tragico che aleggia sui due protagonisti, è molto divertente.

Lo “sfondo tragico” è Jack, un terzo amico, morto (non sto svelando nulla d’irreparabile, lo si scopre al primo rigo del romanzo); la sua assenza-presenza è ciò che fa fare al romanzo quel salto che me lo ha fatto apprezzare. Con l’utilizzo dei flashback e di un altro accorgimento “tecnico”, Eggers ci introduce nella testa di Will, il protagonista-narratore, negli improvvisi e devastanti ricordi che, nel bel mezzo del traffico o di qualsiasi altra attività, lo portano lontano, a una velocità che fa male. Will sente di avere, dentro di sé, un archivio di ricordi dai quali deve tenersi distante, perché il dolore che destano in lui è troppo forte; il principale è proprio il ricordo di Jack, l’amico morto. È qui che il romanzo acquista, almeno ai miei occhi. Le scorribande di Will e dell’entusiasta e più disinvolto Hand possono divertirmi, ma sono i pensieri che Will fa “tra sé e sé” a rendermelo gradito.

Chiudo con la sensazione di aver scritto tutt’altro rispetto a quello che avevo progettato di scrivere (ma questo conta poco ai fini del romanzo). Peraltro, il motivo che mi ha fatto veramente apprezzare il libro non posso scriverlo qui, perché, di fatto, dovrei scrivere a mia volta un romanzo, e non è il momento, né forse lo sarà mai.

“Non puoi tirare a indovinare sulla vita, sul dolore. Tutto il dolore è reale e personale. Ed è la cosa più intimamente nostra. Divora ognuno di noi in modo differente. Tu non puoi sapere…

– E invece posso! Sì che posso!”

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